C’è stato un tempo, non troppi anni fa in cui LeBron James diceva che la sua vera motivazione per continuare a giocare era «il fantasma che sto inseguendo, quello che giocava a Chicago». Da un po’ di tempo a questa parte, però, cercare di raggiungere i sei titoli vinti da Michael Jordan non sembra più essere il motivo per cui a, quasi 39 anni, è ancora in campo. Un po’ come lui ha trasceso il livello di semplice giocatore di pallacanestro, diventando un’icona a tutto tondo del nostro secolo. Il suo nuovo arcirivale non ha più una forma umana ma rappresenta la personificazione dell’invecchiamento, a cui nella lingua inglese e nel gergo sportivo di solito si fa riferimento parlando di “Father Time”.
«Voglio continuare ad avere questa battaglia con Padre Tempo che per molto tempo è stato definito come “imbattuto”… Sto cercando di infliggergli una sconfitta» ha detto dopo la vittoria contro i Phoenix Suns ai quarti di finale dell’In-Season Tournament, con il carisma e l’affabulazione dell’attore consumato.
Non serviva certamente vincere il primo torneo di metà stagione della storia della NBA né tantomeno farlo con il premio di Most Valuable Player (un trofeo che in un futuro non molto lontano potrebbe portare il suo nome, come già si comincia a vociferare) per dare un senso diverso a una carriera che già ora è tra le più grandi di sempre, però insomma riuscire a piazzare la propria bandierina prima di chiunque altro comunque non fa male alla legacy.
James sembrava tenerci davvero molto a questo torneo e a diventare il primo a vincerlo, perché comunque l’istinto del cannibale è sempre quello di avventarsi per primo sulla preda. Ma la verità è che il premio di MVP vinto dopo la finale controllata con gli Indiana Pacers rappresenta più che altro la prova tangibile di un inizio di stagione semplicemente irreale di LeBron James.
Ancora al top alla soglia dei 39 anni
Nella storia della NBA solamente cinque giocatori hanno raggiunto la 21esima stagione della carriera come James quest'anno: Robert Parish, Kevin Willis, Kevin Garnett, Dirk Nowitzki e Vince Carter, l’unico che poi ha proseguito per un ulteriore anno. Messi tutti assieme avevano viaggiato a 24 punti di media in quella loro stagione, mentre James da solo è a 25, che diventano 26.4 se si considerano solo le partite dell’In-Season Tournament. Già solo questo dato dovrebbe bastare per rendere l’idea dell’assurdità del livello a cui James sta ancora giocando, rendendolo di gran lunga il giocatore più longevo che si sia mai visto, ma è relativamente al resto della sua carriera che questa stagione fa spavento. LeBron infatti non ha mai tirato così bene (62.1% di percentuale effettiva), non solamente da tre punti (40.7%, dato che comunque potrebbe fisiologicamente calare) ma soprattutto da due punti, segnando il 62.6% delle conclusioni dentro l’arco. Nell’analisi di quest’ultimo dato spunta un curioso 79% nell’ultimo metro di campo, un dato in linea per volumi e precisione con alcune delle migliori annate della sua carriera. Considerando che parliamo probabilmente del miglior penetratore che si sia mai visto, c’è di che perdere la testa che sia ancora questo ad un’età in cui alcuni dei suoi compagni di Draft si sono ritirati da anni e sono già stati introdotti nella Hall of Fame.
James ha ormai raggiunto un controllo quasi ascetico del proprio corpo: sa perfettamente come e quando dosare lo sforzo, quando è il momento di accelerare e quando è più saggio lasciare che siano gli altri a gestire il pallone, piazzandosi dietro la linea dei tre punti e dirigendo le operazioni da lontano per poi eventualmente subentrare in un secondo momento. In questo senso assomiglia al modo in cui il suo unico metro di paragone in termini di longevità, Tom Brady, approcciava gli ultimi anni di carriera: giocando di fatto da quarterback della squadra, per poi centellinare le energie a disposizione per massimizzarle. James va in penetrazione ormai solo poco più di 10 volte a partita (per rendere l’idea: Shai Gilgeous-Alexander, numero 1 in NBA, ne ha 22 di media), ma quando ci va realizza con il 66.3% al tiro — cifre che su quel volume possono essere pareggiate solo da Giannis Antetokounmpo, che di anni però ne ha dieci di meno ed è nel pieno prime della sua carriera.
La semifinale del torneo contro i Pelicans da questo punto di vista è stata emblematica: a inizio partita ha portato a scuola un eccellente difensore come Herb Jones per mettere subito in chiaro chi era in controllo della partita, poi a inizio secondo quarto — quello che sta coltivando come un piccolo orticello per raggiungere in fretta quota 10 punti nel match, cifra che superada 1.435 partite consecutive e striscia, ovviamente da record, a cui tiene particolarmente — ha dato la prima spallata alla partita con un parziale personale di 11-3 da cui New Orleans di fatto non si è mai rialzata. Ma al di là dei 30 punti in 23 minuti con cui ha chiuso, guardate gli 8 assist che ha distribuito: non ha avuto avuto bisogno neanche una volta di mettere piede in area per mettere in ritmo tutti i compagni
Non è un caso se il differenziale tra quando LeBron è in campo e quando è fuori è un ridicolo +21.2 su 100 possessi, dietro solamente a Nikola Jokic (+24.4) e a chi gioca insieme a Jokic (Kentavious Caldwell-Pope a +24) tra i giocatori che hanno giocato almeno 500 minuti in stagione. Per quanto James abbia ceduto un po’ le redini della squadra, “usando” solamente il 30.5% dei possessi dei Lakers quando è in campo — il dato più basso dal suo secondo in NBA, pur essendo comunque numero 1 in squadra —, è e rimane la stella polare a cui tutti guardano per cercare una direzione, e non appena deve andare a risedersi i Lakers cadono in un buco nero sia offensivo che difensivo dal quale faticano a risalire. Un dato su tutti: nei minuti in cui Anthony Davis è in campo senza James il differenziale dei Lakers è di -8.3, concedendo la bellezza di 120.2 punti su 100 possessi agli avversari in difesa. Perché anche difensivamente, laddove non arriva con le gambe, riesce a essere decisivo con la voce, leggendo con anticipo tutte le giocate avversarie e tirando le fila dei suoi compagni di squadra manovrandoli come marionette.
Il dominio dei Lakers nella finale coi Pacers
James ha esercitato il suo controllo mentale da maestro Jedi anche nella finale contro gli Indiana Pacers, che probabilmente non erano pronti a una sfida contro il Re — anche nella sua versione quasi 39enne — in una partita da dentro o fuori. D’altronde non è che il resto della lega abbia mai capito bene come fare: la sua ultima sconfitta in una gara-7 di playoff o in una partita di play-in risale al 2008, quando pur segnando 45 punti al TD Garden di Boston con i suoi Cleveland Cavaliers (nei quali partivano con lui in quintetto Delonte West, Wally Szczerbiak, Ben Wallace e Zydrunas Ilgauskas) venne eliminato dai Celtics poi campioni NBA. Per rendere l’idea: Barack Obama sarebbe stato eletto Presidente solo sei mesi dopo.
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In finale LeBron non ha avuto bisogno di giocare una partita storica come quella contro New Orleans, ma si è limitato a esercitare un ruolo di controllore della sfida, facendo in modo che tutto andasse secondo i binari previsti nella sua mente. I Pacers sono un avversario tutt’altro che comodo come possono testimoniare Celtics e Bucks travolti dal loro stile di gioco ultra-aggressivo, ma con dei chiari difetti strutturali che i Lakers sono stati bravi a esporre giocando una sorta di pallacanestro dell’età della pietra. La squadra di coach Darvin Ham a un certo punto ha smesso del tutto di considerare il fatto che i tiri presi dietro l’arco valessero tre punti (appena 13 triple tentate in tutta la partita, di cui solo due a segno nel secondo tempo) e ha dato l’assalto al ferro il più possibile, caricando di falli un insufficiente Myles Turner e banchettando nel pitturato. Il dato a fine gara è stato impietoso: 86 punti in area contro i soli 44 realizzati dai Pacers, a cui si aggiunge una lotta a rimbalzo in cui Davis e James da soli hanno preso 31 rimbalzi contro i 33 di tutti i giocatori di Indiana.
Ma se in attacco a prendersi la scena sono stati Anthony Davis (41 punti, 20 rimbalzi e 5 assist) e Austin Reaves (28 di cui 22 nel solo primo tempo con problemi di influenza), è nella metà campo difensiva che i Lakers hanno vinto la finale, mettendo la museruola a un attacco che in regular season viaggia a 123.9 punti realizzati su 100 possessi e ieri notte è stato tenuto a 101.9, ben al di sotto di quelli di Portland e Detroit che pur essendo in fondo alla classifica della lega ne segnano più di 106.6. Certo, sul dato finale pesa tantissimo l’orribile serata al tiro avuta dai Pacers (41.4% di percentuale effettiva al tiro con il 23% di squadra da tre punti), ma il piano partita pensato da Ham è stato eseguito perfettamente dai suoi giocatori, riservando all’imprendibile Tyrese Haliburton di questo inizio di stagione un trattamento da superstar.
Il ragionamento è tanto banale quanto efficace: gli avversari hanno un singolo giocatore trascendente? Allora deve essere costretto a prendersi il minor numero di responsabilità e tiri possibili, e solo se gli altri iniziano a segnare cambiamo schema. Haliburton ha chiuso comunque con 20 punti e 11 assist perché è un fenomeno, ma è stato marcato a tutto campo (eccellente il lavoro su di lui da parte di Cam Reddish e Jarred Vanderbilt per rallentarne la transizione) e raddoppiato 26 volte durante la finale pur di togliergli il pallone dalle mani, lasciando metri di spazio agli altri che però non hanno punito la scelta difensiva dei Lakers incappando in una brutta serata al tiro e vedendosi l’area negata dalla presenza terrorizzante di Davis.
Si parla spesso di combinazioni tra due giocatori nella metà campo offensiva, anche perché il pick and roll è ormai da 20 anni una costante di tutti gli attacchi del mondo. Ma non si parla abbastanza di combinazioni difensive, e in particolare quello che Anthony Davis e LeBron James riescono a fare in coppia nella propria metà campo, dove riescono a essere persino più incisivi rispetto all’attacco.
Come sottolineato in questo video dell’imprescindibile Thinking Basketball, in difesa la versatilità di Davis nel proteggere il pitturato e cambiare sul perimetro è la chiave di tutto, ma è altrettanto importante il lavoro che fa James alle sue spalle nel pattugliare la linea di fondo e ruotare con anticipazione sovrannaturale leggendo tutto con svariati secondi di anticipo. Quando sono così connessi mentalmente alla partita, i Lakers hanno una chance contro chiunque.
Pregi e difetti del nuovo In-Season Tournament
Con sette vittorie in altrettante partite disputate ci sono pochi dubbi che il successo dei Lakers sia stato nel suo complesso meritato, dimostrandosi come la squadra più brava ad adattarsi a un contesto nuovo come quello dell’In-Season Tournament (come peraltro erano riusciti a fare nella bolla di Orlando durante la pandemia). Così come ci sono pochi dubbi che il primo torneo di metà stagione abbia raggiunto tutti gli obiettivi che si era prefissato: ha dato qualcosa di nuovo di cui parlare a “costo zero”, visto che tutte le partite tranne la finale valevano anche per il record della regular season; le partite sono state più combattute rispetto al resto della stagione (in media il 44% è finito entro i 7 punti di scarto, contro il 35% su base stagionale), sia per il maggior coinvolgimento dei giocatori che per la posta in palio; l’ascesa di nuovi giocatori come Haliburton è stata entusiasmante, permettendo anche a un mercato piccolo come quello dei Pacers di farsi conoscere dal grande pubblico e di dare nuovi protagonisti in pasto al pubblico; la NBA ha fatto un ottimo lavoro nell’impacchettamento del prodotto, dando degli appuntamenti fissi nel calendario e facendo apparire le partite diverse a una prima occhiata, per quanto diversi campi siano stati difficili da digerire da un punto di vista estetico.
Non tutto è stato perfetto, come testimoniano le difficoltà dei giocatori ad accettare la differenza canestri come “tie-breaker” fondamentale per il posizionamento finale in classifica, andando a toccare uno dei capisaldi delle partite NBA, cioè che a risultato acquisito non si debba provare a segnare per “rispetto nei confronti del gioco”. Ma in generale il torneo è stato promosso da giocatori, squadre, televisioni e tifosi, facendo immaginare che — esattamente come il torneo play-in che ormai è dato per assodato — anche questa novità sia qui per rimanere.
Come ha detto Anthony Davis dopo la partita, «sappiamo che non è il trofeo vero», che è e rimane il Larry O’Brien Trophy. Ma anche la prima NBA Cup della storia in fin dei conti ha svolto il suo dovere, e di certo non ha guastato che il giocatore più famoso del mondo ci abbia messo così tanto del suo per dare lustro al nuovo trofeo. Perché alla fine a rendere la NBA la lega più spettacolare al mondo sono le storie che riesce a creare, e in questo momento nessuno ha una storia migliore rispetto a quella di LeBron James.