Aveva proprio urgenza di portarlo a casa questo Scudetto, il Napoli: con cinque partite ancora da disputare, gli azzurri hanno eguagliato il record per il campionato vinto col maggior numero di gare d’anticipo, cinque. Il primato risaliva addirittura al 47/48, e il suo detentore era il Grande Torino: è romantico che la squadra di Spalletti non lo abbia battuto con la Salernitana, ma che lo abbia pareggiato proprio il 4 maggio, nella giornata della commemorazione della tragedia di Superga.
Il destino e Boulaye Dia hanno tenuto vivo il record del Toro, ma non hanno comunque tolto grandezza al Napoli, che ha vinto senza doversi sorbire l’ansia di un avversario alle calcagna fino alle ultime giornate. Una marcia trionfale, che avremmo potuto aspettarci dal Bayern Monaco in Bundesliga, o dalla Juventus nei suoi anni di dominio in Serie A, ma che non è nemmeno così illogica per la costanza mantenuta dai partenopei nella storia recente del calcio italiano.
Il Napoli di De Laurentiis ha vissuto cinque cicli e diversi interregni. La prima volta che si è fatto sedurre dall’idea dello scudetto risale ad oltre dieci anni fa. Era il 2010/11, Mazzarri era al suo secondo anno al San Paolo e nei piani di società e tifosi non c’era di certo lottare per la vittoria. Quell’estate era arrivato Cavani, ma l’uruguayano non era mai esploso davvero nei suoi anni a Palermo e non aveva di certo numeri da giocatore in grado di elevare lo status della sua nuova squadra. L’arrivo del Matador, poi, non aveva lenito del tutto la delusione nei confronti di Quagliarella, eroe dei mondiali in Sudafrica e ceduto alla Juventus in agosto.
Nessuno immaginava che a fine febbraio quel Napoli potesse competere davvero per lo scudetto. Invece, Mazzarri aveva saputo portarsi in scia di Milan ed Inter, e alla vigilia della partita di San Siro con i rossoneri, sembrava dovesse esserci davvero una terza contendente al titolo: le milanesi erano più forti, ma Hamsik, Lavezzi e Cavani attaccavano gli avversari ad una velocità insolita per il nostro campionato in quel periodo. Alla fine, nello scontro diretto, una delle ultime grandi serate di Alexandre Pato aveva dissolto le ambizioni dei partenopei. Un 3-0 che non aveva comunque interrotto la strada verso la qualificazione in Champions, il primo step per salire di grado nelle gerarchie del calcio italiano. Da allora, la crescita degli azzurri è stata esponenziale.
L’inizio del percorso verso lo scudetto, in un certo senso, parte in quella stagione. La costruzione della squadra e il modo in cui è arrivato il titolo, però, nascono qualche anno più tardi. La continuità tecnica che ha portato il Napoli a vincere e ad affermarsi come una delle squadre più brillanti d’Europa, risale all’estate 2015, dal momento dell’arrivo di Giuntoli e Sarri. Sono stati loro a cambiare l’identità del club, a convincere la società che bisognasse seguire una certa strada per arrivare ai risultati.
La Serie A, oggi, è lontana dai fasti degli anni ‘90 o di inizio millennio. Un grande pregio di quest’epoca del nostro calcio, però, è la biodiversità delle migliori squadre, in particolare di quelle che hanno vinto lo scudetto. Basta fare una rassegna delle ultime tre stagioni. Prima c’è stata l’Inter di Conte, tra i capolavori del tecnico salentino, un’ispirazione per tanti tecnici italiani ad ogni livello. Un 3-5-2 dalla fase difensiva solida e con meccanismi offensivi congegnati al millesimo: uno degli ultimi grandi esempi di fordismo applicato al calcio. Poi c’è stato il Milan di Pioli, squadra di pressing alto e transizioni, quasi controculturale in Italia. E adesso il Napoli, una squadra fluida, con concetti chiari ma senza pattern precostituiti, dove al centro di tutto vi sono una qualità tecnica e di interpretazione ben più alte rispetto alla concorrenza.
Nel discorso pubblico, spesso si dice che la società di De Laurentiis sia diventata davvero grande grazie a Rafa Benitez. Lo spagnolo non aveva raggiunto i risultati sperati, ma aveva costretto De Laurentiis a fare un passo in avanti. Dopo aver pescato da campionati minori e dai bassifondi della Serie A, con l’arrivo dell’ex tecnico del Liverpool e con i soldi della cessione di Cavani, il Napoli aveva iniziato ad alzare il tiro sul mercato. La strategia, però, era ben diversa da quella di oggi. Per costruire da subito una squadra in grado di vincere, gli azzurri avevano acquistato soprattutto nomi d’esperienza. Particolare la sinergia con il Real Madrid, pieno di esuberi nell’estate della transizione da Mourinho ad Ancelotti. Bigon, allora ds dei partenopei, ne aveva approfittato per accaparrarsi nomi di spessore come Higuain, Albiol e Callejon.
Non era quello il tipo di profili che avrebbe permesso al Napoli di arrivare allo scudetto. La strada avrebbero iniziata a tracciarla acquisti come Mertens, Ghoulam, Jorginho, arrivati nel corso della stessa stagione. Tutti nomi pescati da squadre di seconda fascia, a prezzi contenuti. Rispetto all’epoca dei Gargano, dei Maggio, degli Inler, però, si trattava di giocatori di grande tasso tecnico, al netto della poca fama. Il Napoli stava prendendo una sua forma attorno a quel tipo di calciatore. Bastava solo trovare un allenatore in grado di valorizzarli: Benitez era un tecnico pluridecorato, tra i migliori al mondo, ma forse non il più adatto per una rosa del genere.
Tecnica, controllo, continuità di risultati
Gli azzurri avevano grande qualità, ma nessun giocatore autosufficiente, a parte Higuain. Una squadra dagli ottimi piedi, ma poco duttile, distante da alcuni canoni del calcio di Benitez. Certo, sulla partita secca quel Napoli era in grado di dare filo da torcere a chiunque, proprio come ci si aspettava da una squadra dell’ex manager del Liverpool. Alla lunga, però, il Napoli non aveva le carte in regola per essere competitivo. Alla fine della stagione 2014/15, Il Napoli aveva mancato la qualificazione in Champions all’ultima giornata, in casa contro la Lazio di Pioli. La squadra aveva dimostrato poca continuità, aveva perso troppi punti contro squadre di media-bassa classifica. Di fronte ad avversarie di livello inferiore, il Napoli faticava a trovare la concentrazione e l’aggressività dei giorni migliori, soprattutto in fase difensiva. Col pallone, poi, emergevano tutte le difficoltà ad attaccare difese schierate. Benitez non si era mai distinto per la sua fase offensiva. Le sue squadre attaccavano in transizione, lasciavano il pallone agli avversari, cosa che il Napoli, in Serie A, non poteva fare.
In più, l’idea di gioco del tecnico spagnolo esponeva alcuni limiti dei singoli. Hamsik, da trequartista, spalle alla porta, aveva vissuto le sue due stagioni peggiori. Jorginho, nel doble pivote, non era centrale nell’impostazione, spesso si alzava quasi da mezzala, e comunque in una squadra che saltava il centrocampo per andare dalle punte il suo contributo era secondario. Insigne, costretto a ripieghi profondi, non poteva dare il meglio di sé e non aveva compagni vicino con cui scambiare.
La scelta di separarsi da Benitez per affidarsi a Sarri poteva sembrare un ridimensionamento. In realtà, è stata la mossa che ha proiettato gli azzurri in una nuova dimensione. Il tecnico toscano ha messo al centro del progetto le sue idee e la qualità degli interpreti. Il Napoli continuava ad avere il possesso del pallone in Serie A, ma adesso sapeva cosa farci, sia contro le grandi che, soprattutto, contro le piccole. A Sarri interessava dominare la partita attraverso il pallone e aveva gli uomini giusti per farlo. Rispetto al suo Empoli, anche per via della transizione dal 4-3-1-2 al 4-3-3, aveva potuto aggiungere ulteriori passaggi intermedi, che rendevano ancora più capillare il controllo della sua squadra sulle partite. Era difficile, per gli avversari, non rimanere disorientati di fronte a uno sviluppo del gioco tanto fitto, veloce e preciso. In più, il possesso prolungato, l’occupazione degli spazi e la densità intorno al pallone permettevano di mantenere le giuste coperture preventive e di riaggredire appena persa la palla, così da moltiplicare i possessi nella metà campo avversaria, con ricadute positive per la fase difensiva: il Napoli di Benitez aveva chiuso il 2014/15 con 54 gol subiti, il primo Napoli di Sarri ne aveva subiti appena 32.
Il controllo della partita attraverso il pallone, una fase offensiva florida, capace di scardinare blocchi bassi e la conseguente efficienza difensiva, spiegano il rendimento in campionato del Napoli durante le tre stagioni di Sarri. Lo scudetto alla fine non è arrivato, ma il Napoli si è sempre qualificato senza problemi in Champions e per tutti e tre i campionati ha ritoccato il record di punti nella storia del club: 82 nel 2015/16, 86 nel 2016/17, 91 nel 2017/18.
Dominare tecnicamente contro qualunque avversario è ciò che ha permesso al Napoli di performare in modo così costante in Serie A. Sarri con le sue idee ha fornito le linee guida, poi i giocatori si sono adattati alla perfezione, perché il controllo del pallone era nella loro natura. Dopo l’addio di Sarri, la tecnica è rimasta il tratto distintivo della rosa. Anche Ancelotti e Gattuso avevano cercato di mantenerla al centro dei propri progetti, ma con sfumature che non si addicevano alle caratteristiche di alcuni giocatori.
Con Ancelotti è riemerso il problema di non avere giocatori autosufficienti, in grado di fare la differenza senza ricevere troppi input dal sistema. Alla sua maniera, il tecnico di Reggiolo aveva provato a demandare più responsabilità ai singoli – e infatti aveva richiesto un ispiratore a tutto campo come James – ma evidentemente non c’era il livello adatto per farlo. In più, l’abitudine dei calciatori del Napoli a praticare un metodo di lavoro diverso come quello di Sarri deve aver contribuito alla scissione con i giocatori (in proporzione, come era accaduto al Bayern, quando Robben si era lamentato del carattere blando degli allenamenti). Anche Gattuso aveva provato a mettere in risalto la qualità dei suoi giocatori: lo aveva fatto, però, soprattutto in fase di costruzione bassa, dove però la squadra si era spesso dimostrata incline all’errore. Il Napoli di Gattuso voleva attaccare in campo lungo, o attraverso la costruzione, o difendendo basso per poi ripartire. La squadra faticava a risalire il campo, nonostante gli acquisti di Osimhen e Lozano, mentre contro difese chiuse ci si rintanava negli isolamenti delle ali.
Il nuovo, vecchio, Napoli di Spalletti
Così, si giunge all’arrivo di Spalletti, partito da un organico simile a quello dei suoi predecessori. Solo la scorsa estate il Napoli ha tagliato i ponti col passato, almeno a livello di nomi: sono partiti Insigne, Mertens, Koulibaly e Fabian, rispetto al vecchio ciclo non ci sono mai stati Jorginho e Hamsik. Tuttavia, l’idea di mantenere il dominio attraverso il pallone è rimasta. In entrambe le annate, il tecnico di Certaldo ha saputo ricostruire le certezze che avevano reso così regolare il rendimento del Napoli con Sarri. Dal primo anno di Sarri alla scorsa stagione, il Napoli era finito sul podio della Serie A per ben cinque campionati su sette. Una continuità di piazzamenti inferiore solo a quella della Juventus nello stesso periodo. Ormai, mancava giusto il primo posto.
Rispetto al triennio 2015-2018, ci si è appoggiati di più alle qualità dei singoli, ma sempre inquadrate all’interno di idee chiare e condivise. Come ha scritto Dario Pergolizzi, al San Paolo Spalletti ha impiantato un sistema che oscilla «dai principi di gioco che incontrano le qualità individuali, alle qualità individuali che generano i principi di gioco». Non è un caso, allora, che lo Scudetto sia arrivato proprio quest’anno, quando il mercato ha aumentato sensibilmente il valore dei profili in rosa. Il Napoli di Spalletti restringe e dilata gli spazi a proprio piacimento. A livello collettivo, per efficienza, ha toccato nuovamente i picchi di Sarri. Rispetto a quell’epoca, però, è una squadra molto più minacciosa a livello individuale, anche perché la società ha saputo diversificare le caratteristiche del roster.
Da qualche anno, ormai, la dirigenza prova ad aggiungere muscoli e velocità alla squadra. Una scelta che ha permesso agli azzurri di adeguarsi agli standard del calcio di oggi: Lozano, Osimhen, Kvaratskhelia, anche Olivera, sono tutti acquisti che hanno alzato il livello atletico di una squadra che altrimenti sarebbe stata un po’ piatta e anacronistica.
Nonostante l’aggiunta di giocatori del genere, però, il Napoli non ha abbandonato la propria vocazione per un gioco di tocco. Non lo hanno fatto nemmeno Giuntoli e i suoi, che hanno sempre riservato un occhio di riguardo alla tecnica, qualcosa di insolito per il mercato italiano, dove si lavora per occasioni, con una serie di nomi limitati, e dove la qualità dei piedi non è di certo uno dei parametri più richiesti. È naturale, dunque, che in questi giorni si parli del possibile arrivo di Thiago Almada, trequartista argentino da qualche tempo in MLS ma dalla classe purissima. Così come è naturale che la società di De Laurentiis abbia spesso pescato dalla Liga, la casa della tecnica per eccellenza. Dal campionato spagnolo erano arrivati Fabian Ruiz e Lobotka e anche Zambo Anguissa.
Dello Scudetto del Napoli abbiamo parlato anche nel nostro talk sulla Serie A, La Riserva.
Proprio gli acquisti dello slovacco e del camerunese aprono uno squarcio sul modus operandi del Napoli. Se la dirigenza o gli scout si invaghiscono di un giocatore, si continua a seguirlo per anni, anche durante stagioni difficili. Poi, se c’è convenienza economica, si prova a piazzare il colpo. Lobotka arrivava da un paio di annate grigie al Celta Vigo: per un periodo era stato uno dei registi più promettenti d’Europa, ma di lui si erano perse le tracce. Anguissa, invece, dopo una grande stagione in prestito al Villarreal, era ritornato al Fulham, nel tritacarne della Premier, dove era retrocesso. Quando tutti si erano dimenticati di loro, Giuntoli li ha portati a Napoli e gli ha restituito nuovo splendore. È soprattutto grazie alla loro qualità, al modo in cui si scambiano pallone e posizione, che il Napoli ha potuto instaurare un gioco di controllo. Lobotka è un maestro sotto pressione, impossibile togliergli la palla, incaricato di radicare il dominio del Napoli attraverso i passaggi e le conduzioni. Anguissa, invece, è un giocatore che rompe alcuni preconcetti e che aiuta a scoprire chi ragiona in base agli stereotipi. A pochi centrocampisti piacciono i preziosismi più che al camerunese, che si ingegna per trovare modi creativi di spezzare i raddoppi. Preciso negli appoggi, la sua influenza arriva fino all’area avversaria, dove aiuta a far fiorire il gioco sia in profondità che nello stretto.
Di Anguissa si sa per certo che gli azzurri lo seguissero dal 2015, dai tempi del Marsiglia. Si erano invaghiti di lui Maurizio Micheli e Leonardo Mantovani, collaboratori di Giuntoli ed esperti di mercati periferici, in particolare di quello africano. Nella loro rete di contatti c’era un ex osservatore del Bologna, che oggi lavora come barista ad Anzola dell’Emilia: quest’ultimo pare avesse notato Osimhen già nel 2015 e che avesse passato la soffiata ai dirigenti partenopei. Storia simile quella di Kvaratskhelia, scoperto nel 2018 grazie all’intermediazione di Christian Zaccardo e acquistato a prezzo di saldo per via della guerra in Ucraina solo nel 2022. Insomma, la perseveranza è una chiave nel mercato del Napoli.
Di Micheli e Mantovani si dice che siano le menti dietro le strategie degli azzurri. Scout di lunga data, raccontano di aver quasi portato Kakà a Brescia a inizio millennio (il Sao Paulo avrebbe fatto saltare all’ultimo la trattativa perché aveva già ceduto l’attaccante-simbolo França al Bayer Leverkusen). Erano stati loro a scoprire Hamsik per conto delle rondinelle e pare avessero costretto il presidente Gino Corioni a montare cinque antenne paraboliche per coprire qualsiasi campionato nazionale.
Le radici del Napoli
Grazie al lavoro della dirigenza nelle ultime sessioni di mercato, il Napoli di Spalletti ha mantenuto il core di tecnica, ma lo ha potenziato con un atletismo e una profondità che non solo gli danno tutt’altro senso, ma che gli hanno offerto anche quella varietà di soluzioni che a Sarri mancava – ad esempio, la possibilità di alzare il pallone verso Osimhen, o di giocare in campo lungo. Nel Napoli di Sarri, gli unici giocatori in grado di offrire profondità erano Callejon – comunque molto limitato fisicamente – e Ghoulam, capace di dare sbocchi in verticale sia senza palla che con le conduzioni: non è un caso che dopo il suo infortunio il Napoli fosse diventato più prevedibile e che gli ultimi mesi di Sarri a Napoli fossero stati faticosi anche dal punto di vista del gioco. Adesso, invece, con la minaccia di Kvaratskhelia e Osimhen, per gli avversari non basta concentrarsi sullo sviluppo collettivo.
Sono loro le variabili che hanno condotto al titolo. Il terreno su cui è germogliato il loro talento unico, però, rimane lo stesso che ha stabilizzato il Napoli nelle zone alte della classifica. La Juventus, forse, avrà picchi più alti, ma nessuno ha la tecnica diffusa dei partenopei. È quella sensibilità nei piedi a segnare veri e propri punti di congiunzione col ciclo di Sarri. Per esempio, oggi come allora non c’è nessuno in Italia che giochi a parete meglio dei centrocampisti del Napoli. I tre ruotano, scambiano posizioni, e dopo aver portato fuori posizione l’uomo appoggiano spalle alla porta di prima al compagno più vicino per far muovere velocemente il pallone. Poi ci sono anche dettagli marginali come il modo di battere il calcio d’inizio, con tutti i giocatori allineati a centrocampo e il lancio verso la rimessa laterale.
Se proprio vogliamo trovare un giocatore che rappresenti un trait d’union, quello è Piotr Zielinski, per i più critici troppo evanescente, ma centrocampista dalla tecnica immacolata. Zielinski era stato uno dei migliori del Napoli durante la seconda stagione di Sarri, dove la squadra aveva toccato lo zenit del suo gioco. Le sue sterzate di tacco, che spesso lasciano sulle gambe il marcatore, rappresentano bene il rapporto privilegiato degli azzurri col pallone.
Del legame tra la sua squadra e quella del triennio 2015-2018 aveva parlato anche Spalletti, prima della gara con la Lazio di marzo: «Ci portiamo dietro una cultura di lavoro che hanno iniziato anche gli altri, anche un modo di stare in campo […] questa idea di voler fare la partita, comandare il gioco. Possesso palla, non possesso palla, è stato un tema. Ti dà la possibilità di decidere dove andare a giocare la partita, poi è fondamentale saper alternare ritmi e dimensioni del possesso palla ma sono discorsi un pochettino più profondi. Bisogna saper alternare, anche il calcio verticale […]. Sui campi di Castel Volturno ci sono ancora le linee di passaggio del Napoli di Sarri e quando il pallone segue quelle linee arriva più velocemente».
Comandare il gioco, come dice Spalletti, ormai fa parte del DNA degli azzurri. Il tratto più affascinante di questa storia, che ormai dura da anni, è che il Napoli prova a dominare gli avversari come farebbero superpotenze quali Manchester City, Bayern Monaco o Barcellona pur senza avere i loro mezzi. Controllo, per il Napoli, è ancora la necessità di dover aggiungere qualcosa, tramite il gioco, al fatto di non avere i migliori fuoriclasse.
Viviamo in un’epoca in cui la qualità tecnica, di per sé, non vale molto se non accompagnata da qualità fisiche debordanti. Del resto, senza la diversità di Osimhen il Napoli sarebbe rimasto una squadra da piazzamento in Champions. Però, il fatto che al San Paolo si riesca a valorizzare quel tipo di controllo tecnico, puro ma allo stesso tempo fragile, è qualcosa di prezioso. Lo stesso Kvaratskhelia, che con la palla può saltare chiunque, non è un giocatore in grado di tritare le difese di pura forza di volontà, come ha dimostrato l’eliminatoria col Milan.
Cinque anni fa circa, Spalletti si trovava sulla panchina dell’Inter quando i nerazzurri persero per 2-3 in casa contro la Juventus. Era la famosa partita dello scudetto perso in albergo. A pochi minuti dalla fine, con la squadra in vantaggio per 2-1, tolse Icardi per inserire Santon, un cambio sciagurato a posteriori. Per i più rancorosi, Spalletti starebbe restituendo al Napoli qualcosa che gli aveva tolto, anche se lui ha negato ogni responsabilità. Difficile fare speculazioni su una situazione simile. Di certo, quel Napoli reagiva male a certi imprevisti: la prima batosta nella lotta scudetto era arrivata al San Paolo contro la Roma, poche ore dopo che Dybala aveva deciso Lazio-Juve oltre il 90’. Cinque campionati più tardi, un’ulteriore crescita degli azzurri passa ancora dalla gestione di momenti del genere, anche se in contesti diversi: sarebbe bello se il Napoli diventasse definitivamente una squadra competitiva in Europa l’anno prossimo, senza farsi divorare dall’ansia e dalla fretta come accaduto col Milan.