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L’equilibrio precario dei Boston Celtics
15 mar 2019
15 mar 2019
A che punto si trovano i biancoverdi a un mese dai playoff.
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A parere pressoché unanime, ai nastri di partenza della stagione NBA la corsa a Est vedeva quattro squadre davanti a tutte con gerarchie chiare: Milwaukee, Toronto e Philadelphia tutte un passo indietro rispetto a Boston. Questo perché i Celtics erano reduci da una finale di conference alla quale erano arrivati senza poter contare su Kyrie Irving e Gordon Hayward. Perciò - era il pensiero comune - figuriamoci cosa avrebbero potuto fare con quei due nel motore sin dall’inizio.

Però la matematica spiccia nel basket a volte può rivelarsi niente più che un’opinione. A poco più di un mese dalla fine della regular season Boston è quinta ad Est, dietro le altre tre favorite e pure dietro Indiana. Ha un record positivo, ma in trasferta è poco sopra il 50% (la scorsa stagione lontano dal TD Garden era al 68% di vittorie); contro le Big della Eastern Conference è 6-4; dopo l’All-Star Game era 1-5 prima del triplo successo in terra californiana. Il quintetto dei sogni - Irving, Brown, Tatum, Hayward, Horford - è il secondo più utilizzato da Stevens, ma a distanza siderale da quello con Morris e Smart al posto di Brown e Hayward e per di più con un offensive rating di 92.9, uno dei più bassi che la squadra produce.

Analizzare la stagione dei Celtics cercando dei punti di continuità resta un’impresa di difficile soluzione. L’ottovolante su cui stanno viaggiando i verdi ha registrato dei picchi paurosi verso l’alto e verso il basso, tutti tendenzialmente presi ad altissima velocità. Boston è passata dal prendere schiaffoni sul sedere dagli Houston Rockets in casa a darne di sonori ai Golden State Warriors, fino a difendere duro per tre partite a prenderne 140 dagli L.A. Clippers. E questo solo per rimanere nell’ultima settimana. E uno di coloro più in difficoltà, Gordon Hayward, ha piazzato un paio prestazioni che ci hanno ricordato perché nel 2017 era uno dei free agent più ambiti della lega.

I problemi personali dei Celtics
«Il viaggio in aereo verso la California ci ha aiutato. Ne avevamo bisogno. Eravamo arrivati ad un punto in cui eravamo stanchi di discutere tra di noi e con il mondo intero». Dando pieno credito alle parole del figlioccio di coach Stevens a Butler, il problema dei Celtics in questa stagione è stato - ed in gran parte è ancora - di natura mentale, legato in primis a rapporti umani mai del tutto decollati. Poi, solo poi, vengono i problemi tecnici e tattici.

Ci sono dei momenti in cui i Celtics spariscono dalla partita, andando ognuno per conto proprio, attaccando in maniera svogliata e soprattutto difendendo ben al di sotto della soglia John Wall. Prendete il primo quarto contro Houston, prendete le palle strappate con facilità irrisoria dai Rockets, prendete i comodi punti da sotto in uno-contro-zero di Harden e compagni. La difesa di Boston è la quinta migliore di tutta l’NBA per punti subiti ogni 100 possessi con 106.1, e anche considerando solo le sconfitte i Celtics si mettono dietro comunque 18 squadre. Il discorso è un altro: quando non difendono, si nota fin troppo bene.




Qui Paul passa accanto a un Horford che è salito altissimo, confidando forse su Irving, il quale però resta chiuso dal blocco di Capela e finisce per seguire lo svizzero. Cosa che fa anche Horford, il quale non si accorge di Gordon alle sue spalle. Gordon è l’uomo di Tatum, impegnato giustamente a chiudere la penetrazione a CP3. La linea di passaggio verso lo 0 dei Rockets è liberissima. Fin qui possiamo parlare di scarsa per non dire nulla comunicazione tra i difensori. Ma poi accade una cosa ancora più grave: Gordon, in gran serata al tiro, ha il tempo di un palleggio per sistemare ancora meglio i piedi. Tatum è prima rassegnato, poi scatta ma è troppo tardi. Ciliegina #1: Irving che va senza senso verso P.J. Tucker già seguito da Morris. Ciliegina #2: Capela in enorme vantaggio per l’eventuale rimbalzo.



Cosa è cambiato dall’anno scorso
Fin troppo semplice individuare nel cambio di minutaggio e responsabilità di alcuni giocatori una delle cause tecniche delle difficoltà biancoverdi. Fin troppo semplice ma assolutamente veritiero. Prendiamo i due baldi giovani esplosi l’anno scorso, in maniera e con tempistiche non attese dalla franchigia.

Jayson Tatum ha numeri per molti versi migliori della sua prima stagione in NBA: tira di più anche se leggermente peggio - sia come percentuale che come meccanica -; prende più rimbalzi; serve più assist; ha un Usage più alto con il 22%, secondo della squadra dietro Irving. Ma per arrivare ad Anthony Davis la dirigenza, cioè Danny Ainge, non si farebbe scrupoli ad inserire il suo nome peraltro molto appetito dai Pelicans. È questa situazione in bilico che, a detta di molti beat writers, ha frenato Tatum nel suo percorso di crescita. Una situazione mentale che precede quella tecnica.

Diverso il discorso per Jaylen Brown, che rispetto al suo anno da sophomore ha visto modificarsi ruolo - da titolare a uomo in uscita dalla panchina - e con esso spazio e cifre. Sui 100 possessi tira di più (da 18.2 a 19.6), ma con percentuali peggiori in generale (dal 46.5% al 45%) e soprattutto dall’arco (dal 39.5% al 31.3%). Il Net Rating è calato (da +7.5 a +3.1) al contrario dello Usage che è aumentato dal 20.6% al 21.6%. Brown ha impiegato tempo per trovare le sue nuove comfort zone dovendo indossare un abito diverso da quello della scorsa splendida stagione - un abito molto simile a quello che probabilmente i Boston Celtics avevano in mente per lui dopo averlo scelto al Draft del 2016. Ma il prodotto di California University è stato anche quello che ha risposto direttamente alle accuse e alle lamentele di Irving, facendo capire che sarebbe (stato) il caso di prendersi responsabilità come gruppo e non come singoli. Inoltre è stato un segnale di personalità e di richiesta di rispetto che non poteva passare inosservato agli occhi di Irving e che aveva solo conseguenze estreme: o l’esplosione totale, o la riconciliazione. La seconda sembra aver prevalso (e lo vedremo tra poco).

E poi c’è il nuovo acquisto de facto, Gordon Hayward. Da un infortunio come il suo - lussazione della caviglia e frattura della tibia - non è facile riprendersi, e non è facile lavorare sapendo che puoi non tornare quello di prima e che anzi non devi sforzarti di tornare quello di prima. La pazienza e la tranquillità sono le basi su cui poggiare il recupero di testa e fisico. Sono cose che Hayward si è sentito dire da tanti, in primis da un altro che ha visto la propria carriera a rischio come Paul George. L’inizio di stagione è stato altalenante, anche perché lo era l’andamento complessivo della squadra. Ma adesso, dopo che ormai si è consolidato il suo ruolo da sesto uomo, è tornato ad avere un impatto in attacco e in difesa almeno numericamente simile a quello del suo ultimo anno nello Utah: 110.1 di offensive rating e 103.8 di defensive mentre due anni fa aveva 110.1 e 103.1.




Stare lontano dalla palla per Hayward è diventato un modo per sfruttare le sue capacità di lettura e dosare meglio il fisico. Qui aspetta il momento propizio per attaccare Durant dal lato debole, sfruttando la disattenzione di KD e la concentrazione di tutta la difesa su Smart che attacca Curry spalle a canestro - una situazione che Golden State non può sottovalutare. Il passaggio a premiare il taglio backdoor è una delizia, una delle tante giocate di squadra che i Celtics hanno sfoderato all’Oracle Arena.






E poi c’è questo canestrino risolutore contro i Kings. Giocate così pesano più dei numeri e delle statistiche nella testa di Hayward. Sono queste cose a dargli la certezza di essere non solo un giocatore di basket, ma un giocatore di basket determinante. Qui ci mette lettura, tecnica, fisico e mano morbidissima.



Pure Terry Rozier ha visto il suo minutaggio crollare rispetto ai playoff in maniera assolutamente prevedibile, ma anche lui non l’ha presa benissimo. In definitiva chi ha portato la squadra alla finale di Conference contro LeBron James si è visto scavalcare nelle rotazioni da chi non c’era per infortunio senza che ne fossero riconosciuti pienamente i meriti nello spogliatoio. E se per Hayward c’è un aspetto umano, per Irving invece il discorso è completamente diverso.

Il ruolo di Kyrie
Ci siamo già occupati del problema di leadership di Kyrie Irving in questi Celtics. Rispetto all’epoca dell’articolo, qualcosa è cambiato nel modo in cui “Uncle Drew” ha deciso di rapportarsi con i compagni. È meno aggressivo davanti ai microfoni, parla meno delle responsabilità degli altri e più delle sue, in campo cerca di coinvolgere maggiormente i compagni. Nelle partite di marzo il suo Usage è calato dal 28% dei tre mesi precedenti al 24.3% senza che il resto delle sue cifre ne abbia risentito, anzi. Irving ha meno il pallone tra le mani ma nonostante ciò è più produttivo, in una situazione di equilibrio che magari è precario, ma che per il bene della squadra deve esserci. Non possono esistere Celtics senza Irving al top; non può esistere Irving al top senza i compagni.




Contro la difesa dei Lakers - oggi una delle cose più morbidi esistenti in natura - Irving gestisce il contropiede creando facilmente una situazione di 4 contro 3. Potrebbe anche provare ad attaccare ancora verso il ferro, ma preferisce giocare di squadra. Morris è il più libero dei compagni, Irving lo premia con un passaggio delizioso dal palleggio. Arriverà il canestro in layup, ma quello che conta di più è il modo in cui Irving ha letto in maniera altruista il vantaggio sulla difesa. Non sempre lo ha fatto e non sempre lo fa, ma da azioni come questa passa un futuro roseo per i Celtics.



Dopo la vittoria allo Staples contro i Lakers, Irving è tornato sul suo modo di essere leader: «Il modo in cui mi sono comportato non è stato perfetto, ho fatto diversi errori e me ne prendo la responsabilità. Non voglio salire sul piedistallo, sono un normale essere umano che fa degli errori». Bene. Poi ha aggiunto: «Tutti devono salire di livello, ma inizia tutto da me. Quando siamo tutti sulla stessa pagina siamo un team diverso. Non siamo riusciti ad esserlo durante la stagione, ora dobbiamo rimanere uniti». Belle parole, sicuramente migliori di quelle che dipingevano i veterani come vecchi rimbambiti - povero Horford, dopo tutto il bene che continua a fargli - e i giovani come bimbi capricciosi incapaci di giocare.

C’è poi la questione contratto, che se non tiene banco nei discorsi pubblici certamente è ben presente nella testa di Irving e di chi gli sta intorno. Il prossimo 1° luglio sarà free agent e potrà andare dove vuole: le voci su sul suo futuro si rincorrono e si contraddicono. Cosa voglia fare lo sa solo lui, e non è detto che ce l’abbia chiaro in mente.

La figura di Stevens
Partiamo da una premessa doverosa: non si possono mettere in discussioni le conoscenze cestistiche di Brad Stevens e il modo di allenare una squadra - nel senso letterale del termine. La sua carriera parla per lui, da Butler a Boston.

Ma quest’anno c’è qualcosa di diverso: per la prima volta il 42enne nativo di Zionsville si è trovato a dover guidare un team che dichiaratamente punta al bersaglio grosso. Butler era una Cenerentola, i Celtics erano prima giovani poi outsider poi ancora inferiori ai Cavs, infine diversissimi dalla squadra pensata ad inizio anno travolti dagli infortuni. In tutti questi i risultati arrivati sono stati ben superiori alle attese anche perché non c’era pressione su Stevens e non c’erano richieste immediate: le sue skills di coach abile a sfruttare il materiale a disposizione facendo emergere le abilità di ogni elemento sono emerse in tutto il loro fascino.

Quest’anno no, quest’anno le NBA Finals sono l’obiettivo dichiarato. Niente gruppo giovane, niente giocatori da svezzare, niente infortuni a lungo termine a ridurre il potenziale. Una responsabilità diversa, nuova, inedita. E viene da pensare che per Stevens non sia stata semplice da gestire. Appena un mese fa, dopo il ko in volata con i Lakers, a stagione già inoltrata e con numerosi problemi con cui fare i conti, ha dichiarato: «Ho bisogno di guardare prima a me stesso e capire cosa posso fare per non subire più rimonte come stasera. C’è una risposta e dobbiamo trovarla». Ecco, bene l’autocritica, però queste non sembrano parole di un comandante che abbia il polso della situazione e che sappia come maneggiare l’instabilità emotiva del gruppo. Il carattere pacifico e tranquillizzante di Stevens è stato fondamentale quando si è trattato di affrontare la tormenta post ko di Hayward; oggi sembra invece un limite di fronte ad un gruppo che ha faticato a trovare unità d’intenti.

E ora
Quindi, ricapitolando abbiamo: un giocatore chiave che sta cercando il modo migliore per tornare ad essere tale dopo uno spaventoso infortunio e una sottovalutata ricaduta; un altro giocatore chiave che sta cercando di capire come essere leader; un gruppo di giovani che sente di poter fare più di quello che viene richiesto (e di quanto farà loro guadagnare col prossimo contratto); e un coach che sta imparando a gestire un gruppo da titolo. Messa così le difficoltà stagionali legate soprattutto all’assenza di continuità di risultati e prestazioni trovano motivazioni solide: troppi percorsi di crescita tutti contemporaneamente, poche certezze, strade che si intersecano per poi allontanarsi per poi ancora ritrovarsi a volte in un fugace battito di ciglia.

Non possiamo negare che il sopracitato viaggio in aereo sia stato utile; allo stesso modo è difficile pensare che possa essere stato l’unico elemento a dare un senso compiuto ai Celtics 2018-19 come hanno sottolineato i giocatori. C’è stato dell’altro, qualcosa che probabilmente non sapremo mai ed in fondo è anche giusto così. Siccome è già accaduto che in stagione Boston abbia dato segnali incoraggianti che sono andati puntualmente ad infrangersi disintegrandosi in mille pezzi, se davvero è stato acceso l’interruttore giusto lo sapremo solo a fine stagione. Forse già al primo turno playoff che il proprietario Wyc Grousbeck non era sicuro di passare ad inizio marzo. Magari gli ultimi risultati gli hanno fatto cambiare idea, ma torniamo al punto di partenza: la mancanza di certezze all’interno dei Celtics.

È una stagione che può risolversi con un trionfo o con un disastro che precede una rivoluzione. Difficile pensare a mezze misure, e per questo i biancoverdi sono una delle storie più interessanti di questa stagione.


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