Era la tarda primavera del 1990, fine maggio probabilmente, in quei giorni andavo spesso a pedalare da solo. Facevo quaranta, a volte cinquanta chilometri, niente di eccezionale per i ciclisti abituali, ma abbastanza per me. Più che pedalare in sé, mi piaceva l’idea di pedalare da solo nel paesaggio, un paesaggio per lunghi tratti desolante e in stato di abbandono, ma che poi cambiava e diventava ai miei occhi bello, se non bellissimo. Partivo da casa mia, da Giugliano, facevo un tratto all’interno del paese e poi mi buttavo – sprezzante del pericolo – sulla circonvallazione esterna. Una strada a doppia corsia per senso di marcia che da Napoli arrivava e ancora arriva fino al litorale Domitio.
Dopo aver fatto un lungo pezzo di quella strada - superato da auto e camion, i cui conducenti mi guardavano come si guarda un folle, e osservato i negozi che vendevano cose per il mare, qualche bar, un paio di fabbriche abbandonate, un’area da sempre promessa a un cinema, promessa mai mantenuta – svoltavo a destra per cominciare a pedalare intorno al lago Patria, solo io, la bici, l’acqua, la vegetazione, qualche pescatore e le zanzare. Così tante che da quelle parti c’era un ristorante che si chiamava (esisterà ancora?) La zanzara d’oro. Facevo qualche giro intorno al lago, poi mi spingevo più avanti verso il mare, lo guardavo per un poco, facevo una carezza alla bici, come se fosse un cavallo e ritornavo indietro. Così, da aprile a settembre, 3 o 4 volte a settimana. Mi incitavo da solo, ripetendomi nella testa, con la voce di Adriano De Zan, i nomi dei ciclisti del momento, ma anche di quelli minori, ripetevo spesso "ed ecco il danese Rolf Sorensen", che con la voce di De Zan veniva benissimo.
In quella bella sera di maggio, felice come molte di quel periodo – il Napoli aveva da poco vinto il suo secondo scudetto, e da lì a poco sarebbero cominciati i Mondiali italiani, in cui gli azzurri di Vicini erano tra i favoriti – sono arrivato davanti al cancello di casa, sudatissimo e sorridente, sul cancello c’era mio padre che annaffiava le piante, mi dice: «Uè uagliò, ma che tieni ‘ncopp ‘a coscia?», indicando i miei polpacci. Stupito, guardo e sulla gamba sinistra ho un pipistrello addormentato, che chissà quanta strada ha fatto con me. Scrollo la gamba, si sveglia e se ne va. La bicicletta mi riporta ad anni meravigliosi, dove le estati erano estati, tutti erano ancora vivi, eravamo ragazzi, e i pipistrelli si addormentavano – senza colpo ferire – sui polpacci. Pedalare, il gesto, l’azione, ancora prima che il ciclismo come sport, sono stati sempre con me, è qualcosa di familiare, ha molto a che fare con uno dei miei due nonni, e in una certa maniera con entrambi.
Un quadro molto bello di Enzo Benedetto, del 1926, raffigura un ciclista. Il suo corpo, tra i colori – viola, azzurrino, celeste, marrone – che si mescolano e si fondono, diventa una sola cosa con la pista e con tutto ciò che il quadro raffigura. Il ciclista e la bicicletta sembrano un’unica ombra colorata, e negli anni, i grandi campioni ci sono sempre apparsi come qualcosa che proseguisse nella bicicletta, chissà se Gimondi, Merckx, Moser, Indurain, Pantani fino a Nibali, scendessero mai davvero dalle due ruote, se pedalassero nel sonno, come i cani che mentre dormono corrono, se per aprire o chiudere il rubinetto della doccia facessero il gesto di chi stringe il freno. Ci sono un sacco di quadri molto belli risalenti all’inizio del Novecento che hanno a che fare con i ciclisti e il loro mezzo. Quadri di Depero, Sironi, Metzinger (pronunciato con la voce di De Zan) e altri.
Il quadro Al velodromo di Metzinger è molto famoso, è nella collezione permanente del museo Peggy Guggenheim di Venezia. Il ciclista è sovraesposto e il corpo e la bici sono in rilievo rispetto alle gradinate con il pubblico, che si vedono attraverso la sua testa, su uno striscione si legge Paris-Roubaix una delle corse più affascinanti e famose di sempre. Mio nonno Saverio era come i protagonisti di quei quadri, legato alla sua bicicletta. Con quella andava a lavorare, veniva a trovarci, a prenderci a scuola. Su quella bicicletta, invece di portarmi a scuola, ogni tanto mi portava al bar, giocava a carte e mi vinceva le caramelle e diceva di non dirlo a mamma. Obbedivo. Da quella bicicletta non è mai sceso, ci è caduto mentre la parcheggiava e da quel momento, come se fosse scattato un click, un meccanismo di chiusura, non ha camminato più. La verniciava lui, l’ultimo colore è stato il verde.
Il ciclismo fa da sempre parte del coro di voci, della memoria condivisa della mia famiglia, così come credo di quella di molti altri. Gruppi di persone riunite intorno a una radio, in un bar, per strada, in un giardino, dentro a una casa, tutti aggrappati alla voce del radiocronista, a immaginare uno scatto, curva dopo curva, tornante, strappo, scavallamento, la bici che passa tra due ali di folla che si allargano e poi si restringono alle spalle del campione, l’uomo solo che arriva al traguardo. Coppi e Bartali fanno parte del mio lessico famigliare.
Ho avuto due nonni molto diversi tra loro, introverso e silenzioso l’uno, espansivo e affettuoso l’altro, due brave persone. Una sola cosa, o almeno non ne ricordo altre, li accomunava: l’amore per il ciclismo. Gli uomini sui pedali li appassionavano più di qualunque spettacolare azione che potesse avvenire, per esempio, su un campo da calcio. Il ciclismo, l’ho capito dopo, per loro, insieme a poche altre cose, aiutava a sperare negli anni a cavallo delle due guerre e a rinascere in quelli immediatamente successivi. I miei nonni mi hanno parlato di Coppi per tutta la vita, anche quando insieme a loro guardavo le imprese di Moser, Saronni, Hinault, Greg Lemond. Entrambi avrebbero meritato di vedere almeno una volta scattare Marco Pantani.
Quando Fausto Coppi vinse la famosa tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949, arrivando al traguardo con circa 12 minuti di vantaggio su Bartali, mio padre aveva poco più di 10 anni, per tutta la vita, fino a qualche mese prima della sua morte, mi ha ripetuto la frase del radiocronista Mario Ferretti, epica quasi quanto quella tappa: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Quella frase era un codice. Credo di aver inseguito in tutti questi anni l’idea e la speranza di commuovermi per un uomo solo al comando, diverse volte è successo con Pantani, una o due di quelle volte io e mio padre stavamo seduti sullo stesso divano. Il ciclismo ho smesso di seguirlo, più o meno, quando Pantani ha smesso di farne parte, facendo qualche eccezione per Vincenzo Nibali. Ho salutato così lo sport, l'unica cosa che li univa, dei mie due nonni.
Il Giro e il Tour li abbino a due divani diversi, uno per nonno. Nonno Saverio e nonno Giovanni adoravano Moser, non facevano distinzione tra Coppi e Bartali, almeno non nei miei ricordi. Nonno Giovanni commentava poco, nonno Saverio si esaltava proprio, un vero tifoso. Ricordo l'anno in cui Battaglin vinse il Giro d’Italia, Saverio impazzì di gioia perché non aveva vinto uno dei favoriti; aveva vinto uno che aveva lottato, sudato. Andò avanti per settimane con il ripetere: «So’ cuntento che ha vinciuto Battaglin, pecché se l’ha faticato». Io e miei amici commentavamo le corse in dialetto, sapevamo perfettamente il momento in cui Pantani avrebbe acceso il motorino, l'attimo in cui - dopo essersi fatto sfilare di lato (scartando come il bufalo) - avrebbe sferrato l'attacco, andando semplicemente a velocità doppia, tripla, rispetto agli altri. Dovessi raccontare Pantani a Saverio e a Giovanni, partirei da quegli attimi lì, sorridendo direi loro che mentre li superava li guardava, guardatemi adesso che poi dopo la curva non mi vedrete più. Quando Pantani ha smesso di andare in bici ho dimenticato i nomi di tutte le sue montagne, per scriverne ora devo andare su Google. Pantani mi aveva fatto venire voglia di essere nato in quei posti dove vinceva, di conoscere ogni cosa di quei posti, di quelle vette. Quando è morto ho pianto. Non mi piace la neve, non ho mai sciato, da quando Pantani ha smesso di andare in bici ho scordato le montagne.
La bicicletta è uno dei simboli dell’antifascismo ed è uno dei due motivi per cui la amo. L’altro è perché – dopo camminare – è la prima cosa che fai da solo da bambino. In entrambi i casi rappresenta la libertà. È uno dei suoi più riusciti sinonimi. Ci sono tante bellissime foto degli anni Quaranta dove si vedono i partigiani che pedalano, che camminano con la bici al loro fianco. E ancora più numerose sono quelle delle donne, le staffette partigiane, che rischiavano la vita, che morivano, per recapitare messaggi fino a dove non si poteva transitare. Erano casalinghe, studentesse, impiegate, gonna e fazzoletto e via, a salvare altre vite. Ne ho conosciuta una, si chiamava Gina, era di Firenze ma ha vissuto quasi tutta la vita a Milano, lavorava in Comune, contribuiva alla creazione di documenti falsi per gli ebrei, per i cittadini da salvare e poi di notte in bici li portava da un capo all’altro della città.
Molti ciclisti famosi hanno salvato vite durante la guerra perché erano brave persone, perché quella era la cosa giusta da fare, perché sapevano andare in bicicletta. Erano Gino Bartali, Alfredo Pasotti, Luigi Ganna, Antonio Bevilacqua, Alfredo Martini e altri meno noti. La storia di Gino Bartali è conosciuta, tra il ’43 e il ’44 salvò circa ottocento persone (ma si dice che fossero ancora di più), pedalando tra la Toscana e l’Umbria, portando con sé documenti necessari a salvare ebrei nascosti nelle chiese, conventi, scuole, case, cantine. Bartali ha vinto ovunque e anche se abbiamo tifato Coppi (a ritroso) più di lui, forse andando all’indietro, il naso triste come una salita (cantato da Paolo Conte) di Gino lo amiamo di più.
Il 25 aprile del 1946 si svolse per la prima volta una gara ciclistica diventata poi un simbolo. Un circuito di 80 chilometri attorno alle Terme di Caracalla, vinse Gustavo Guglielminetti, che pedalò a una media di 37.5 chilometri. Immagino quella corsa come la corsa ideale di tutte le staffette partigiane, con tutti i messaggi recapitati negli anni precedenti - ora liberi come tutte e tutti – lanciati in aria dopo il traguardo, una carta felice, ingiallita oppure no, che cade sulla gente.
Da bambini correvamo in bici facendo ampi cerchi nei cortili, imparavamo ad andare senza mani, su una ruota sola, la bici era tutto. Ho visto donne e uomini usarla per andare al lavoro, li ho visti uscire dalla nebbia. So di un uomo che negli anni Sessanta faceva tutte le sere in bicicletta da Cinisello Balsamo a Garbagnate milanese per andare a trovare la fidanzata, entrambi siciliani, legati dalla terra e dalla bicicletta.
Il ventisette luglio del 1998 vivevo già a Milano, ero uscito dall’ufficio prima per vedere la tappa del Tour de France, da Grenoble a Les Deux Alpes, con in mezzo il Col du Galibier. Un mio collega mi disse di non sprecare un permesso tanto a Ulrich non lo batte nessuno, ma io credevo al mio istinto, credevo in Marco Pantani. Sono passati poco più di venticinque anni ma mi ricordo tutto e soprattutto mi ricordo il momento in cui Pantani scattò, se ci penso ho ancora i brividi. Come spesso accade durante il Tour, anche quel giorno pioveva e pioveva tanto. Ricordo le schiere dei tifosi assiepati ovunque, incuranti del brutto tempo.
A quattro chilometri dal Galibier, con Ulrich quasi sereno a controllare a destra e sinistra, succede quello che deve succedere. Pantani, mani basse sul manubrio, si alza sui pedali e sfreccia a destra dalla maglia gialla, che se ne accorge quando è già fuori dall’inquadratura. C’è Pantani in primo piano, il resto sono puntini colorati perduti nella pioggia, uno è giallo. Dopo una ventina di pedalate Pantani ha già fatto il vuoto, a parte Leblanc che pare resistere un minimo, ma è davvero poca cosa. Urlo come un ossesso davanti al televisore. Al passaggio sul colle, Pantani ha già 2.46 minuti di vantaggio su Ulrich, ma continua l’attacco in discesa, una bellissima discesa a tutta velocità, e poi ricomincia a salire verso Les Deux Alpes, lui, la montagna, la bici, la pioggia. È tutto a colori ma pare una cosa così d’altri tempi, la vorresti in bianco e nero. Pantani attacca sempre, fino alla fine, per un istante chiude gli occhi e credo di averli chiusi anche io, poi dopo ho pianto. Ulrich arriverà con un ritardo di quasi nove minuti e solo grazie all’aiuto dei suoi compagni di squadra, Riis e Bölt su tutti. Realizzo che, riguardo allo sport (e forse non solo) quello è uno dei pomeriggi più belli della mia vita, non ho cambiato idea. Avrei voluto essere, se non il manubrio di Pantani, almeno un tasto della macchina da scrivere di Gianni Mura, per aiutarlo a comporre una delle sue bellissime frasi.
Quel pomeriggio ho inforcato la bici e ho fatto la circonvallazione di Milano a tutta velocità, come un pazzo, gareggiando con la 90 e con la 91, avevo fidanzate da andare a baciare, dispacci da consegnare alla prossima staffetta, il Galibier, appena dopo piazzale Lodi da scalare.