Nonostante sembri attraversare un periodo di crisi esistenziale, la FA Cup resta una delle coppe nazionali più iconiche, celebrate e ammirate. Istituita da Charles Alcock nel 1871 al fine di formare una manifestazione in cui tutte le affiliate alla federazione fossero invitate a partecipare, la FA Cup ha visto le proprie regole rimanere praticamente invariate per oltre 150 anni: niente teste di serie, gare ad eliminazione diretta e replay in caso di pareggio.
L’epica della FA Cup
La FA Cup è nota per quelli che vengono definiti “giant-killing”, le partite in cui una squadra di una serie inferiore riesce ad eliminarne una di Premier League. A tracciare il percorso fu la vittoria dell’Hereford contro il Newcastle nel 1972, tuttora celebrato come il più grande upset nella storia della FA Cup. In quella gara sono racchiusi tutti gli elementi del perfetto “giant-killing”: una piccola e anonima squadra non professionistica che ne batte una di prima serie contro ogni pronostico, in casa e per giunta nel replay, uno stadio strapieno (le cronache dell’epoca dicono fosse ben al di sopra della sua capienza) e il pubblico che invade il campo al fischio finale consapevole di aver assistito a un’impresa difficilmente ripetibile.
L’immaginario della FA Cup è unico, passando in poche settimane da vetusti e sperduti campi di provincia alla maestosa cornice di Wembley. Proprio questa capacità di abbracciare il calcio ad ogni latitudine e di riportarlo alla sua dimensione originale di thepeople’s game ha reso la Fa Cup uno degli appuntamenti maggiormente apprezzati in patria e all’estero.
Tifosi arrampicati sugli alberi o affacciati sui balconi di casa per guardare la partita, impianti sullo sfondo di paesaggi improbabili (il parcheggio visibile dietro una delle porte dello stadio dell’Oxford United, per esempio) sono solo alcuni degli scenari che meglio rendono l’universalità di questa coppa, ultima rappresentazione di un torneo anacronistico se inserito nel panorama attuale del calcio inglese, così dipendente dal business internazionale.
Il capitano del Manchester United, Charlie Roberts, guida la sua squadra in campo per la finale di FA Cup contro il Bristol nel 1909 (foto Tropical Press Agency / Stringer).
Ciascuna partecipante è consapevole di poter battere chiunque e di potersi pensare in grande, anche perché la formula lo permette. Per il pubblico neutrale queste dinamiche sono esaltanti, perché consentono di immedesimarsi e affezionarsi al Southampton che sorprende il Manchester United nel 1976, al Wimbledon che sconfigge il Liverpool nel 1988 oppure al glorioso Leeds che sbanca l’Old Trafford nel 2010.
La FA Cup produce dei miti e degli eroi le cui gesta rappresentano un’eredità e un’epica in continuo divenire. Le parole di Ricky George, il supersub dell’Hereford diventato molto più del man of the match nel celebre ko rifilato al Newcastle nel 1972 sono significative: «Ogni anno mi arrivano richieste di interviste, ho lavorato nei media, scritto un libro e ricevuto persino un riconoscimento ufficiale dal sindaco di Hereford».
La FA Cup è forse l’unica manifestazione che non rivolge la propria attenzione ai vincitori, focalizzandosi al contrario sul supporto degli underdog e sulle storie di coloro che ne fanno parte: il metalmeccanico che fa l’attaccante nel tempo libero (come Jamie Vardy ai tempi dello Stocksbridge), il calciatore-barbiere e gli allenatori formatisi su Football Manager.
Sebbene la vittoria sia infine poi esclusiva dei soliti Chelsea, Arsenal, Manchester United e Manchester City – vincitori di 16 delle ultime 18 edizioni – arrivare in finale è tutt’altro che scontato. Complice la mancanza di teste di serie nei sorteggi, è abbastanza difficile che due grandi arrivino a contendersi il trofeo. A volte capita di non trovarne nemmeno una, assistendo allo scontro inedito tra due outsider (successe nel 2008, quando il Portsmouth batté il Cardiff); altre volte, invece, la sfavorita supera la formazione più quotata (il Wigan nel 2013 beffò il City nel recupero, con i “Latics” retrocessi in Championship pochi giorni dopo), oppure ci va parecchio vicino, come Hull City e Crystal Palace, sconfitte ai supplementari rispettivamente contro Arsenal nel 2014 e Manchester United nel 2016.
D’altra parte, come abbiamo detto, gran parte del fascino della FA Cup si basa proprio su questi upset. Lo scorso anno il Lincoln è diventata la prima formazione di Non-League in 103 anni a raggiungere i quarti di finale battendo il Burnley, mentre nel 2014-15 il Bradford (League One) eliminò il Chelsea, futuro vincitore della Premier League.
Anche in questa stagione le sorprese non sono mancate. Il 19 febbraio il Wigan, attualmente in cima alla classifica di League One, ha battuto al DW Stadium per 1-0 il Manchester City nel quinto turno di FA Cup, eliminando dalla competizione una delle favorite e bissando il successo ottenuto contro i “Citizens” nella finale di Wembley del 2013.
A chi interessa la FA Cup?
Dopo Wigan-City si è molto parlato della magia e dell’imponderabilità della FA Cup, e gli ingredienti per farlo, effettivamente, c’erano tutti: la realizzazione di un “giant-killing” epico (il City era ancora imbattuto, il pathos generato dalla stoica resistenza dei padroni di casa, andati a segno in una delle poche occasioni create per poi asserragliarsi in difesa negli ultimi minuti di una partita molto tesa, con falli, battibecchi ed espulsioni; e poi l’invasione di campo al triplice fischio, forse l’elemento che meglio di ogni altro identifica la vittoria di una piccola ai danni di una grande nella più antica competizione calcistica ufficiale al mondo.
L’atmosfera fatata innescata dall’inaspettato esito della sfida ha offuscato a lenta e graduale perdita di fascino della FA Cup.
I capitani dell'Aston Villa e dell'Oldham Athletic al lancio della monetina prima della semifinale di FA Cup del 1913 (foto Hulton Archive / Stringer).
Su Google i risultati della ricerca “Has the Fa Cup lost its magic” sono quasi due milioni, a testimonianza di una percezione comune che esiste ormai da diversi anni. Uno degli articoli più datati risale al 2005 e porta la firma di Paul Fletcher, giornalista della BBC. Nonostante la sua longevità, rimane tuttora uno dei più validi e attuali per la validità delle tesi sostenute.
All’indomani del terzo turno, coincidente con l’esordio delle big del calcio inglese, Fletcher sottolineava un gap negativo di 87mila presenze allo stadio tra le gare di FA Cup e quelle del campionato di appartenenza rispetto alla settimana precedente alla partita. Soltanto nove club avevano registrato un media spettatori superiore in coppa: di questi, nessuno proveniva dalla Premier, solo due militavano in Championship, mentre i rimanenti sette erano iscritti nelle serie inferiori.
La situazione non è migliorata negli anni successivi: nel 2010 la media spettatori per il terzo turno fu di poco superiore alle 18mila unità, mentre nel gennaio 2018 l'affluenza era calata del 43% rispetto all’edizione precedente. Se escludiamo le sei big di Premier (Manchester United, Manchester City, Chelsea, Liverpool, Arsenal e Tottenham), che sono le principali artefici delle presenze allo stadio in FA Cup (nel 2015 hanno richiamato oltre mezzo milione di tifosi in occasione del quarto turno, un record negli ultimi 37 anni), la decrescita del pubblico è uno dei punti di partenza per analizzare la crisi della storica coppa nazionale inglese.
L’FA Cup non è un affare per tutti
Una delle possibili cause è probabilmente la copertura televisiva cui sono soggette diverse partite, ad eccezione di quelle della fascia oraria 14.45 – 17.15 oscurate dal cosiddetto Saturday3pm blackout imposto da Football Association, Premier League e Football League.
Uno dei più recenti studi a riguardo ha raccolto le precedenti ricerche in materia a partire dal 1996, mostrando come effettivamente questa correlazione abbia registrato negli anni, seppur in maniera non vistosa, un impatto generalmente negativo, con picchi anche del 21%. Il dato, unito anche al fatto che non sempre il biglietto per assistere alla Fa Cup è compreso nell’abbonamento stagionale di ciascun club, è un buon indicatore di partenza per capire perché l’affluenza media sia crollata dalle 21mila unità del 2004/05 alle 11mila dell’attuale edizione.
Nella maggior parte dei casi, le gare trasmesse in diretta TV riguardano le formazioni di prima serie impegnate contro le piccole realtà di Football League e Non-League, sia perché il “giant-killing” è dietro l’angolo (circostanza che può aumentare il numero di telespettatori e il relativo indice di share), sia perché per una società dilettantistica la diretta nazionale ha un’importanza economica che va ben oltre il risultato sul campo. Se, per esempio, superare il terzo turno in questa stagione fruttava 67.500 sterline, la copertura televisiva della medesima fase ne generava 144mila, cui aggiungerne altri 72mila in caso di replay.
È per questa ragione che molte squadre non professionistiche sperano di incontrare i club di Premier, assistendo al sorteggio nel proprio centro sportivo ed esultando in caso di abbinamento. Oltre alla possibilità impareggiabile di affrontare alcuni tra i calciatori più famosi del mondo e di calcare l’erba di stadi come Old Trafford e Anfield, la FA Cup – e i soldi che ne derivano – hanno una rilevanza superiore al prestigio della sfida in sé, potendo fare la differenza tra un periodo di stabilità finanziaria e il rischio di imbattersi in una crisi cui sono costantemente sottoposti gli ambienti lontani dal professionismo. Affrontare una squadra di Premier in trasferta diventa un bonus aggiuntivo, dal momento che il 90% degli incassi viene diviso in parti uguali, con il rimanente 10% destinato alla Football Association.
Tom Boyle, capitano del Burnley, porta il pallone in campo per la semifinale di FA Cup del 1914 contro lo Sheffield United (foto Hulton Archive / Stringer).
L'influenza della FA Cup sulle sorti di un club è ben visibile con quanto accaduto al Cambridge United dopo il quarto turno del 2015/16. Dopo aver bloccato in casa il Manchester United e perso il replay, nelle casse della compagine di League Two finirono quasi 2 milioni di sterline, cifra superiore al fatturato annuale successivamente investita per migliorare le strutture del club e aumentare il personale.
Ma se a trarne beneficio in termini di entrate sono soprattutto squadre come il Cambridge, il Sutton o l’Exeter, il discorso cambia per le partecipanti alle prime due divisioni nazionali. Per le squadre di Premier League in lotta per non retrocedere, ad esempio, la FA Cup rappresenta poco di più di una distrazione rispetto al campionato, in cui schierare le riserve per preservare i migliori giocatori da infortuni o squalifiche (bisogna ricordare che un’espulsione diretta costa tre giornate, da scontare a partire dalla competizione ufficiale immediatamente successiva).
Per queste squadre rimanere in Premier League è una priorità di gran lunga più grande, visti gli enormi introiti che garantisce grazie ai diritti tv. Quelli per il triennio 2016/19, ad esempio, valgono 5,1 miliardi di sterline e vengono spartiti facendo riferimento solo alla stagione in corso, secondo un modello che per equità non ha eguali in Europa. Il 50% viene suddiviso in parti uguali, il 25% in base alla posizione in classifica e il restante 25% tenendo conto del numero di gare trasmesse in TV. A rendere ancora più democratica la procedura ci sono i ricavi internazionali, che la Premier League distribuisce in parti uguali (lo scorso anno, per esempio, ogni club ha ricevuto 39 milioni di sterline).
Si tratta di cifre astronomiche se confrontate con quelle della FA Cup, la cui vittoria nell’edizione attuale vale appena 1,8 milioni, meno di quanto incassa l’ultima classificata in Premier. Discorso simile per le squadre di Championship, in assoluto una delle competizioni più lunghe, difficili ed estenuanti per le squadre in gioco, che cercano disperatamente di ottenere la promozione. Se è vero che il palcoscenico di Wembley rappresenterebbe per molti calciatori il punto più alto della carriera, proprietari e allenatori preferiscono ragionare in prospettiva e concentrare le proprie energie sul campionato. Arrivare primi in Championship non è un grosso affare nell’immediato: lo scorso anno il Newcastle capolista incassò 7 milioni contro i 170 dell’Huddersfield vincitore dei playoff – differenza causata dalla diversa retribuzione applicata dalla Football League e, soprattutto, dal ricco jackpot assicurato dalla messa in onda della finale sul canale Sky Sports. Il desiderio della promozione a volte obbliga ad effettuare spese superiori rispetto ai guadagni, ma rappresenta il modo più veloce per mettere le mani sui guadagni garantiti dalla Premier League.
Calendari e stadi
La scarsa convenienza economica della FA Cup per le squadre di Premier League e Championship e la pressoché totale copertura televisiva delle gare svincolate dal Saturday3pm blackout sono solo alcune delle criticità che portano molte squadre a snobbarla.
Una di queste è la scelta di far disputare il terzo turno nella prima settimana di gennaio, il momento più ricco di impegni per parecchie squadre, molte delle quali reduci dell’affollatissimo periodo di calendario tra natale e capodanno, che mette in palio punti importanti per il raggiungimento dei rispettivi obiettivi. Più in generale, per le big del calcio inglese gli appuntamenti in coppa coincidono con quelli più importanti in Premier League, Champions League o Europa League, con la conseguente necessità di evitare i replay per non sovraccaricare ulteriormente il proprio calendario.
C’è poi la questione relativa ai sorteggi e al rischio di abbinamenti poco appetibili, specialmente per il pubblico neutrale. Se si esclude il fattore "Davide contro Golia” gli incroci tra club di Championship, League One o League Two passano spesso inosservati, sia allo stadio che in televisione. Nel terzo turno dell’attuale edizione, la maggioranza delle partecipanti ha registrato un'affluenza inferiore alla media stagionale, con i picchi negativi del -67% a Cardiff e del -63% a Birmingham.
Il portiere del Liverpool Elisha Scott para un rigore all'Arsenal, in un primo turno della FA Cup del 1923 (Tropical Press Agency / Stringer).
Infine c’è anche una controversia legata a Wembley come struttura deputata a ospitare, oltre alla finale, anche le semifinali (usanza in vigore dal 1991, con una breve parentesi al Villa Park e al Millenium Stadium, dovuta ai lavori di ristrutturazione), paradossalmente se si pensa che lo stadio londinese viene spesso indicato come uno dei più affascinanti al mondo.
Innanzitutto, c’è chi ritiene che questa tradizione sia tenuta in piedi soprattutto per giustificare gli oltre 700 milioni di sterline spesi nella costruzione del più capiente stadio del Regno Unito. Ci sono poi anche problemi di natura logistica, legati all’accessibilità e alla comodità dell’impianto. I tifosi che non provengono da Londra devono tenere conto della distanza e della limitata disponibilità dei mezzi pubblici per fare ritorno a casa, rischiando di dover trascorrere una notte nella capitale qualora il match dovesse prolungarsi ben oltre il 90’, dal momento che entrambe le partite vengono disputate solitamente nel tardo pomeriggio di sabato e domenica per esigenze televisive.
I posti per i sostenitori delle squadre semifinaliste (ma la regola vale anche per la finale) sono inoltre limitati a circa 30mila biglietti ciascuna, mentre la rimanente parte è destinata agli sponsor e al pubblico neutrale, con un conseguente impoverimento dell’atmosfera all’interno di uno stadio spesso troppo grande e dispersivo rispetto al numero di tifosi che deve realmente ospitare.
Ripartire da Wembley
Eppure, è proprio da Wembley e dalla finale che si potrebbe ripartire per migliorare l’attuale format, per dare nuovo lustro alla FA Cup. Sebbene alcuni giornalisti inglesi propongano la qualificazione in Champions League per la vincitrice – un’idea che sembra più un’utopia che un’ipotesi realizzabile, anche alla luce delle nuove liste di accesso alla fase a gironi – una possibile soluzione potrebbe essere assicurare un posto in Europa League alla finalista perdente anziché alla sesta o settima del campionato qualora la vincente sia già qualificata (sistema peraltro già adottato dalla Coppa di Lega). In questo modo l’esito della finale potrebbe anche rimanere scontato, ma assicurerebbe un “premio di consolazione” assai più rilevante delle 900mila sterline riservate agli sconfitti.
Altri commentatori auspicano poi che lo stesso Wembley ospiti solamente la finale per preservarne il fascino e la grandezza, e non svilire la caratura dell’avvenimento. Riportare l’orario della partita alle 15 locali di sabato (e non alle attuali 17 della domenica) favorirebbe l’afflusso dei tifosi, soprattutto quelli che vengono da lontano, così come spostare la finale nella settimana successiva al termine dei campionati.
Al posto di Wembley come sede delle semifinali dovrebbero essere quindi scelti stadi totalmente neutrali – evitando quindi che una londinese possa in qualche modo risultare avvantaggiata – e funzionali ad entrambe le contendenti, decisi a ridosso dell’evento e non ad inizio stagione. Fino alla tarda metà degli anni Ottanta, questa pratica era abbastanza diffusa e incontri del genere si svolgevano in impianti come il Villa Park o Hillsborough.
Ulteriori possibili migliorie riguarderebbero l’aumento del montepremi per il vincitore, o in generale per il passaggio di ciascuna fase, con lo scopo di rendere la coppa più appetibile a livello economico e diminuire il gap che la separa dalla Premier e dalla Championship.
Infine c’è il calendario. Disputare il terzo e il quarto in un periodo meno affollato dell’anno – come un infrasettimanale oppure durante la pausa per gli impegni delle Nazionali – garantirebbe ai calciatori un maggiore recupero dopo il tour de force natalizio, evitando che le squadre di Premier scendano in campo imbottite di riserve. Inserire poi tutte le partecipanti nel primo turno (al via all’inizio di novembre) aumenterebbe le possibilità di “giant-killing”, scongiurando al tempo stesso l’ingresso massiccio delle realtà di Premier a competizione inoltrata.
Persino una regola tradizionale come i replay potrebbe essere sostituita per ricostruire parte del fascino della FA Cup. Già eliminati dalle semifinali nel 1999, nel 2016 la Football Association ha deciso di rimuovere i replay a partire dai quarti di finale per sfoltire i calendari dei club di Premier, principali promotori dell’iniziativa. Nonostante i malumori delle squadre di Football League e Conference – invogliate a ricercare la ripetizione della gara considerati i soldi della copertura televisiva – togliere i replay potrebbe invece aumentare l’imprevedibilità della competizione, diminuendo i minuti giocati e aumentando quindi il peso dei singoli episodi nei confronti, livellando quindi maggiormente il divario tecnico tra due squadre.
Il capitano del Newcastle viene scortato dalla polizia dopo aver vinto la FA Cup del 1924 contro l'Aston Villa a Wembley (foto Tropical Press Agency / Stringer).
Il cambiamento di quella che era una delle maggiori tradizioni della FA Cup potrebbe essere solo l’anticamera di un’ulteriore e più profonda decisione: cancellare totalmente i replay, sostituendoli con i supplementari e in seguito i rigori, mutuando il regolamento vigente in League Cup. I club verrebbero fatti desistere dal giocare per il pareggio, rendendo le gare ancor più eccitanti e alleggerendo gli impegni delle big di Premier impegnate in Europa.
La stessa Premier League è l’unico torneo che si ferma per far disputare le varie fasi della FA Cup – a differenza degli altri campionati nazionali, in cui le società impegnate in coppa recuperano la giornata nell’infrasettimanale – a testimonianza della grande attenzione di cui essa gode. Le televisioni giocano un ruolo importante nella diffusione dei match, tanto fondamentale quanto a volte demoralizzante per tutte quelle realtà dimenticate dalle telecamere. Le squadre di Premier vengono quasi sempre trasmesse in TV – il Manchester United per anni ha monopolizzato i palinsesti nazionali –, quando invece sarebbe opportuno diminuire le dirette per i club di prima serie che si affrontano tra loro e preferire incroci dal sapore retrò tra una grande e una piccola, oppure tra due nobili decadute dal passato glorioso.
David Davies, executive director della Football Association dal 1994 al 2006, ha dichiarato: «Non dovremmo temere il cambiamento, a patto che esso sia rispettoso. Discrete riforme inerenti sponsorizzazioni, regole, copertura televisiva e altre intelligenti innovazioni potranno aiutarono a conservare lo status di questo trofeo speciale».
Rivedere la Fa Cup, mantenendone le radici della tradizione unite però alla necessità di modificare qualcosa, potrebbe essere il punto di partenza per riportare la coppa ai fasti di un tempo.