«Non giocherò fino a rendermi ridicolo. Non sarò uno di quelli che manca di rispetto al gioco solo per dire di essere in campo. Non fa per me», ha detto LeBron James poche settimane fa, dopo una partita chiusa in tripla doppia. Una dichiarazione in apparenza molto canonica, quasi retorica, per un atleta impegnato nella fase conclusiva della carriera: da un lato ci tiene a mostrare uno sguardo sereno e pacificato sulle proprie prestazioni attuali e decisioni future, dall’altro non rinuncia a sottolineare la devozione nei confronti del basket come ormai siamo abituati a sentire.
Per capire quanto le sue parole siano invece piuttosto straordinarie, bisogna tratteggiare il contesto in cui sono state pronunciate. LeBron James festeggia oggi, 30 dicembre 2024, il suo quarantesimo compleanno, e lo fa nel corso della sua ventiduesima stagione da professionista nella NBA. Prima di lui, solo Vince Carter ha raggiunto il traguardo delle ventidue stagioni nella Lega, ma in una posizione molto differente. In quell’ultimo anno prima del ritiro Carter è stato impiegato per meno di quindici minuti a partita e ha segnato cinque punti di media, con un box plus/minus (statistica che misura l’impatto di un giocatore in campo in termini di margine di punti, positivi o negativi, normalizzando il dato su 100 possessi) ampiamente sotto lo zero. LeBron sta giocando in media trentacinque minuti, più della stagione dell’ultimo titolo conquistato con i Lakers nella “bolla” di Orlando, sta segnando ventitré punti a partita, meno di quanti ne abbia fatti registrare nelle ultime venti stagioni ma comunque più di quelli realizzati nel suo anno da rookie, e sta prendendo più rimbalzi e distribuendo più assist rispetto alla sua media in carriera. Inoltre, il suo box plus/minus ha al momento un valore intorno a +4, convenzionalmente ritenuto degno di un giocatore da All-Star Game.
A quarant’anni, LeBron incarna la sintesi degli opposti: dopo averne acclamato per anni la precocità, l’essere stato “il più giovane a” raggiungere determinati record, siamo passati a celebrarne una forma terrena di eternità, l’essere “il più vecchio a” riuscire in un certo tipo di imprese. Il passaggio tra i due estremi è avvenuto sotto i nostri occhi in modo fluido, naturale, quasi senza strappi. Negli anni LeBron ha vestito tre casacche diverse (Cleveland Cavaliers, Miami Heat, Los Angeles Lakers), ha giocato dieci finali vincendone quattro e perdendone sei, ha arricchito il suo bagaglio tecnico al punto da permettergli di ricoprire almeno per un breve periodo ciascuna delle cinque posizioni in campo, ha ridisegnato il suo fisico cambiando alimentazione e metodi di allenamento, ma sostanzialmente la portata del suo basket si è mantenuta su livelli impressionanti con costanza, così come non si sono mai ridimensionate le sue ambizioni e le sue responsabilità all’interno delle franchigie in cui ha militato. Era un giovanissimo predestinato che molti avrebbero voluto tra i professionisti prima di quanto consentisse il regolamento, è stato il dominatore tecnico e carismatico della NBA per almeno una decade, ora è il più anziano cestista in attività. Un viaggio lunghissimo e, verrebbe da dire oggi, inesorabile.
Nello sport i numeri non dicono tutto, ma aiutano a costruire un primo livello di comprensione. Nel caso di LeBron James è necessaria una certa cautela, perché alcuni suoi record sono così colossali che talvolta generano un effetto contrario: piuttosto che mostrare con limpidezza il quadro, ci annoiano, ci allontanano dal nucleo del vero. Sono eccessivi, e questo incoraggia la nostra capacità critica. Nella NBA LeBron è primo di tutti i tempi per punti segnati, per minuti giocati e per palle perse. È quarto negli assist, ottavo nelle palle recuperate, nei primi trenta anche nei rimbalzi. Ha una striscia aperta di oltre milleduecento partite consecutive con almeno dieci punti segnati.
Più ancora delle statistiche, forse ci aiuta gettare uno sguardo in profondità, nel tempo. Nella sua stagione d’esordio il primo quintetto NBA includeva Jason Kidd, Kobe Bryant, Kevin Garnett, Shaquille O’Neal e Tim Duncan, quello della scorsa stagione Luka Dončić, Shai Gilgeous-Alexander, Jayson Tatum, Giannis Antetokounmpo e Nikola Jokić. Sono due mondi differenti, due modi di interpretare il basket differenti, e LeBron li ha abitati con identico temperamento e con simile efficienza in campo. Ancora: il suo primogenito Bronny, con cui ha condiviso il parquet per qualche minuto lo scorso 22 ottobre (prima coppia padre e figlio a riuscirci nella storia della NBA), non era ancora nato quando LeBron è entrato tra i professionisti. Infine: lo scorso aprile, dopo una partita di playoff vinta dai Lakers grazie a una palla recuperata e conseguente schiacciata in contropiede di LeBron sotto lo sguardo stupito del rookie GG Jackson dei Memphis Grizzlies, diciannovenne cresciuto guardandolo giocare in tv e autore quella sera di trentuno punto, il giornalista di ESPN Dave McMenamin ha chiesto a LeBron cosa si prova a prendere parte a un’azione in cui uno spettatore potrebbe avere difficoltà a indovinare chi sia l’adolescente e chi l’uomo vicino alla mezza età, e lui ha ironizzato sulla propria barba bianca come segno rivelatore dei suoi trentanove anni.
Naturalmente, la longevità non è una prerogativa esclusiva di LeBron. Per molti esperti, viviamo in una vera e propria “età dell’oro” per i talenti più attempati della NBA. Solo per citarne alcuni, Chris Paul ha trentanove anni, Kevin Durant e Steph Curry ne hanno trentasei, e tutti loro sono ancora protagonisti a vari livelli nella Lega. Guardandosi indietro, inoltre, sono più di trenta i giocatori ad aver concluso la carriera NBA dopo i quarant’anni, e in molti casi si tratta di eminenze assolute del gioco: Kareem Abdul-Jabbar, John Stockton, Karl Malone, Dirk Nowitzki, Manu Ginobili, Steve Nash, Michael Jordan, Tim Duncan. Se ci si concentra in maniera particolare su LeBron è perché la sua carriera non mostra intermittenze o flessioni nei carichi di responsabilità presenti nei percorsi di quasi tutti gli altri cestisti citati.
Si è scritto moltissimo, a tratti con morbosità, riguardo l’investimento economico di LeBron nella cura del proprio corpo (la cifra più spesso citata parla di 1,5 milioni di dollari all’anno) e sulle tecnologie avanzate utilizzate dal suo team per trattarne il tono e garantirne il recupero muscolare, come le camere iperbariche e la crioterapia. Mike Mancias, il preparatore atletico che lo segue da inizio carriera, è spesso citato nelle cronache come “il preparatore dei miracoli”. Anche nel recente documentario di Netflix Starting Five, LeBron descrive in dettaglio la complessa routine che segue nei giorni delle partite casalinghe: le immersioni in vasche di acqua fredda, le sessioni di tiro, le importantissime ore di sonno, la stimolazione muscolare, i massaggi e lo stretching, l’alimentazione sempre controllata. Non c’è dubbio che LeBron abbia avuto l’intelligenza e la volontà di sfruttare i progressi compiuti dalla scienza in vari ambiti per preservare il proprio fisico e così allungare la possibilità di esprimersi ai massimi livelli per un tempo ritenuto finora inconcepibile. In questo senso, la sua carriera sembra quasi un esperimento di ricerca, un’esplorazione di un territorio nuovo di cui non si intravede ancora l’approdo.
Non tutto però è spiegabile con la scienza, con l’assenza di infortuni gravi, e nemmeno con l’attitudine inflessibile. Sarebbe troppo semplice, troppo semplicemente replicabile. C’è sempre qualcosa di misterioso e inafferrabile nelle manifestazioni più sorprendenti dell’umano. Da tantissimo tempo sentiamo dire a LeBron di voler essere di aiuto e ispirazione per chi verrà dopo di lui, ma probabilmente il primo a beneficiare di quest’energia positiva nel quotidiano è lui stesso, che dopo ventidue anni non è ancora stanco di rinnovare sfide e aspettative. A guidare il suo agire non sembra un’ossessione privata, come spesso si è detto ad esempio per Michael Jordan o Kobe Bryant, quanto una gioia competitiva e un senso di responsabilità da condividere con gli altri. L’ultimo esempio in ordine di tempo sono state le Olimpiade di Parigi 2024, per le quali LeBron si è speso in prima persona per la formazione di una squadra che includesse i migliori talenti della sua generazione e i più promettenti eredi designati, e poi ci ha messo la faccia fino all’ultimo per la conquista di una medaglia d’oro che tanto in semifinale contro la Serbia di Jokić quanto in finale contro la Francia di Wembanyama è sembrata nient’affatto scontata.
Il progetto più importante realizzato dalla LeBron James Family Foundation, la fondazione benefica avviata da LeBron nel 2004, anno in cui è diventato padre, si chiama “I Promise School”, ed è una scuola elementare pubblica aperta nella sua città di origine, Akron, e rivolta ai bambini più bisognosi. È già tutta lì, in quel nome, la sua missione, il suo intento. Una promessa, in prima persona, da ribadire ogni giorno perché infine operi sul mondo.
Non sappiamo quanto tutto ciò possa durare, a quale altezza si fermeranno i record di LeBron. Le cose possono cambiare rapidamente, a maggior ragione dopo i quarant’anni. Quello di cui però siamo certi – perché lo osserviamo, perché lo sentiamo – è che al momento non c’è nulla, davvero nulla di ridicolo nell’entusiasmo, nella serietà e nella voglia di competere che ancora mostra LeBron James ogni volta che lancia il borotalco di fronte al pubblico e si avvicina al centro del campo per una palla a due.