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Le fantasmagoriche avventure di Lea Pericoli
09 ott 2024
09 ott 2024
La matriarca del tennis italiano.
(copertina)
Illustrazione di Eleonora Antonioni
(copertina) Illustrazione di Eleonora Antonioni
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La straordinarietà della vita di Lea Pericoli è implicata già dal suo nome, che sembra d’arte. Ricorda quello di una supereroina, o anche un personaggio dei vecchi fumetti noir. Le fantasmagoriche avventure di Lea Pericoli – sarebbe sicuramente lei la protagonista. Certo, ci sarebbero anche gli uomini, tanti e sempre diversi, da affascinare, usare, superare. La immagino con un costume fatto di piume, le trecento piume di cigno indossate a Wimbledon, in una delle sue foto più iconiche, scelta da tanti e apparsa ovunque nel giorno in cui è morta.

«Non puoi perdere con le piume! Ho vinto la mia partita, ma non era facile, non puoi neanche asciugarti le mani» raccontava a Licia Colò quattordici anni fa. Era entrata nello studio di Alle falde del Kilimangiaro accompagnata dalla voce di Edith Piaf. Le si addiceva molto. La Piaf gioiosa, però, quella innamorata e ricambiata della Vie en rose (la canzone che poi effettivamente era stata scelta). Una creatura saltellante, sorridente e screanzata. Sempre e per sempre giovane: multiforme nei ruoli che ha ricoperto, ma un’eterna ragazza del Novecento.

La prima delle fantasmagoriche avventure inizia suo malgrado ad appena due anni di vita. Era il 1937 e la famiglia Pericoli era partita al seguito dell’esercito fascista per cercare fortuna nelle nuove colonie. A Addis Abeba i Pericoli costruirono una bella casa, con un grande giardino e un campo da tennis, dove Lea, principessa bianca chiusa nel castello, giocava da sola, contro il muro o gli amici di suo padre. «Allora c’era il colonialismo e il razzismo. Forse dipende anche dall’indole, forse ero una bambina paurosa».

Le prime partite contro delle coetanee le vinse al Loreto Convent, nel Kenya occupato dagli inglesi. Era un collegio di sole ragazze tenuto da «suorine irlandesi, tra le più cattoliche nella storia del cattolicesimo». Non conosceva l’inglese e per guadagnarsi il rispetto delle compagne le batteva a tennis. In ogni caso non le piaceva perdere nemmeno contro gli uomini adulti che era costretta a sfidare in Etiopia. Il Loreto Convent è onnipresente nelle interviste rilasciate: lì aveva imparato l’inglese e la disciplina, a «camminare dritta», come diceva. Si era formato il suo carattere determinato e quindi anche l’identità tutta di Lea Pericoli. «C’era una suora severissima, diceva sempre “quando fai una cosa falla fino in fondo con tutto il cuore”. Tutto quello che ho intrapreso nella mia vita l’ho fatto con enorme passione».

Prima di proseguire nel racconto delle fantasmagoriche eccetera, bisogna premettere che c’è sempre, all’inizio di un nuovo capitolo, un fattore casuale e causale. Come in tutte le belle storie scritte e pensate, che non assomigliano nemmeno un po’ al continuum di momenti che formano le vite di noi comuni mortali. No, nella vita di Lea Pericoli ci sono delle premesse che portano a conseguenze e possiamo anche collettivamente trarre una morale, che lei comunque ci ha voluto indicare. Ma continuiamo con la nostra storia.

Nel 1950 la famiglia Pericoli tornò in Italia e due anni dopo, durante una vacanza a Forte dei Marmi, l’ormai diciassettenne venne notata da un istruttore, che era anche il padre di Paolo Bertolucci. Il tennis di Lea Pericoli era una manifestazione di talento, istinto e odio per la sconfitta.

Giordano Maioli, ex tennista e compagno di doppio misto della nostra protagonista, lo ha descritto così: «Da fondo, aveva un dritto molto forte e di rovescio si difendeva alzando pallonetti che toccavano il cielo e io che ero rapido davanti dovevo chiudere il punto a rete. Ma oltre alla solidità da fondo campo Lea aveva anche una buona prima palla di servizio e uno smash raro nelle donne dell’epoca». Adriano Panatta, nel suo ricordo affidato al Corriere della Sera ha definito il suo tennis «buffo, correva veloce ed era instancabile, difficile da battere credo, ma era un tennis di pallonetti». Una volta, Panatta finalmente stufo di questi pallonetti, a Parigi, durante una partita in cui era semplice spettatore, le disse: «Dai Lea, e mo’ basta co’ ‘sti pallonetti, vai una volta a rete». Ci provò, scivolò e cadde.

Anche qui forse c’è una morale. Che non bisogna provare tattiche nuove in partita? In ogni caso non si allenava davvero nel senso totalizzante che riveste oggi la parola “allenamento”: come preparazione fisica, tattica, psicologica e anche marziale. Lea Pericoli, che diceva di aver avuto tutto dal tennis, tranne i soldi, aveva un lavoro d’ufficio e giocava un’ora al giorno quando poteva prima del lavoro o in pausa pranzo con tennisti uomini di terza categoria. L’insegnamento magari è che a volte – quasi mai – bisogna limitarsi a fare le cose che già sappiamo fare.

Torniamo indietro, alla Lea Pericoli diciassettenne. Dicevamo: Bertolucci senior la vide giocare e la convinse a partecipare al torneo delle Focette. Torneo vinto, ovviamente. Da lì partì tutto, anche le mutande di pizzo. Mutande che, rivendicava, erano una sua idea, non di Ted Tinling, lo stilista autore dei suoi vestiti più famosi: «Me le ero fatte fare sin dall’inizio, da mia mamma o da una sartina. Volevo essere appariscente, ero vanitosetta».

Oltre alla frivolezza, c’era anche la consapevolezza che se si è donne, non basta giocare bene per guadagnarsi un palcoscenico degno: «Al Foro Italico, mentre il mio amico Nicola Pietrangeli giocava sul Centrale alle quattro del pomeriggio, noi poverine giocavamo al campo numero sei alle nove del mattino. Eravamo noiose da vedere. Io per arrivare sul Centrale e giocare all’ora di Nicola mi sono messa le mutande di pizzo». Dalla collaborazione con Tinling – stilista scandaloso di altre tenniste, colpevole di aver portato il peccato nel tennis e per questo bandito dal sacro suolo dell’All England Club per trentatré anni – nacquero molti altri completi iconici: le già citate piume, poi pelliccia di visone, rose, pizzi, fiocchi, brillanti, tutti deliziosamente poco pratici. Molti di questi abiti si trovano esposti al Victoria and Albert museum di Londra. Quando l’avversaria era complicata, l’abito tornava più classico per evitare maliziose correlazioni in caso di sconfitta.

Nel 1955 Tinling vestì Pericoli per Wimbledon in culotte e sottoveste rosa. Fu uno scandalo enorme, che evidentemente sconvolse gli organizzatori dei Championships fino all’esaurimento per i successivi settant’anni. Addirittura le regole si sono irrigidite: nel 2014, per esempio, è stato introdotto il divieto dei colori panna o bianco sporco. Mentre il diritto alle tenniste di indossare intimo non bianco (comunque con limitazioni minuziosamente elencate) è stato garantito solo nel 2023, finalmente convinti della concreta possibilità di macchiare la purezza dei completini all-white con il sangue mestruale. Per mettere in prospettiva, nel 2017 Venus Williams fu costretta a un cambio di reggiseno perché si intravedevano le bretelline fucsia, mentre sessantadue anni prima le partite di Lea Pericoli erano piene di fotografi che cercavano di immortalare le culotte di pizzo rosa.

Quegli abiti così eccentrici erano missione e filosofia di vita per la nostra protagonista, che dormiva nelle pensioni più economiche, ma non si presentava da nessuna parte senza lacca per i capelli: «Trovo che le donne hanno un certo dovere. La femminilità è un dono immenso, bisogna cercare di proteggerla addirittura all’estremo. Io giocavo a fare la sportiva, perché sapevo giocare, però senza dimenticare quel tocco femminile».

Con i suoi fiocchi ingombranti, i suoi pizzi e le piume che non fanno nemmeno asciugare le mani, Lea Pericoli fu la numero uno italiana per quattordici anni. Vinse ventisette campionati assoluti tra singolare, doppio e doppio misto. Tredici tornei in singolare, tredici in doppio, quattro in doppio misto. Raggiunse gli ottavi a Wimbledon e Roland Garros, rispettivamente tre e quattro volte. Tra le conquiste più strabilianti, quella dell’Oliver Duncan Trophy, vinta insieme a Silvana Lazzarino. Un trofeo messo in palio, aveva raccontato a SuperTennis nel 2012, «fin dai tempi di Suzanne Lenglen. Cinque chili e mezzo d’argento massiccio». Per aggiudicarselo, a detta di Pericoli, bisognava giocare con la stessa compagna di doppio e vincere per tre anni di fila gli Internazionali di Monte Carlo: «Praticamente impossibile. Quando noi siamo arrivate al terzo traguardo hanno chiamato le americane, c’erano tutte le più forti del mondo. Siamo riuscite a vincere lo stesso a forza di pallonetti io e Silvana». Un traguardo mitologico che sembra inventato. Le uniche certificazioni che è esistito veramente l’Oliver Duncan Trophy sono le parole di Lea Pericoli, la foto di lei e Lazzarino che lo stringono (che sembra introvabile sui motori di ricerca) e un post su Instagram del Monte Carlo country club che in ricordo di Lea Pericoli, grande campionessa, figura emblematica e vincitrice dell’Oliver Duncan Trophy.

La Divina, come la chiamava Gianni Clerici, si ritirò dal tennis giocato nel 1975, a quarant’anni. Un anno prima aveva esordito su il Giornale, che all’epoca si chiamava ancora il Giornale nuovo. Fu Carlo Grandini, responsabile della pagina sportiva, a proporle di scrivere. La telefonata arrivò mentre Lea Pericoli stava per andare a Wimbledon in veste di sportiva. Iniziò così la sua terza vita, mentre la seconda si avviava verso il tramonto. Poco dopo conobbe anche Indro Montanelli, la loro amicizia nacque sul comune ricordo del passato coloniale, a cui probabilmente si erano aggrappati in modo diverso. Per il Giornale si occupò di tennis, ma anche moda e costume.

Nello stesso periodo, le vennero offerti tre milioni di lire per scrivere un libro, «avevo veramente pochi soldi, a quel tempo con il tennis non si guadagnava, il Giornale per un pezzo erano trentamila lire, ho detto “pronti!”. E ha avuto successo». Nacque così Questa bellissima vita, pubblicato nel 1976, il primo dei suoi quattro manoscritti.

Subito ebbe inizio anche la sua carriera televisiva, come cronista – sempre di tennis – per Telemontecarlo. «Sono stata molto orgogliosa di essere stata la prima, fatto con molto batticuore perché non era semplice. Certamente l’ho fatto con enorme passione come tutto quello che ho fatto nella mia vita». Dopo aver ricevuto la proposta, raccontava Pericoli, aveva incontrato a Wimbledon (che in questa storia sembra prendere sempre più le sembianze di una grande piazza) Gianni Clerici e Rino Tommasi. «Mi hanno chiesto come mai ti ritiri? “Perché faccio Telemontecarlo” e mi hanno detto “ma come, lo facciamo noi” e io ho detto “no, lo faccio io”». Alla fine aveva ragione la Divina. Clerici forse non aveva digerito il rimpiazzo e per qualche minuto smise di considerarla divina: «Fu un po’ crudele, disse “dopo Guido Oddo avremo il dispiacere di ascoltare una Pericoli”».

Contemporaneamente, come una valanga, hanno preso forma tutte le sfaccettature e i titoli della sua terza vita: giornalista, scrittrice e telecronista.

Più avanti, ancora per caso, iniziò a essere coinvolta più da vicino dalla nuova e prodigiosa generazione di tenniste italiane. Accodata, come sempre, al «miglior amico della storia del mondo» e patriarca del tennis italiano Nicola Pietrangeli: «Era un viveur, aveva solo conoscenze altolocate. È un uomo strepitoso, mi ha aiutato dopo un tradimento doloroso. Lui e Angelo Binaghi mi hanno presa per mano e ho iniziato a girare per il tennis, a seguire le ragazze». Flavia Pennetta, Francesca Shiavone, Sara Errani, Roberta Vinci: «Le ragazze della Fed Cup (che oggi si chiama Billie Jean King Cup, ndr.) sono come le mie nipotine. Le trovo fantastiche, sono affettuose con me, gentili, generose». Il 3 dicembre 2011, pochi giorni prima della già citata intervista a SuperTennis, c’era stata al Forum d’Assago un’esibizione con protagoniste Flavia Pennetta, Francesca Schiavone, Serena Williams e Venus Williams. Gli occhi di Lea Pericoli si erano illuminati – lo si intravede guardando con attenzione attraverso le lenti colorate: «Undicimila spettatori, un record. Io avevo paura perché ricordavo un evento organizzato anni fa che aveva avuto un successo incredibile, io presentavo. C’erano tutti i più grandi del mondo, ma uomini! Qui queste bambine prodigio, queste ragazzine strepitose con le Williams hanno fatto veramente un miracolo, la gente era impazzita».

Eccola la chiusura del cerchio perfetta, come solo le avventure scritte sanno esserlo. Le giovani strepitose, le nipotine, i talenti italiani avevano riempito gli spalti di un palcoscenico ancora più grande del Centrale del Foro Italico, dove la diciassettenne Lea Pericoli aveva sognato di giocare alle quattro del pomeriggio. Al tennis femminile non servivano più le piume, le mutande di pizzo rosa e la lacca per prendersi il prime time. Indossare costumi alla moda, anche un po’ provocatori, poteva essere davvero una libera scelta. Anzi, meglio stare comode, almeno per potersi asciugare le mani sulla gonna, magari con un po’ di lacca.

«Al tennis devo tutto, credo di aver vissuto una magnifica avventura su questa terra, mi ritengo una donna molto appagata».

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