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La leggenda della Danimarca del '92
07 lug 2021
Una delle favole calcistiche più incredibili.
(articolo)
14 min
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Le ripescate di Europei e Mondiali sono il cavallo di rincorsa del Palio di Siena, quello che parte da dietro mentre tutti gli altri sono allineati ai nastri partenza. Spesso fracassa, a volte supera di slancio tutti o quasi.

Così ha fatto il Portogallo del 2016, campione dopo tre pareggi e un terzo posto nel girone. Così ha rischiato di fare quest’anno la Svizzera, inciampata a dodici passi dalla semifinale sui balletti di Unai Simón. Partirono lentissime e di rincorsa l’Argentina del Mondiale di Italia ’90 e l’Italia di USA ’94, ripescate e poi fermate solo all’ultima curva da Germania e Brasile.

La Danimarca dell’Europeo del 1992 partiva talmente indietro che partiva direttamente da casa. Per essere più precisi dalla cucina di casa. Lì si trovava, con gli attrezzi in mano - in piena ristrutturazione - il CT danese Møller Nielsen quando la federazione gli comunicò via telefono che bisognava preparare in tutta fretta i bagagli e una Nazionale di calcio.

C’era da fare - lì per lì - pochissima strada, che poi diventerà tantissima, ma non lo sapeva ancora nessuno. Bisognava attraversare il canale di Øresund (l’omonimo, lunghissimo e noto ponte che oggi collega Copenaghen e Malmö ancora non esisteva) e andare dall’altra parte del mare, in Svezia, a giocare contro i padroni di casa, l’Inghilterra e la favoritissima Francia al posto della Jugoslavia. Di quell’esperimento socialista voluto da Tito che vantava di contenere sei Stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni e due alfabeti era rimasta solo una guerra fratricida, cominciata un anno prima.

A sopperire alla miopia e alle timidezze della UEFA ci pensò nientemeno che l’ONU, che con la Risoluzione 757 del 30 maggio 1992 stabilì - tra le altre cose - il divieto di partecipare a tornei internazionali per qualsiasi rappresentativa jugoslava. Fu così che la UEFA, il mattino dopo, mandò un fax alla federazione danese, che si ritrovò un allenatore in cucina e 20 giocatori da inseguire in giro per il mondo. La stagione era finita ed erano tutti in vacanza. Møller Nielsen li chiamò uno a uno, recuperando anche Brian Laudrup, la stella minore di quella squadra che della Nazionale non ne voleva più sapere dopo la qualificazione mancata. Il CT, per convincerlo, gli disse: «Ti porto a vincere l’Europeo». Lo raccontò tempo dopo lo stesso Laudrup, ricordando come lì per lì gli scappò da ridere.

La stella, nonché fratello maggiore, invece si negò. Michael Laudrup, il più grande giocatore danese di tutti i tempi, non scendeva in campo per la sua Nazionale dalla sconfitta casalinga per 2-0 con la Jugoslavia che di fatto aveva compromesso il cammino verso l’Europeo. Era il 14 novembre 1990. Quel giorno disse ai giornalisti che in campo con la Danimarca non si divertiva più. I rapporti si erano rotti un mese prima, durante la trasferta a Belfast. La squadra giocava male e sull’1-1 il CT sostituì prima la stella minore e poi la maggiore. Il risultato non migliorò, i rapporti con la coppia di fratelli più importante del Paese precipitarono. Brian nel frattempo era tornato - con poca convinzione - per un paio di amichevoli, Michael ormai era lontano, in tutti i sensi. Quando Møller Nielsen lo chiamò per andare a Euro ’92, la stella del Barcellona aveva vinto da undici giorni la Coppa Campioni a Wembley contro la Sampdoria. Campione d’Europa: un danese. Era una rarità, lo rimarrà per poco.

Nonostante il secco no di Michael, il CT e il fratello Brian provarono a convincerlo fino all’ultimo momento, ovvero il 5 giugno, giorno in cui andava consegnata la lista ufficiale alla UEFA. L’Europeo iniziò il 10 giugno con il pareggio 1-1 tra Svezia e Francia. Il giorno successivo la Danimarca debuttò a Malmö pareggiando 0-0 una brutta partita con una brutta Inghilterra, non proprio uno squadrone: c’era ancora Gary Lineker, ma svernava già in Giappone e c’era già Alan Shearer, ma giocava ancora al Southampton. Uno aveva più poco da dire, l’altro avrebbe iniziato a farlo poco più tardi. In quell’Inghilterra una delle star era David Platt, che giocava nel Bari.

In Danimarca i critici, che spalleggiavano Laudrup, lamentavano la mancanza di coraggio da parte di Møller Nielsen, che schierava la squadra con un 5-3-2 bloccato, che oggi forse chiameremmo, con un po’ di generosità, 3-5-1-1. Oltre ad avere in rosa un folta batteria di difensori centrali, Lars Olsen, il capitano, figurava direttamente come libero, tanto per mettere in chiaro le cose in un momento in cui il ruolo, complice il Milan di Sacchi, stava via via scomparendo, o almeno mutando.

A centrocampo tre uomini di sostanza, buoni per fare legna e a quanto pare, per una quindicina di giorni, molto altro: i due pilastri del Brøndby, John Jensen e Kim Vilfort, ed Henrik Larsen, retrocesso in B un anno prima con il Pisa e in quel momento in prestito al Lingby. Davanti Brian Laudrup, all’epoca al Bayern Monaco, a svariare dietro Flemming Povlsen, anche lui in Bundesliga, al Borussia Dortmund.

Foto di Shaun Botterill / ALLSPORT

Nella seconda partita la Danimarca resta di nuovo a secco. Per la Svezia segna Tomas Brolin, già da due stagioni in Italia con il Parma. Richiamati il 31 maggio dalle spiagge, senza allenamenti e con un ritiro che somigliava a un villaggio vacanze, con tuffi in piscina e mogli e fidanzate al seguito, i danesi erano a un paio di giorni dal definitivo rompete le righe. Per essere certi di passare il turno bisognava battere la Francia di Papin e Cantona e del CT Platini - che si era qualificata vincendo 8 partite su 8 - e sperare in una concomitante sconfitta dell’Inghilterra, che dopo pochi secondi stava già vincendo con un gol di Platt.

Anche la Danimarca segna per prima con uno schema tanto semplice quanto efficace: lancio in area a spiovente a cercare la testa di Povlsen, centravanti vecchio stile che fa da sponda, Laudrup crea scompiglio portandosi via due uomini in direzione della porta, e Larsen, bravissimo negli inserimenti , arriva da dietro e calcia in modo violento, di esterno collo, sul secondo palo. La Francia pareggia con un diagonale millimetrico di Papin, servito in area da un geniale colpo di tacco del dimenticato Durand. A dodici minuti dalla fine entrambe le gare sono sull’1-1. Ma mentre la Francia suona la carica, Elstrup, entrato poco prima per Laudrup, segna in contropiede, finalizzando da due passi un altro assist di Povlsen. In quel momento, in perfetta parità di punti e gol segnati e subiti, solo il sorteggio avrebbe deciso la seconda semifinalista del girone, assieme alla Svezia.

Ma Brolin toglie, Brolin dà. Aveva segnato il gol della vittoria contro la Danimarca, segna quello che condanna all’eliminazione l’Inghilterra. Dopo aver rubato palla a David Batty nella trequarti inglese, il giocatore del Parma triangola ad alta velocità con il compianto Ingesson (ex Bari, Bologna, Lecce, morto a soli 46 anni nel 2014) e poi con Dahlin. Tutto di prima. La palla gli ritorna sui piedi appena dentro l’area e lui sceglie la soluzione di fino, con l’esterno destro, segnando all’incrocio dei pali. Resterà uno dei gol più belli di quell’Europeo. E così la Danimarca, vincendo una sola partita, l’ultima (proprio come a Euro 2020), passa il turno. La montagna da scalare in semifinale è la Nazionale di un luogo senza montagne, i Paesi Bassi.

Gli olandesi sono i campioni in carica e hanno in squadra Gullit, Rijkaard, Koeman, Bergkamp e, soprattutto, Marco Van Basten. Hanno vinto il loro girone in scioltezza, battendo la Scozia 1-0 e dando una lezione di gioco ai tedeschi, sconfitti 3-1. In mezzo un pareggio con una Nazionale con un nome strano, che non era nemmeno una vera Nazionale: si chiamava Comunità degli Stati Indipendenti, che detta così sembra uno di quei banchetti che provano a venderti prodotti bio al mercato. Erano invece i giocatori che avevano fatto qualificare un Paese enorme - in tutti i sensi - che nel frattempo non c’era più, l’Unione Sovietica. A farne le spese, nel girone di qualificazione fu l’Italia di Azeglio Vicini, le cui ultime speranze si spensero a Mosca, stampate su un palo colpito dal romanista Ruggiero Rizzitelli.

Quel che restava dell’URSS non riuscì però nell’impresa di andare avanti, sconfitta malamente 3-0 da una Scozia già eliminata. La prima semifinale, Germania-Svezia, terminò 3-2 per i tedeschi. L’altra, considerata ancor più squilibrata, iniziò in modo inatteso, con un gol dopo appena 5 minuti di Larsen, quello retrocesso con il Pisa, che con uno dei suoi inserimenti si fa trovare pronto di testa sul secondo palo su un cross morbido da destra di Laudrup che scavalca un colpevolissimo Van Breukelen, in modalità salto in alto stile Fosbury. Pareggiò Bergkamp con un diagonale dal limite passato in mezzo a un mare di gambe, risegnò Larsen: cross da sinistra sul secondo palo rimesso in mezzo di testa da Vilfort e corretto, sempre di testa, da Laudrup. Sulla respinta d’istinto di Koeman, ancora di testa, arriva a rimorchio il solito numero 13 danese, che di destro infila la palla nell’angolo senza nemmeno dare a Van Breukelen il tempo di buttarsi. A quattro minuti dalla fine è Rijkaard che trova il 2-2, in mischia, con una girata da centravanti.

Nel frattempo s’infortuna in modo tremendo il terzino Henrik Andersen, a cui salta letteralmente la rotula in uno scontro con Van Basten. Va da sé che quel che è accaduto a Eriksen negli ultimi Europei è stato enormemente più grave, ma la sensazione di angoscia e l’evidente impaccio della regia svedese che non sapeva come porsi davanti a quelle immagini è tornato in mente a tanti mentre Kjaer e compagni si schieravano a protezione del numero dieci.

Andersen aveva praticamente il ginocchio smontato e infilato sopra una coscia e un buco dove avrebbe dovuto esserci la rotula, eppure la regia non faceva niente per non farlo vedere. Quell’infortunio così drammatico sembrava un presagio, l’inizio della fine, invece la Danimarca restò in piedi anche grazie alla grandi parate del suo portiere, Peter Schmeichel, altro ex Brøndby da un anno al Manchester United. L’intervento che, più degli altri, ruba la scena e tiene in vita la sua squadra arriva nel secondo tempo supplementare, quando Schmeichel mette in mostra quella che diventerà una specialità di famiglia, l’uscita bassa con il petto in fuori per cercare di rimpicciolire il più possibile la porta. Un cross dalla trequarti sinistra buca la difesa: Gullit prende il tempo a tutti e colpisce la palla, che però non può far altro che sbattere sul corpo proteso del portiere. Arrivati ai rigori, i danesi segneranno tutti, per gli olandesi l’unico a sbagliare sarà Van Basten, che si farà parare il tiro, basso, angolato, ma non potentissimo, alla sinistra di Schmeichel.

La Danimarca si ritrova così in finale con la Germania, non più Ovest, ma finalmente riunificata - in un Europeo intriso di politica e Paesi che scoppiavano - dove c’erano anche tre giocatori che avevano vestito la maglia della DDR: Doll, Sammer e Thom. E campioni come Klinsmann, Matthäus, Brehme, Riedle, Hässler. Lo spauracchio, per i danesi, era però Rudi Voeller il centravanti della Roma in procinto quell’estate di passare all’Olympique Marsiglia, assente perché si era rotto il braccio durante la gara d’esordio.

Il motivo di tanto timore risaliva a poco più di un anno prima: semifinale di ritorno di Coppa UEFA allo stadio Olimpico: Roma-Brøndby. In campo per i danesi, che hanno pareggiato in casa 0-0, ci sono Schmeichel, Vilfort, Christofte, John Jensen (uno dei quattro Jensen nell’undici titolare) e il capitano Lars Olsen. Mezza squadra del Brøndby di quella sera sarà anche mezza nazionale danese alla finale di Euro ’92.

A quattro minuti dal triplice fischio il Brøndby sta pareggiando 1-1 ed è in finale, poi gli piomba addosso Rudi Voeller, che anticipa tutti su una respinta corta di Schmeichel: 2-1 per la Roma e danesi a casa. Ma Voeller questa volta, con il braccio rotto, non può anticipare nessuno. Møller Nielsen lo vede come un buon segno e carica la squadra dicendo che questa volta sarà meglio partire aggressivi, perché dopo aver battuto Francia e Olanda non bisogna aver paura di nessuno. Al 18’, proprio uno dei reduci dell’Olimpico, Jensen, segna con una botta tremenda dal limite dell’area. Brian Laudrup racconterà poi che durante il riscaldamento Jensen non aveva azzeccato nemmeno un tiro e lui si era appuntato mentalmente di non passargliela una volta arrivati in zona gol. Gliela passò Larsen.

La Germania reagì ma trovò sulla sua strada Schmeichel - con una maglia multicolore a esagoni che sembra quasi a pois - nel giorno in cui volle rivelarsi al mondo. Para qualsiasi cosa, compreso un siluro uguale, per traiettoria, a quello di Jensen, ma arrivato su colpo di testa di Klinsmann e un altro tiro, diretto nell’angolino basso, sempre di Klinsmann. Il figlio di Schmeichel è a casa: si chiama Kasper e ha 5 anni e un futuro da portiere davanti.

L’altro eroe di giornata è Kim Vilfort, che nel momento di massima pressione tedesca, al 78’, si ritrova tra i piedi un pallone respinto di testa dalla sua difesa. Con una strana giravolta salta due giocatori tedeschi che quasi vanno a sbattere tra loro. Ha la palla sul sinistro: palo, gol. La figlia di Vilfort si chiama Line, ha 7 anni, ma non è a casa, è in ospedale per una grave forma di leucemia. Il centrocampista ha fatto avanti e indietro dalla Svezia per tutto l’Europeo per stare con lei, saltando gli allenamenti di comune accordo con l’allenatore e i compagni. I danesi - una volta appresa la notizia - seguono il dramma del loro giocatore giorno per giorno, sembra perfino che la bimba possa riprendersi, rendendo la favola perfetta: Line invece morirà poche settimane dopo quell’Europeo trionfale per suo papà, un eroe normale, che segna ed esulta corricchiando e serrando entrambi i pugni, come si faceva una volta, prima di andare ad abbracciare un compagno già in ginocchio.

L’esultanza retrò di Vilfort non è l’unica immagine di un calcio che non c’è più. Quell’Europeo fu davvero la linea d’ombra in cui il calcio perse la sua innocenza ed entrò nel futuro. Per la prima volta nella Coppa Campioni erano stati introdotti due gironi all’italiana, primo passo verso la Champions League, e quattro giorni prima della chiamata della UEFA alla Danimarca era nata la Premier League, che debuttò il 15 agosto 1992. In campo, per l’Arsenal, Jensen, il primo marcatore della finale dell’Europeo. Il calciatore più pagato era Alan Shearer, passato al Blackburn per 6 milioni di sterline, e in testa al campionato - prima che lo vincesse il Manchester United di Schmeichel - si erano alternati Coventry, Norwich City, Queens Park Rangers e Blackburn. L’Aston Villa arrivò secondo, il Liverpool sesto, l’Arsenal decimo, il Chelsea undicesimo. Si salvò anche l’Oldham Athletic, un nome - oggi come oggi - per amatori delle serie minori.

Quell’Europeo fu l’ultima grande competizione internazionale in cui la vittoria valeva due punti. E sempre quell’Europeo fu l’ultimo in cui si qualificarono solo otto squadre. A Euro ’96 diventarono 16, Danimarca compresa, dal 2016 sono 24. Cosa più importante, Danimarca-Germania fu vinta anche grazie a una regola che sarebbe sparita per sempre proprio alla fine di quella partita, cambiando radicalmente il gioco: il retropassaggio al portiere. Schmeichel ne abusò per perdere tempo e mandare ai matti i tedeschi. Funzionò, insieme alle sue grandi parate, ovviamente.

Foto di Simon Bruty / Getty Images.

Il riassunto di quel folle Europeo lo fece John Jensen quando disse: «Gli altri avevano giocatori migliori, noi la squadra migliore». È la stessa speranza della Danimarca di oggi, che non può disporre di Eriksen, l’unico campione conclamato, e che è andata avanti tra drammi in diretta tv, ospedali, una qualificazione guadagnata all’ultimo respiro e un ottimismo crescente. È cambiato davvero tutto dal 1992, con più della metà dei giocatori oggi in rosa che il giorno dell’Europeo vinto non erano nemmeno nati. Ma se questa coppa la dovessero alzare i danesi, almeno per un po’ non sarà cambiato niente per una Nazionale che passa sempre da outsider, ma è già alla sua quarta semifinale europea (1964, 1984, 1992, 2021). Solo una meno di Francia, Olanda, Portogallo e Spagna, una più dell’Inghilterra, due più del Belgio.

L’unico a vincerla, sinora, col suo sistema che faceva storcere il naso agli esteti, è stato quell’uomo raggiunto da una telefonata mentre risistemava casa, Richard Møller Nielsen, il CT che ebbe l’intelligenza e la lucidità di fare due cose: lasciare la sua cucina nelle mani di un professionista mentre era via e dare libertà totale ai giocatori fuori dal campo durante il torneo. Interrogato dalla stampa contrariata per quel ritiro-non ritiro, dove ognuno faceva come gli pareva, rispose meglio di George Best e con più classe degli olandesi anni Settanta, metà figli dei fiori, metà Calcio Totale: «L’amore ai calciatori fa bene, sempre che non lo facciano tra il primo e il secondo tempo».

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