Pubblichiamo un estratto da estratto da "Giannis Antetokounmpo. Odissea", edito da 66thand2nd.
All’epoca del draft 2013, quando Giannis si aggregò ai Bucks, la franchigia era in una situazione pericolante, non soltanto per gli scarsi risultati agonistici e la carenza di pubblico, ma soprattutto per ragioni economiche. L’impianto di casa, il Bradley Center, aperto nel 1988, era considerato una struttura antidiluviana. Negli anni, date anche le scarse risorse della franchigia, aveva visto ben pochi rinnovamenti. Nei portelloni di metallo che davano accesso all’arena si insinuavano spesse tracce di ruggine, dalle perdite sul tetto l’acqua pioveva talvolta direttamente sul parquet, e gli addetti correvano con secchi e scopettoni per asciugarlo. I sedili erano consunti, e le attrezzature restavano perlopiù quelle originali del 1988, come i serbatoi di acqua calda per il riscaldamento (con pericolose chiazze di ruggine sul fondo) e l’intero sistema di raffreddamento, basato su un liquido refrigerante che non si poteva più produrre o vendere legalmente negli Stati Uniti: lo staff dell’impianto era dunque costretto a riciclarlo. Nel corso di una visita a Milwaukee, pochi giorni prima dell’inizio della stagione 2013, l’allora vicecommissioner della Nba Adam Silver aveva ispezionato l’edificio bollandolo come obsoleto secondo gli standard della lega ed emettendo un ultimatum: i Bucks avrebbero dovuto dotarsi di una nuova casa entro il 2017, altrimenti la Nba avrebbe rilevato la franchigia per trasferirla in un’altra città – la Seattle rimasta orfana degli storici Supersonics, suggerivano alcuni, oppure l’affascinante ipotesi Las Vegas.
Agli occhi di Giannis dovevano essere faccende strane, e il vetusto Bradley Center doveva apparirgli avveniristico rispetto alle palestre greche a cui era abituato, ma la questione era straordinariamente grave per l’intera città. Una franchigia Nba, pur modesta come i Bucks, è un microcosmo economico che genera reddito per molte persone, direttamente e indirettamente; perderla sarebbe stato un pessimo colpo per l’economia deficitaria di Milwaukee. Il proprietario Herb Kohl, un imprenditore vecchio stampo molto affezionato a città e squadra, si era subito mosso per vendere una quota di maggioranza a due milionari di New York, Wes Edens e Marc Lasry, con la promessa che contribuissero alla costruzione di una nuova arena, ma sarebbero serviti anche altri tipi di finanziamento. Nei primi anni della carriera di Giannis, fra gli uffici di Milwaukee il destino del Bradley Center era una questione scottante, che rimbalzava di palazzo in palazzo, di voto in voto. Nel giugno 2015 la franchigia si assicurò il prezioso supporto politico quando il senato di stato del Wisconsin approvò la proposta di utilizzare fondi pubblici per la costruzione della nuova arena: duecentocinquanta milioni di dollari, nello specifico, novantatré dei quali provenivano da un’organizzazione municipale semiautonoma, il Wisconsin Center District, nella forma di un debito contratto dai cittadini, un autentico investimento popolare. Il 18 giugno 2016, due mesi prima che Giannis firmasse il prolungamento di contratto e due mesi dopo il suo roboante finale di stagione a suon di triple doppie, cominciarono i lavori sul nuovo impianto, quello che sarebbe diventato l’attuale Fiserv Forum, nuova casa dei Bucks a partire dalla stagione 2018-2019. Nulla di tutto questo, va da sé, sarebbe mai accaduto se gli investitori, pubblici e privati, non avessero visto qualcosa su cui valeva la pena investire; e quel qualcosa era Giannis Antetokounmpo, da molti considerato un salvatore della patria. Ma lasciamo parlare i numeri: prima del draft 2013, i Milwaukee Bucks avevano un valore stimato di trecento milioni di dollari; con l’avvento di Giannis, tale cifra ha superato il miliardo e mezzo.
L’epica della Nba e delle sue stelle, forse più che in ogni altro sport o campionato, si regge su giocate iconiche, una manciata di fotogrammi da ripetere in decine di replay, spot, highlights, finché non si sedimentano nella memoria collettiva diventando parte di una narrazione. Non puoi dire di essere una vera stella Nba se non hai ancora vissuto un tuo defining moment. Quello di Giannis arriva, immancabilmente, contro i New York Knicks, al Madison Square Garden, per di più. È il 4 gennaio 2017, e si rinnova la sfida tra Giannis e Carmelo Anthony, ormai uno scontro ad armi pari, con il greco che non ha dimenticato la spocchia che Melo gli mostrò agli esordi. È il momento ideale per prendersi la rivincita e ribaltare gli equilibri, Anthony è ormai in parabola discendente – una parabola da antagonista, culminata nelle asfittiche annate di Oklahoma City e Houston prima della rivalsa con Portland – mentre Giannis è in folgorante ascesa. Nel finale, le due squadre sono a contatto, trascinate dai rispettivi leader: 30 punti per Anthony, 25 (finora) per Giannis, con 13 rimbalzi e tre stoppate. Con un punto di svantaggio sul tabellone e una manciata di secondi da giocare, i Bucks hanno una rimessa in zona d’attacco ed è uno di quei momenti in cui tutti sanno a chi sta per arrivare il pallone, chi prenderà l’ultimo tiro della partita, eppure nessuno può fare nulla per impedirlo. Giannis riceve il pallone in post, molto decentrato verso la linea laterale, una posizione scomoda. A marcarlo c’è Lance Thomas, con Joakim Noah pronto ad alzare l’ombrello nei pressi del canestro e Derrick Rose che ha già attivato le mani svelte, nel caso Giannis pasticci con il palleggio. Con la strada del pitturato sbarrata, è chiaro che Giannis dovrà prendersi un tiro dalla media distanza, una soluzione a bassa percentuale e ai limiti del suo bagaglio tecnico, perché richiede di impugnare il fioretto anziché la sciabola. A questo punto della carriera, la trasformazione fisica di Giannis è quasi completa. Mancano ancora un paio di chili per stabilizzare la parte inferiore del corpo, ma l’addome è flessibile e d’acciaio, le braccia guizzanti di muscoli sotto le spalle da gabbiano. Sfoggia anche una nuova capigliatura, una sorta di cresta che coniuga la moda del momento e un vago sapore tribale. La sua personalità sta prendendo una forma sempre più riconoscibile, sempre più vendibile dalla macchina-Nba. Tale forma è un corpo che occupa e impegna lo spazio del campo in maniera pressoché inedita, un corpo talmente visibile e meraviglioso (nel senso che incute meraviglia mista a sgomento) che non può nascondersi neanche volendo; un corpo che comunica e domanda incessantemente qualcosa di sé al mondo, che attrae o respinge compagni e avversari assecondando ora la legge gravitazionale, ora la spinta opposta, puramente muscolare, di Giannis.
In questo caso, Lance Thomas viene spinto sotto canestro dai decisi colpi d’anca di Giannis, abbinati e ritmati al palleggio. Uno, due, tre, quattro colpi, Thomas non cerca di rubare la palla, nessuno lo raddoppia, allora Giannis temporeggia con freddezza e padronanza tecnica, spreme ogni centesimo del cronometro, tenta di sfilare attorno al difensore per attaccare il ferro ma cambia repentinamente idea appena vede palesarsi l’ombra di Noah con le mani già alzate, così fa un passo indietro – uno dei suoi passi, con gli arti smisurati che lo portano su una mattonella familiare, intorno alla linea del tiro libero, creandosi in una frazione di secondo tutto lo spazio aereo necessario per scoccare il tiro. Appoggio sinistro, destro, elevazione all’indietro, un fadeaway jumper, e gli occhi stanno già prendendo la mira sul ferro come se le mani protese di Lance Thomas fossero incorporee, un ostacolo che si ferma all’altitudine dei miseri mortali. Lassù, intanto, dove l’aria è rarefatta, Giannis artiglia il pallone con le lunghissime dita della mano destra per abbandonare la presa all’ultimo istante possibile, trasferire sul cuoio ogni fibra dei polpastrelli. Il rilascio è morbido, la parabola più piatta di come insegnano gli allenatori, ma l’importante è il risultato. Il pallone entra nel canestro esattamente sull’urlo della sirena, un buzzer beater, 105-104 per i Bucks. Giannis atterra in arretramento, l’inerzia lo porta verso la propria metà campo, e mentre i compagni gli stanno già correndo incontro per sommergerlo in un abbraccio, lui allarga le spalle e mostra un sorriso felino alla telecamera – come il Michael Jordan di quella storica partita contro i Portland Trail Blazers in cui sembrava fisicamente incapace di sbagliare un tiro. «Che ci posso fare?» dice quello sguardo. «Non è colpa mia se questo gioco è così facile». Le telecamere stringono su Giannis e catturano al rallentatore ogni dettaglio del suo volto, che muta freneticamente espressione come in preda a uno spasmo, un tic nervoso, uno sdoppiamento. Un istante è un attore consumato, che si è studiato quell’esultanza in anticipo e conosce la posizione di ogni telecamera, l’istante dopo è un ragazzino incredulo di sé stesso, che trattiene il sorriso per sembrare più grande.
Carmelo Anthony, intanto, perfetto complemento scenografico, ha assunto la posa plastica della sconfitta: mani sui fianchi, capo chino, respiro affannato e sguardo rivolto al tabellone, la fronte aggrottata come nello sforzo di decifrare il sibillino responso di quelle cifre lampeggianti.