Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Il segreto del record di LeBron James è la sua testa
08 feb 2023
Come King James è diventato il miglior realizzatore nella storia della NBA.
(articolo)
11 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Wire
Dark mode
(ON)

Nell’estate del 2014, quella del suo ritorno a casa ai Cleveland Cavaliers dopo i quattro anni passati ai Miami Heat, LeBron James fece notizia per una scelta sorprendente: perse un sacco di chili. James era a pochi mesi dallo scollinare i 30 anni e si lanciò in una dieta drastica per 67 giorni consecutivi, tagliando zuccheri, latticini, carboidrati e dolci dalla sua alimentazione. «Solo carne, pesce, verdura e frutta. E basta» disse. I numeri esatti di quanti chili perse in quell’estate del 2014 non sono mai stati resi noti, ma basta riguardare una sua foto di quei giorni per rendersi conto di quanto fosse straniante vedere un James così magro.

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da (@kingjames)

Sì, nel 2014 si potevano ancora pubblicare foto sgranate e con filtri dozzinali su Instagram.

Come Dante che nel mezzo del cammin della sua vita si ritrovò per una selva oscura, anche LeBron in quel 2014 pensava di essere al punto di svolta della sua carriera, cercando di raggiungere l’immortalità cestistica vincendo un titolo con i Cavs piuttosto che continuare a giocare a Miami, che al netto di tutti i titoli sarebbe sempre rimasta la casa del suo amico Dwyane Wade. Ma per riuscirci aveva bisogno di cambiare qualcosa, non necessariamente a livello fisico (visto che poi ha ripreso con gli interessi tutti i chili che aveva perso, pur asciugando un po’ la parte alta del corpo rispetto agli anni 2008-2010), quanto piuttosto a livello mentale. James stesso descrisse quella decisione come una “sfida” che aveva lanciato a se stesso per vedere se fosse stato in grado di resistere ad alcune delle sue peggiori tentazioni («Certe notti ho sognato il Cookie Monster che mi inseguiva» ha detto scherzando).

Un po’ come per tutta la sua carriera, anche in quella occasione ci siamo fatti distrarre dal corpo di LeBron James invece di concentrarci sul vero segreto del suo successo: la sua testa. Abbiamo speso così tanto tempo a descrivere il dominio fisico che LeBron ha esercitato sulla NBA (che per carità, c’è stato e soprattutto continua a esserci anche contro i figli di chi ha affrontato a inizio carriera) da far passare in secondo piano quanto mentalmente sia stato in grado di mantenere se stesso a standard intoccabili per chiunque altro, costellando la sua carriera di piccole e grandi sfide mentali per mantenersi sempre sul pezzo, sempre attento, sempre e comunque LeBron James ogni singolo giorno.

È in questo modo che è riuscito a superare anche un record che si pensava insuperabile, quello per punti in carriera fissato da Kareem Abdul-Jabbar a quota 38.387 punti. Un primato che KAJ si prese nel 1984 da Wilt Chamberlain con uno dei suoi iconici “skyhook” e che allungò per altre cinque annate, fino al ritiro al termine della stagione 1988-89. James ci è riuscito nella gara interna con gli Oklahoma City Thunder dimostrando di avere molta fretta: dopo aver segnato 20 punti nel primo tempo, James ha segnato i 16 che gli mancavano per sorpassare Abdul-Jabbar nel solo terzo quarto, terminandolo con una auto-citazione. Il canestro del sorpasso non è stato infatti un gancio cielo alla Kareem (nel pre-partita lo aveva anche provato, metti caso che gli fosse tornato utile), ma un fadeaway dalla media distanza, come il primo canestro realizzato nel 2003 al suo esordio sul campo dei Sacramento Kings (seppur dalla linea di fondo, mentre questo è arrivato dal centro del campo).

Per l’occasione è stata rispolverata anche una fascetta in testa che non si vedeva da diverso tempo.

Il giocatore più longevo di sempre

Il record raggiunto da LeBron è, innanzitutto, la testimonianza più diretta della sua incredibile longevità. A essere assolutamente incredibile non è solo il fatto che sia riuscito a superare il record di Kareem, ma il livello di gioco che sta continuando a mantenere pur alla sua ventesima stagione di NBA. Dopo la serie contro gli Indiana Pacers del 2018, nella quale trascinò una versione particolarmente derelitta dei Cleveland Cavaliers al secondo turno e poi incredibilmente fino alle Finali NBA, scrissi un pezzo, proprio per L’Ultimo Uomo, ricordando a tutti di non darlo per scontato, perché non era normale che fosse capace di mantenere quel livello di gioco alla sua quindicesima stagione NBA. Neanche io, però, avrei mai potuto immaginare che alla ventesima fosse ancora così.

A 38 anni Kareem Abdul-Jabbar era ancora un signor giocatore NBA, capace di mantenere 23.4 punti di media in 79 partite giocate per una contender come erano quei Lakers e di finire al quinto posto nella classifica per l’MVP dietro a Larry Bird, Dominique Wilkins, Magic Johnson e Hakeem Olajuwon (tutti sotto i 30 anni), ma era comunque il secondo miglior giocatore della squadra ed era all’ultima stagione con più di 20 punti di media. James invece nella torta per il suo 38° compleanno sembra aver trovato la Pietra Filosofale: dal 30 dicembre in poi viaggia a 33.9 punti di media con 9.1 rimbalzi, 7.8 assist e il 52% al tiro in 37.5 minuti di media, spesso con una caviglia malconcia e trascinando una squadra che senza di lui crolla come un castello di sabbia in un giorno di vento (-13.6 punti di differenza su 100 possessi tra quando c’è e quando non c’è). Ancora oggi James è una forza terrorizzante in campo aperto (6.4 punti in contropiede a partita: primo in NBA), è al massimo in carriera (!) per percentuale di realizzazione al ferro con oltre l’80% e quando si mette in testa di arrivare nel pitturato è pressoché impossibile stargli davanti.

Anche a 38 anni e con diversi acciacchi che prova a nascondere soprattutto a se stesso, James continua a muoversi per il campo da basket come la regina nel gioco degli scacchi: è il pezzo più dominante in ogni momento, può fare qualsiasi cosa in ogni ruolo e risolvere qualsiasi situazione. Non può più farlo per 48 minuti come una volta, ma è ancora in grado di vincere una partita da solo. E non era scontato che accadesse.

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Kirk Goldsberry (@kirkgoldsberry)

Se si parla di giocatori dominanti nel pitturato, bisogna partire da LeBron.

Cosa serve per rimanere lassù

Ovviamente James ha un vantaggio anagrafico nei confronti di Abdul-Jabbar, entrato in NBA solo dopo i canonici quattro anni di college, ma LeBron è riuscito a superare il suo record giocando meno partite e meno minuti rispetto a “Cap”, e con ogni probabilità — salute permettendo — finirà attorno a quota 42.000 punti. Secondo John Hollinger di The Athletic servono 19.5 stagioni di prestazioni al top della lega per pensare di riuscire a raggiungere quella quota, e attualmente solo Luka Doncic e Jayson Tatum sembrano avere le carte in regola per provarci — almeno in linea teorica. Per arrivare lassù dove James ha fissato l’asticella, infatti, non basta avere un talento generazionale e una longevità fisico-atletica probabilmente mai vista prima, ma avere la forza mentale di resistere — anno dopo anno, stagione dopo stagione, partita dopo partita — alle pressioni che uno status del genere comporta.

Doncic ad esempio ha fatto capire chiaramente di non avere alcuna intenzione di rimanere nella NBA così a lungo da provarci, non fosse altro per quanto è prosciugante sotto ogni punto di vista provare a mantenere quel livello ogni singolo anno. LeBron James non solo ci è riuscito — che già di per sé è un risultato incredibile considerando l’hype con il quale è entrato nella lega del 2023 — ma è anche andato oltre, mostrando una forza mentale nel resistere a tutte le pressioni, le aspettative, lo scrutinio quotidiano reso ancora più insostenibile dall’esplosione dei social media, pronti a catturare ogni suo singolo sguardomomento di disperazione. James non è solo è riuscito a gestire tutto questo, ma con una mossa di karate lo ha rigirato a proprio vantaggio: non esiste un atleta così bravo a surfare sopra il clamore mediatico che lo circonda, consapevole del potere che ogni sua parola tende ad esercitare — nel bene (soprattutto) e nel male (ogni tanto, perché capita).

Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Kirk Goldsberry (@kirkgoldsberry)

Wait for it.

È comunque piuttosto curioso che proprio nelle settimane in cui è partito il countdown per il suo record di punti, al suo ritorno al Madison Square Garden dopo tre anni di assenza per via della pandemia James sia diventato anche il quarto miglior assistman nella storia della NBA, che uniti ai quasi 11.000 rimbalzi che ha catturato nel corso della sua carriera lo rendono un profilo assolutamente unico nella storia del gioco, la più sincera testimonianza del dominio totale che ha esercitato sulla NBA negli ultimi due decenni. «Sin da quando ero ragazzino mi sono reso conto di saper leggere il gioco prima ancora che si sviluppasse» ha detto recentemente in un’intervista con ESPN. «E sapevo che quando l’atletismo sarebbe calato, sarei riuscito a superare mentalmente i miei avversari. All’inizio ero solo velocità e salto, non avevo un vero gioco spalle a canestro, non ero una minaccia dalla media distanza o da fuori. E riuscivano ad adescarmi a fare certe cose in cui non ero bravo. Ma mi sono evoluto in modo tale da poter fare quello che voglio in campo, e prendermi il tiro che decido io».

Peraltro lui stesso ogni volta che si è ritrovato a commentare il fatto di aver ammassato record su record dal punto di vista realizzativo (uno su tutti: è il più giovane di sempre ad aver raggiunto ogni milestone dai 1.000 ai 38.000 punti senza soluzione di continuità), si è sempre definito un “pass-first guy”, uno che pensa prima all’assist che non a segnare. Una definizione vera per quanto limitata — se non hai la sua fiducia nel segnare sugli scarichi, infatti, puoi anche cominciare a fare le valigie e cercare un’altra destinazione, perché James è subdolamente esigente nei confronti dei suoi compagni —, e che James ha spesso utilizzato con il suo modo passivo-aggressivo per far notare quanto l’aspetto realizzativo del suo gioco sia stato sottovalutato, senza metterlo nella stessa categoria dei vari Jordan, Bryant, Durant o perfino Harden, considerati realizzatori migliori di lui perché provvisti di un tiro in sospensione più affidabile ma neanche lontanamente vicini alla sua efficacia in avvicinamento a canestro. Come se esistesse solo un modo “giusto” di segnare e l’obiettivo non fosse, semplicemente, quello ancestrale di mettere la palla nel canestro.

Un sensazionale rant di JJ Redick sull’argomento.

Fino a quando potrà durare?

La domanda che tutti si fanno adesso è fino a quando James deciderà di andare avanti. Lui stesso ha confermato a più riprese di avere “almeno un paio di anni a questo livello”, sfondando quindi come un toro la soglia dei 40 anni in campo. D’altronde il suo contratto con i Lakers scade solo nel 2025, per quanto l’ultima stagione sia in player option, dandogli la possibilità di essere free agent nell’estate del 2024, quando potrebbe arrivare in NBA anche suo figlio Bronny. Il livello di gioco a cui ci ha abituati quest’anno fa pensare che Bronny possa prendersela anche con calma nel suo sviluppo fisico e tecnico, e quindi James potrebbe puntare anche a un altro record: quello di giocatore più vecchio in NBA, primato attualmente detenuto da Nat Hickey a 45 anni e 363 giorni, anche se quella era la NBA degli albori nel 1948, non esattamente il business da 10 miliardi di dollari di adesso.

Il riferimento più diretto, almeno nella testa di James, non è però in NBA quanto piuttosto nella NFL. Da anni ormai LeBron paragona se stesso al suo grande amico Tom Brady, che con il suo secondo e definitivo ritiro ha fissato l’asticella a 45 anni di età e 23 stagioni da professionista. «Io e Tom Brady siamo fatti nella stessa maniera: giocheremo fino a quando riusciremo a rimanere in piedi» aveva detto già nel 2019 parlando del GOAT del football americano. E non è un caso che James avesse preso decisamente male la notizia del primo ritiro di Brady un anno fa, descrivendolo come «una piccola parte di me è morta quando Brady ha deciso di ritirarsi», festeggiando poi il ritorno sui suoi passi del quarterback.

Lo standard fissato da Brady è solo l’ultimo dei traguardi che James si è messo in testa, dove è riuscito a mappare lo scorrere della sua carriera vedendo un passo avanti agli altri esattamente come fa in campo. Non è un caso, allora, che alle domande sul suo ritiro la sua risposta sia sempre la stessa: «Dipende dalla mia testa: fintanto che ci sono mentalmente, posso andare ancora avanti. Il mio corpo segue quello che decide la testa, perciò dipende da quanto riesco a rimanere fresco mentalmente». Ancora una volta, guardando LeBron James ci siamo fatti trarre in inganno dal suo fisico statuario: non si arrivano a segnare 38.390 punti senza esercitare un controllo feroce su se stessi, prima ancora che sul contesto nel quale si è calati. E questo, probabilmente, nessuno lo ha fatto meglio di LeBron Raymone James.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura