La sprinter americana Florence Griffith Joyner, vincitrice di tre medaglie d’oro (e un argento) alle Olimpiadi di Seul nel 1988, diceva: «Vestirsi bene per avere un bell’aspetto. Avere un bell’aspetto per sentirsi bene. E sentirsi bene per correre veloce!».
Scendeva in pista con costumi fucsia, rosa o lime che disegnava lei stessa - tutine col cappuccio come quelle delle pattinatrici, oppure calzamaglie intere a cui tagliava via la gamba sinistra - coi capelli lunghi, truccata, ingioiellata e con delle unghie di dieci centimetri ognuna di un colore diverso. In anni in cui il legame tra sport e moda non era come scontato come oggi. Quando a Seul ha vinto l’oro nei cento metri, con un paio di falcate di vantaggio sulla seconda, è arrivata al traguardo ridendo. Non sembrava un’atleta colta nello sforzo che la porta alla vittoria, quanto la sorella, una zia di quella atleta, a cui era stata data la notizia al telefono. Vincere è importante, ma farlo ridendo, con stile, è speciale.
Raffaele La Capria ricorda quella finale pochi anni dopo nel suo Letteratura e salti mortali, per parlare di una qualità che il suo allenatore, ai tempi in cui era un tuffatore, chiamava souplesse, e che secondo La Capria era fondamentale anche per scrivere: «Senza sforzo e, se lo sforzo c’è, non deve apparire».
A sua volta, Paolo D’Angelo, ordinario di estetica, ricorda quel passaggio di La Capria nel suo Art est celare artem, collegandolo alla “sprezzatura”, parola che compare per la prima volta nel Cortigiano di Baldassar Castiglione: «(...) una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi».
Per distinguerla dal più comune disprezzo, foneticamente ed etimologicamente vicino, D’Angelo chiarisce: «Piuttosto (...) si deve pensare a locuzioni come lo sprezzo del pericolo: si sprezza l’arte, l’abilità, l’ostentazione, così come si sprezza una situazione rischiosa, non ignorandola ma impedendo che essa condizioni il nostro comportamento».
Per Roberto Calasso (nel suo IlRosa Tiepolo) la sprezzatura è «la qualità di cui la civiltà italiana potrebbe più andar fiera», proprio perché non si trova in altre lingue, ma al tempo stesso è una parola che proprio gli italiani conoscono e capiscono sempre meno, che diventa sempre più “oscura” col passare del tempo.
Di più. Si direbbe che gli italiani, in un clima ideologico di angoscia e moralismo, siano sempre più contrari alla sprezzatura, sempre più nemici di chi, in apparenza, non compie sforzi. Di chi fa, quasi senza pensarci. Da una parte la nostra cultura è molto severa nei confronti di chi non sopporta le pressioni - vedi, giusto per fare un esempio, il caso di Paola Egonu, ridotto da qualcuno alla sua capacità di resistere alle offese come fossero parte del mestiere - dall’altra non sopporta chi è dotato di quel tipo di leggerezza naturale, chi rifiuta di farsi condizionare dalla pressione stessa.
In Italia non solo ti devi meritare il rispetto degli altri, ma devi anche meritarti la libertà di fregartene, di avere il rispetto degli altri.
Sono partito da Flo-Jo e arrivato a Calasso per parlare di Rafael Leao, di Kvaratskhelia e di quel tipo di giocatori che il pubblico della Serie A disprezza finché può. Leao ha dovuto aspettare di arrivare in un momento di grazia assoluta per essere apprezzato. In un momento in cui fa gol per sbaglio, in cui semplicemente andando dritto sul suo solito binario sul centro-sinistra e crossando con l’esterno destro un po’ a caso verso Giroud, trova la deviazione di Veloso che manda la palla nella sua porta.
Adesso Leao può divertirsi. A dieci minuti dalla fine della partita con la Juventus può addirittura mettersi a palleggiare. Perché il Milan vince 2-0, certo, ma anche perché Leao aveva già segnato 4 gol e realizzato 4 assist in 9 partite - e perché se il Milan ha lo scudetto sul petto è anche grazie a come lui ha finito la scorsa stagione, con 3 gol e 6 assist in 6 partite. Insomma, adesso Leao può permettersi di prendere palla (poco dopo essersi messo a palleggiare e averla persa, all’ottantunesimo minuto di gioco) e scherzare con l’avversario che ha davanti, che in quel caso era l’incolpevole Soulé. Si è guadagnato il rispetto, e la libertà di fregarsene.
Leao aspetta Soulé dopo aver controllato la palla con la coscia e già ride. Fa un primo tacco con il sinistro per tornare al centro del campo, poi si ferma, fa un doppiopasso, se la sposta di nuovo, alla fine gira su stesso con l’esterno e a quel punto o la palla gli resta sotto e allora improvvisa, o lo fa deliberatamente, ma si libera definitivamente di Soulé con un ultimo colpo di tacco, con il destro. Quando si allunga la palla la cosa più visibile di Leao sono i denti, ha la bocca aperta per respirare e perché sta ridendo della cosa inutile e un po’ ridicola che ha appena fatto. Che però è anche una dimostrazione di forza. Di forza e leggerezza.
Ed è interessante notare come il primo commento sotto al video della Lega su YouTube sia: «E poi non sa fare un passaggio di piatto». Di questo tipo di conflitto culturale stiamo parlando.
Se non fosse che giocava così anche prima, potremmo persino pensare che Rafael Leao (eletto giusto pochi giorni fa MVP della passata stagione) voglia provocare proprio quel pubblico che lo criticava quando non aveva ancora questa efficacia. Che non fosse consistente, che fosse persino fumoso è vero, il salto dello scorso anno è sostanziale e, a giudicare da questo inizio di stagione, lo ha portato su un livello diverso; ma i giudizi che accompagnavano le sue prestazioni erano definitivi, scritti nella pietra come le tavole che Mosé ha ritirato dal corriere Amazon sul Monte Sinai. Le critiche tiravano in ballo il suo carattere - è scazzato, non gli va, forse il calcio non gli interessa, o gli interessa meno del rap - e facevano dei suoi limiti momentanei dei confini invalicabili.
Il pensiero di fondo non è solo che nessuno possa mai migliorare, che se si nasce quadrati eccetera eccetera, ma anche che siamo noi pubblico a detenere il codice (come fosse un software, un programma) per avere davvero successo. Noi che ci facciamo sfruttare, che siamo perennemente insoddisfatti, che non ci divertiamo mai, siamo noi a sapere quale dovrebbe essere l'attegiamento esteriore e lo stato interiore di un atleta superumano come Leao.
Ma, appunto, le cose sono cambiate. Nella partita con l’Empoli Leao si è andato a prendere una palla dietro la difesa su fallo laterale, sfruttando la loro linea alta e il fatto che Tonali avesse avanzato il punto di battuta, poi ha accelerato e gestito un pallone difficile in mezzo a tre avversari - liberandosi all'ultimo momento come Houdini, frenando bruscamente con un tocco sotto che gli ha mandato la palla sul fianco - prima di servire Rebic senza neanche guardarlo. Una giocata al tempo stesso decisiva, elegante, sporca, paracula, cinica, esuberante, divertente, velenosa. Eppure non ho sentito nessuno lodare la furbizia con cui Leao ha letto la situazione, all’interno di una partita difficile che il Milan stava pareggiando a un quarto d’ora dalla fine (e Bajrami aveva avuto un’occasione clamorosa poco prima). Non ho letto nessuno ritrattare i giudizi di un tempo, dire che forse aveva sottovalutato Leao, che si era fatto ingannare dalle apparenze.
Sotto sotto, il pubblico italiano è ingenuo. Crede che sia pericoloso solo chi gonfia i muscoli e mostra i denti come i draghi dei Targaryen. Per questo a inizio stagione, dopo che in una partita - contro la Fiorentina - aveva avuto qualche difficoltà (riuscendo comunque a mettere la palla in testa a un compagno a un paio di metri dalla porta con un cross sul secondo palo), persino Kvaratskhelia era stato ridimensionato. Se Leao ciondola in campo, Kvara paga lo sguardo sfuggente e l’atteggiamento dimesso, a contrasto con uno stile in campo esuberante, a tratti eccessivo. Troppi dribbling, troppi tiri.
Kvara nasconde il suo talento sotto la sua ostinazione, si fa scambiare per un dribblomane testardo e ossessivo, come Leao si fa scambiare per un giocatore pigro, che gioca con le cuffie sulle orecchie. Entrambi stimolano l’ingenuità dei difensori, per infondergli un senso di falsa sicurezza, per restare imprevedibili.
Ma la cosa che li accomuna più in profondità è che fanno sembrare il calcio una faccenda troppo naturale, come se giocassero nello stesso modo da sempre, dalla prima volta che hanno preso palla e hanno provato a saltare tutti i bambini che erano in campo con loro. Fanno sembrare il calcio un gioco, una cosa semplicemente divertente e piacevole. Senza rispetto per i difensori, senza prendere con la dovuta serietà l'occasione incredibile che ogni palla toccata rappresenta. Senza la paura, che forse si nasconde sotto i nostri giudizi, perché forse la proviamo noi per primi, che possa finire tutto da un momento all'altro, che non si meritino davvero quella gioia.
La loro è solo una dissimulazione, ovviamente. Quello che vediamo noi è il prodotto di anni passati ad affinare quei movimenti, quelle finte, quei cambi di passo: nessuno meglio di loro sa quanto in realtà sia difficile giocare in quel modo, quanto sia importante riuscire a mettere la palla dentro la porta, o farcela mettere dal compagno. Solo che non vogliono ostentarlo, non vogliono ridurre la bellezza del calcio al suo obiettivo.
Anche Kvaratskhelia oggi è in uno stato di grazia, in un momento in cui nella stessa partita fa prendere la traversa a Zielinski, il palo a Mario Rui, fa calciare a Politano un rigore in movimento e mette Osimhen da solo davanti al portiere con un filtrante da fuori area. Adesso quell’aria da timido vampiro non inganna più nessuno e gli si perdonano persino i dribbling falliti. Anzi, si loda la facilità con cui si è ambientato, il fatto che “non ha i capelli dritti”, come ha detto Trevisani, senza ammettere, ancora una volta di esserne stati ingannati. Di aver creduto che no, non è così che immaginiamo si debba giocare a calcio.
Perché se gli italiani non rispettano quel tipo di naturalezza, che non è proprio eleganza, quanto quella particolare confidenza che può prendersi solo chi sa maneggiare gli strumenti del proprio mestiere come nessun altro, quanto meno riconoscono di essere stati punti da un insetto velenoso - dopo che gli si è gonfiato il braccio.
Adesso si fa a gara a lodare Leao e Kvaratskhelia. Evidentemente avevamo bisogno che facessero un gol o un assist a partita, o quasi, per riconoscerne il potere, le potenzialità. Ma è solo l’altra faccia di quel pubblico che prova piacere se Zaniolo, dopo aver saltato mezza difesa avversaria, calcia di poco al lato. Se Chiesa dopo il tunnel sbaglia l’ultimo passaggio. Se Balotelli, dopo avergli detto da quando ha 15 anni che non è adeguato a giocare ad alto livello, tanto meno con la gloriosa Nazionale italiana (che senza di lui ha mancato due volte la qualificazione al Mondiale), in effetti si rivela inadeguato. Quel pubblico a cui piace trovare conferme al proprio pessimismo, che non vede neanche quanto il suo pessimismo interviene e modifica la realtà che ha davanti.
L’inconciliabilità di fondo sta nel non voler capire che non è che questo tipo di giocatori non si renda conto di quanto sia importante fare anche le cose semplici ed efficaci - come potrebbero essere arrivati così in alto ignorando concetti così basici, davvero non sapendo fare un passaggio di piatto - ma che decidono di non farsi influenzare dai giudizi del pubblico. Da voi, da noi.
Ma non chiamatela supponenza, né arroganza. Non è neanche disinteresse in quello che li circonda. Chiamiamola come una volta, chiamiamola sprezzatura.