Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Di che cosa parlava LeBron James quando parlava di ritiro
27 mag 2023
Un tentativo di leggere tra le righe delle sue dichiarazioni sul possibile ritiro.
(articolo)
15 min
(copertina)
IMAGO / USA TODAY Network
(copertina) IMAGO / USA TODAY Network
Dark mode
(ON)

Mentre i Denver Nuggets si preparano alle prime finali della loro storia e i Boston Celtics provano una rimonta storica da 0-3 contro i Miami Heat, il discorso in NBA è stato monopolizzato dai 13 minuti di LeBron James in sala stampa dopo l’eliminazione dei suoi Los Angeles Lakers in gara-4 della Western Conference. E come potrebbe essere altrimenti, quando dopo venti stagioni il miglior giocatore nella storia della NBA - quantomeno per punti segnati in carriera, risolviamola così - fa intendere per la prima volta di star considerando seriamente il ritiro?

Già il fatto che non ci sembri normale che un 38enne con alle spalle venti primavere nella lega e qualcosa come 65 mila minuti sul parquet stia per appendere le scarpe al chiodo ci dice molto su chi e cosa sia LeBron Raymone James. Un atleta che ci ha imposto di rimandare, anno dopo anno, queste normali riflessioni, ridefinendo il concetto di longevità ad alto livello. Per un semplice motivo, che lui stesso ha spiegato lunedì a ESPN: «Sono ancora meglio del 90% dei giocatori NBA, forse anche del 95%». Ma non è tutto. Sullo sfondo, anzi al centro delle discussioni sul suo futuro, per stessa volontà di James, c’è l’arrivo in NBA del figlio Bronny, previsto tra dodici mesi. Di cui il padre è il primo sponsor nonché un promesso compagno di squadra: «Ovunque andrà lui, ci sarò anch’io: farò tutto quello che è nelle mie possibilità per far sì che accada», assicurava in occasione dell’All-Star Game 2022 a Cleveland. Sulla questione-Bronny, però, torniamo più avanti. Andiamo con ordine e partiamo dai fatti di lunedì sera.

40 punti, 10 rimbalzi, 9 assist e più del 70% di percentuale “reale”: questa, in numeri, l’elimination game di LeBron, in campo per tutti i 48 minuti (o quasi: 47 minuti e 56 secondi per la precisione) come era accaduto una sola volta dal suo trentesimo compleanno in avanti. Il primo tempo è stato una reincarnazione delle sue migliori serate nei playoff, quelle in cui entrava in campo al grido follow my lead e poi si caricava sulle spalle i compagni di squadra, che fossero Cavs, Heat o Lakers poco importa. Così sono stati i suoi primi 24 minuti, con 31 punti segnati (massimo in carriera in post-season, lui che ha giocato e segnato più di chiunque altro ai playoff) e una giocata dopo l’altra da LeBron delle grandi occasioni.

Percorso netto da fuori (4/4 da tre, incluso un fortunato passaggio fuori misura), ma anche una serie di chiusure al ferro dopo aver bruciato Nikola Jokic, facendosi largo fisicamente contro Michael Porter Jr, o sfruttando footwork e finte per liberarsi di Aaron Gordon.

Dopo l’intervallo, la spia della riserva lampeggiava abbastanza vistosamente, ma LeBron ha trovato il modo di gestire lo sforzo fisico e garantire comunque un contributo costante, in entrambe le metà campo. Trasformando la sua notte nel primo quarantello di sempre per un trentottenne nei playoff, e aggiungendo anche qualche possesso difensivo di qualità e intensità. Come la violazione di 24 secondi forzata nel clutch time, dopo un cambio contro Jamal Murray:

Può ampiamente bastare, insieme a qualche altra prestazione di livello in questa post-season, per porre LeBron sopra a quel 90-95% dei colleghi; ai Lakers, però, ancora una volta non è bastato per portare a casa anche solo una partita, e sulla loro stagione è impietosamente calato il sipario. Sul proprio campo, nonostante l’enorme sforzo di James, vanificato - al pari della straordinaria gara-1 di Anthony Davis - per manifesta inferiorità del collettivo rispetto a Jokic e compagni.

Che cosa intendeva parlando di ritiro

Con lo stato d’animo di chi «non può definirla una stagione di successo, perché a questo punto della mia carriera non mi basta raggiungere le finali di conference», LeBron si è seduto davanti ai giornalisti e a fine intervista ha toccato quell’argomento. Prima con una risposta criptica circa il suo futuro: «Vediamo cosa succede, non lo so. Onestamente ho molto a cui pensare, a livello personale, riguardo al mio futuro come giocatore». Poi, fugando ogni dubbio sul significato di tali parole, con la conversazione riportata pochi minuti più tardi da Dave McMenamin (ESPN), che lo ha inseguito per mezza arena prima che si infilasse in un auto:

- Quando dici che hai molto a cui pensare, a cosa ti riferisci?

- Se voglio continuare a giocare.

- Già l’anno prossimo?

- Sì.

- Stai pensando di smettere?

- Ci devo pensare.

Le prime domande, ascoltandolo, sono sorte spontanee. E la primissima è figlia dell’incredulità e quasi del rifiuto con cui tutti, istintivamente, abbiamo reagito: sta cercando di distogliere l’attenzione dallo sweep appena incassato? A sostenere la tesi dello smokescreening è stato, tra gli altri, un anonimo dirigente della Western Conference, che il giorno successivo avrebbe confidato queste parole ad Eric Pincus di Bleacher Report: «Sappiamo che LeBron ama controllare la narrativa, e ora sta semplicemente evitando che si parli del 4-0». Se questo era l’intento, LeBron è andato sul sicuro parlando di possibile ritiro, e in tal caso il discorso si esaurirebbe sostanzialmente qui. Ma è un’interpretazione del suo discorso abbastanza semplicistica e con ogni probabilità parziale, visti anche gli enormi meriti dati ai Nuggets, definiti come «la miglior squadra che io e AD abbiamo affrontato da quando giochiamo insieme».

Un’altra ipotesi è che si potrebbe trattare di una semplice reazione a caldo, dettata dallo sconforto, dalla frustrazione, dalla rabbia. Pensieri, insomma, che potrebbero essere sgorgati più dalla pancia che dalla testa di LeBron. E dopo una stagione così lunga e logorante, fisicamente e ancor di più emotivamente, nonché dopo la netta sconfitta contro Denver, sarebbe una reazione umanamente comprensibile. A maggior ragione al termine di una gara-4 del genere, in cui James ha lasciato sul campo ogni energia che aveva in corpo, e anche di più, dopo sedici gare in cinque settimane con più di 38 minuti a sera nelle quali era evidente il suo tentativo di gestire certosinamente le energie per poter essere LeBron James quando più contava.

Non possiamo escludere che ogni dietrologia sul discorso di James sia fuorviante, e che le fatiche degli ultimi mesi - unite alla prospettiva di un intervento chirurgico al piede (infortunato lo scorso febbraio e gestito con la supervisione dell’ormai celebreLeBron James of feet, l’unico ortopedico che gli abbia consigliato di non operarsi immediatamente) - lo abbiano davvero portato a considerare un ritiro immediato. E se da un lato le modalità e le tempistiche con cui lo avrebbe esternato possono sembrare strane, dall’altro è ragionevole che anche lui, come noi, non fosse preparato per affrontare questa prospettiva, a scontrarsi per la prima volta con la caducità. E dunque, che i suoi dubbi siano esondati in modo istintivo, incontrollato, in un momento di cocente delusione.

Sì, è possibile che siano state le circostanze e le emozioni a scrivere la sceneggiatura della sua conferenza stampa. Anche in questo caso, però, non suona come una spiegazione esaustiva e del tutto convincente. Se non altro considerando chi è il protagonista di tutto ciò, che ormai ha una certa dimestichezza davanti alle telecamere e che negli anni ci ha abituato a leggere tra le righe alla ricerca di sfumature, significati e destinatari occulti.

L’alternativa - plausibile, e probabile nell’opinione di chi scrive - è che LeBron abbia usato un’altra volta il momento di visibilità, le reazioni che è in grado di scatenare e le pressioni che ne derivano per mandare un messaggio. Un ultimatum al più scontato dei destinatari: il suo datore di lavoro, ovvero la franchigia che rappresenta dal 2018 in avanti.

Andate all-in per costruirmi una squadra da titolo intorno, altrimenti il mio tempo a Los Angeles è finito. Questo, più o meno, potrebbe essere il contenuto del suo discorso diretto a Rob Pelinka e soci. Una sorta di: convincetemi. E in effetti non sarebbe nulla di sconvolgente per un giocatore notoriamente abituato a condizionare come nessun altro, almeno nella NBA di oggi, le scelte delle proprie franchigie. Ma perché adesso, e perché in questo modo?

Negli ultimi due anni, LeBron ha iniziato a sentire, per primo, un inizio di declino. Acciacchi fisici sempre più frequenti, un atletismo meno spiccato, la necessità di reinventarsi in campo e di dosare gli sforzi, l’impossibilità di avere il solito impatto su ogni partita e serie, e magari anche un certo logorio emotivo. La lenta presa di coscienza, insomma, che la sua carriera sia davvero agli sgoccioli. Ed è questo il circolo vizioso di pensieri, prevedibilmente angosciosi per un agonista del genere, che potrebbe averlo spinto ad andare all-in. Forzando Pelinka e soci a dargli una possibilità di vivere la propria Last Dance, costi quel che costi, e mettendo sul piatto della bilancia il dispendio fisico, e conseguentemente umano, compiuto per aiutare la squadra negli ultimi mesi. Uno sforzo non sostenibile, non più, per LeBron.

L’insostenibile instabilità della stagione dei Lakers

Per i Lakers è stata, senza mezzi termini, un’annata estenuante. Dall’inizio con dieci sconfitte nelle prime dodici al Play-In, passando per mesi di rincorsa in classifica, un’infinità di turbolenze interne, alti e bassi emotivi e di rendimento, diverse settimane senza James e/o Davis, e il ricambio quasi totale del personale a metà stagione: l’emblema dell’instabilità.

Se è vero che grazie ai movimenti di mercato a ridosso della trade deadline - gli arrivi di Hachimura, Russell, Beasley e Vanderbilt - il front office ha messo la squadra nella condizione di raggiungere i playoff, è altrettanto vero che le tempistiche con cui Pelinka si è liberato, semplificando, del problema-Westbrook non sono state le più congeniali per una contender, anzi. E se adesso nelle Finals ci sono i Nuggets e non, ad esempio, i Suns o gli stessi Lakers, è anche per la continuità del loro progetto, con tutto ciò che ne consegue.

L’impatto dei giocatori acquisiti a febbraio, tra l’altro, non è stato determinante nei playoff e soprattutto nelle finali di conference. Russell ha mostrato tutti i propri limiti e la propria inaffidabilità a questo livello, principalmente difensivi e nel decision making, mentre Beasley è scomparso dalle rotazioni dopo il primo turno e Vando col passare delle settimane ha avuto un minutaggio sempre meno consistente, fino ai 48 minuti in panchina di lunedì sera. Tutti possibili spunti di riflessione - e di insoddisfazione - per “LeGM”, prendendo in prestito un soprannome molto in voga sui social.

La stagione avrebbe potuto essere diversa se mesi prima della trade deadline Pelinka avesse messo sul piatto quanto chiedevano i Pacers - le due prime scelte 2027 e 2029, oltre al contratto di Westbrook - per ottenere Myles Turner e Buddy Hield? L’idea che i Lakers sarebbero potuti arrivare ai playoff in condizioni e con prospettive diverse ha assolutamente diritto di cittadinanza, e nell’ottica di LeBron l’errore imperdonabile del front office potrebbe essere stato proprio questo. Che la trade in questione fosse quella con i Pacers o un’altra, ovviamente: il dito è puntato contro le tempistiche con cui è mosso Pelinka, e probabilmente contro gli asset futuri che non ha voluto sacrificare. Da qui, la decisione di sgomitare per partecipare, in modo molto lebroniano, al processo decisionale, per scongiurare uno scenario di questo tipo nei prossimi mesi.

Lunedì LeBron ha parlato in questi termini del roster dei Lakers per la prossima stagione: «Onestamente, non so come sarà: io, AD, Max Christie, mi pare che Vando abbia un’opzione nel contratto, non so chi altro, ma non abbiamo un nucleo di contratti a lungo termine, quindi vediamo». Ed effettivamente, nella finestra estiva di mercato, a Los Angeles il margine d’azione e il ventaglio di possibilità sono ampi. I contratti di D’Angelo Russell ($31.4M), Lonnie Walker ($6.5M) e Dennis Schroder ($2.7M) sono in scadenza, quello di Mo Bamba ($10.3M) non è garantito per la stagione 2023-24 e quello di Malik Beasley è vincolato ad una team option ($16.5M); inoltre, Austin Reaves e Rui Hachimura saranno restricted free agent, e Jarred Vanderbilt ha un contratto decisamente favorevole alla squadra ($4.7M) e parzialmente garantito. Senza dimenticare la 17esima scelta al Draft del prossimo mese e quella del 2029, sopravvissuta alla trade deadline.

Dopo le ottime stagioni disputate, trattenere Reaves e Hachimura dovrebbe essere la priorità del front office, ma allo stesso tempo si tratta di asset di valore in eventuali sign-and-trade. In cui potrebbero essere inseriti anche Beasley e Bamba, che grazie a 27 milioni non garantiti per la prossima annata sono una risorsa appetibile sul mercato. E D’Angelo? Anche lui potrebbe essere ceduto con una sign-and-trade, oppure potrebbe essere semplicemente lasciato andare per liberare spazio salariale e dare la caccia a uno o più nomi importanti in free agency. Le opzioni, insomma, sono parecchie, e subito dopo l’eliminazione i rumors hanno già iniziato a moltiplicarsi intorno all’estate dei giallo-viola.

Se l’obiettivo è portare ai Lakers una terza stella, i nomi in cima alla lista sono quelli di Kyrie Irving e Trae Young (tra l’altro, in prima fila alla Crypto.com Arena lunedì sera), come suggerito negli ultimi giorni da Jovan Buha (The Athletic), Chris Haynes (Bleacher Report) e Brian Windhorst (ESPN). Quest’ultimo in particolare ha detto: «Ci vorrebbero un po’ di manovre, e Irving dovrebbe rinunciare al max contract, ma ci possono arrivare, anche tenendo Reaves. Posso immaginare che Kyrie sia pronto e che i Lakers possono pensare - ehi, siamo arrivati alle Conference Finals, immaginate se rimpiazziamo Russell con Irving. Per il modo in cui è finita stagione, penso che le chances che avvenga si siano alzate; e se Kyrie dice a Dallas che vuole andare ai Lakers, quindi di scambiarlo se vogliono ottenere qualcosa in cambio, i Mavs sarebbero con le spalle al muro e probabilmente sarebbero costretti a collaborare».

Prima di tutto, dunque, Irving dovrà decidere se lasciare effettivamente la squadra che lo ha acquisito solo pochi mesi fa. In caso affermativo, Los Angeles sarebbe prevedibilmente la sua prima scelta ed è quasi scontato che dall’altra parte della barricata ci sia un grande sponsor dell’operazione: quel LeBron James che potrebbe aver iniziato ad adoperarsi in tal senso proprio durante la media availability di lunedì sera. Il piano B, come suggerito da Haynes, sarebbe Young, che tra l’altro è un cliente di Klutch Sport, ma è molto più difficile mettere assieme un pacchetto competitivo per convincere gli Hawks a liberarsi della loro stella 24enne.

In ogni caso, il front office dovrebbe necessariamente sacrificare una buona parte degli asset futuri di maggior valore - leggere: le due scelte al Draft, Reaves e/o Hachimura - per consentire ai Lakers un consistente miglioramento del roster, magari con un terzo All-Star, e presentarsi ai nastri di partenza della prossima stagione tra le favorite per il titolo.

AspettandoBronny

Rimanendo a LA, a cinque minuti di macchina - senza traffico, dunque in una realtà parallela - dalla Crypto.com Arena si disputano le partite casalinghe di USC (University of Southern California), l’ateneo che ha vinto la corsa a Bronny James. Come detto in precedenza, l’attesa è che il figlio d’arte trascorra un anno con la maglia dei Trojans, dove certamente non gli mancherà visibilità, prima di fare il grande salto. Gli addetti ai lavori assicurano che il ragazzo, per il momento almeno, ha mostrato le potenzialità per diventare un giocatore NBA, ma anche aspetti carenti del suo gioco. Se fosse un prospetto come un altro, l’attuale proiezione in ottica Draft si aggirerebbe tra fine primo giro e inizio secondo, ma evidentemente non parliamo, per fattori esterni, di uno studente collegiale come gli altri.

Gli scenari che lo porterebbero a vestire la stessa maglia del padre sono diversi, ma è un discorso abbastanza precoce - anche per rispetto nei suoi confronti - prima di averlo visto in azione in NCAA per qualche mese e prima di aver constatato con quale biglietto da visita si presenterà a giugno 2024. Il momento per queste valutazioni arriverà, e sarà un unicum nella storia della lega: del resto, quale franchigia, soprattutto quelle che si muovono in mercati di modeste dimensioni, non farebbe un pensiero ad usare una lottery pick per firmare in un colpo solo LeBron e Bronny, con tutti i benefici derivanti dentro e fuori dal campo? E se invece Bronny finisse per decidere da undrafted la sua prossima squadra, e dunque testasse la free agency (con i pro e i contro che ne conseguono a livello salariale) spalla a spalla con il padre? Portiamo pazienza, verrà il momento. La speranza è che a Bronny venga lasciata una scelta più libera possibile riguardo i suoi primi passi da professionista, come lo stesso LeBron ha sottolineato pubblicamente («Solo perché questi sono i miei obiettivi, non vuol dire che siano anche i suoi, e non ho nessun problema con questo»), ma realisticamente è una speranza illusoria.

In ogni caso, la volontà di LeBron di giocarci insieme stride con le dichiarazioni di lunedì sul possibile ritiro, e anche per questo il mondo NBA si sta interrogando sul significato delle sue parole. La stella dei Lakers ha un contratto in essere da oltre 46 milioni di dollari per il 2023-24, con un’opzione da circa 50 milioni e mezzo per la stagione successiva: una situazione contrattuale che ha fortemente voluto e che gli garantisce flessibilità per seguire le orme del figlio. O meglio, per lasciare che Bronny segua le sue.

Oltre ai motivi di cui sopra, è inverosimile che LeBron abbia cambiato idea su tutto ciò e che sia pronto a lasciare, ad appena un anno dall’arrivo del primogenito e dopo un finale di stagione del genere. Non ultimo, per le cifre a cui rinuncerebbe e per i traguardi che ancora può raggiungere, a partire dalla rincorsa al quinto anello. Lui stesso, come ha detto, è convinto di essere, se non più il migliore, tra i migliori giocatori in NBA. E l’inclusione nel terzo quintetto All-NBA non lo smentisce. Perché lasciare allora?

LeBron, insomma, con quelle parole voleva lanciare un messaggio di rilancio più che di ritiro, un altro anno da fare ad alto livello (mercato dei Lakers permettendo), in attesa del figlio. E poi, tra 12 mesi, se ne riparla, senza escludere la possibilità che dopo aver compiuto 39 anni - e chissà, magari dopo essersi tolto ancora qualche importante soddisfazione - LeBron accetti di buon grado il passaggio a un ruolo diverso, più da mentore del figlio e degli eventuali giovani intorno a lui, che da punto di riferimento sul campo. Per tutto ciò, però, è davvero troppo presto e non ci sono basi solide per azzardare previsioni.

Infine, una considerazione che ha poco di tecnico ma molto di veritiero. Negli anni abbiamo imparato a conoscere LeBron, la sua teatralità, il suo ego. Ecco, per prendere due casi opposti, vi immaginate più un ritiro “anonimo” à la Tim Duncan, oppure un trionfale farewell tour in stile Kobe Bryant? Risposta scontata.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura