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Dario Vismara

Lettera d’amore a Olivier Giroud

L'attaccante francese se ne va da leggenda del Milan.

C’è un dettaglio, nel celebre gol di Giroud nel derby del 2022, che mi è sempre rimasto nel cuore.

 

Prima ancora che il pallone arrivi tra i piedi di Davide Calabria, l’attaccante francese prima fa a botte e poi sprinta. Ha visto uno spazio all’interno dell’area di rigore e ha capito prima di de Vrij di poterlo sfruttare. Per questo accelera dettando il passaggio, anche a costo di finire fuori dallo specchio della porta ideale per calciare di prima. Il filtrante di Calabria è un po’ corto e non può farlo scorrere verso la porta come forse avrebbe voluto, ritrovandoselo un po’ tra i piedi invece che in profondità. Il colpo di genio è il controllo di tacco con cui si apre la possibilità di concludere con il sinistro, un gesto tecnico che è entrato a far parte della storia del Milan e del campionato italiano nel momento stesso in cui è accaduto, cambiando le sorti di quella partita, di quella stagione, di quest’ultima parte di carriera che gli ha regalato un amore che, a 35 anni suonati, non pensava potesse essere possibile.

 

Olivier Giroud è arrivato a Milano nell’estate del 2021 con l’idea di fare la riserva, o al massimo il co-titolare. Il Milan pensava ancora che Zlatan Ibrahimovic potesse essere la prima scelta nel ruolo di centravanti, anche perché nel 2020-21 alla soglia dei 40 anni aveva realizzato 15 gol in 19 presenze nella stagione che aveva riportato il Milan in Champions League. Il Chelsea aveva fatto un po’ di resistenza, richiedendo il pagamento di un milione di euro più un altro di bonus per far partire Giroud dopo avergli rinnovato il contratto unilateralmente, e i dubbi su di lui erano legittimi anche per il modo tremendo con cui era andato l’esperimento Mandzukic (11 dimenticabili presenze, zero gol). Quanta benzina poteva ancora avere nel serbatoio dopo quattro stagioni al Chelsea in cui aveva segnato in tutto 17 gol in Premier League?

 

Il suo inizio, poi, non era stato così entusiasmante. Tolta la doppietta all’esordio a San Siro contro il Cagliari, aveva segnato appena tre gol su azione e un rigore in cinque mesi da settembre a febbraio, complice un problema alla schiena che lo aveva fortemente limitato all’inizio della sua avventura in rossonero. La doppietta nel derby del 5 febbraio sono i gol numero 6 e 7 della sua stagione, meno degli 8 che Ibrahimovic era riuscito a spremere dal suo fisico già agli sgoccioli (mai più di 30 minuti in campo dal 17 gennaio in poi). I gol di Giroud, avremmo imparato poi, non si contano ma si pesano: doppietta in Coppa Italia contro la Lazio, il gol vittoria a Napoli (il suo primo in trasferta in tutta la stagione, a marzo), il gol del pareggio a Roma contro la Lazio prima di quello di Tonali, la doppietta finale a Sassuolo su due assist di Rafa Leao.

 

Il mondo del Milan si è innamorato di Giroud come Nick Hornby del calcio nell’indimenticabile introduzione di Febbre a 90’: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente. Da finto parametro zero arrivato per tappare un buco perché non c’erano abbastanza fondi per comprare un centravanti giovane è finito per diventare una leggenda del Milan, uno di quei giocatori che ricorderemo con gli occhi lucidi ogni volta che ripenseremo a lui. Ai suoi colpi di testa con i difensori aggrappati addosso, ai movimenti perfetti per aprire gli spazi ai compagni, alle sponde raffinatissime e ambiziose (pure troppo: abbiamo perso il conto delle sponde di tacco andare perse, ma si perdonano anche quelle), alle botte date e prese coi marcatori avversari, al pressing fatto scattare con le sue rincorse in avanti, ai ripiegamenti difensivi che si sobbarcava affinché Leao potesse rifiatare, o anche solo perché Leao non ne aveva voglia.

 

Negli ultimi due anni Giroud è diventato sempre più imprescindibile e prolifico: 13 gol e 5 assist nella stagione passata, con in mezzo anche una cavalcata ai Mondiali arrivata fino alla finale (la seconda della carriera); 14 gol e 8 assist in quella che sta per concludersi, giocando oltre 2.200 minuti (non gli capitava dal 2015-16, quando però di anni non ne aveva ancora compiuti 30), togliendosi anche la soddisfazione di svettare in testa a Skriniar per il gol del 2-1 contro il PSG, in una delle rare occasioni – in questa stagione – in cui il Milan è stato all’altezza della situazione. È arrivato al momento decisivo della stagione con la lingua di fuori, comprensibilmente visto che si è dovuto sobbarcare il peso dell’attacco da solo (la sua riserva, Luka Jovic, ha funzionato solo quando ha giocato in coppia con lui), e già da qualche tempo ormai sapevamo che il suo futuro sarebbe stato in MLS, con l’annuncio ufficiale arrivato solo a secondo posto conquistato matematicamente. 

 

Nell’intervista rilasciata al canale ufficiale del Milan con cui ha comunicato l’addio ha detto: «Ero devastato quando abbiamo perso contro la Roma, perché volevo portare un altro trofeo al Milan». Non si fa fatica a crederlo: uno dei motivi per cui è entrato nel cuore dei tifosi è anche il carico emotivo con cui ha vissuto tutta la sua esperienza a Milano, senza nascondere anche i momenti di frustrazione, di rabbia e di delusione. Lo abbiamo visto in lacrime dopo una sostituzione che non gli era piaciuta a Napoli ma anche dopo il tremendo 5-1 in casa col Sassuolo, uno dei pochi ad andare sotto la curva dopo una delle peggiori sconfitte dell’era Pioli. Lo abbiamo visto esultare con rabbia baciando lo stemma sul petto per uno striminzito 1-0 in casa contro il Torino dopo la crisi a inizio 2023 e togliersi la maglia dopo un gol volante leggendario all’89° minuto contro lo Spezia, dimenticandosi di essere già stato ammonito.

 

Lo abbiamo visto soprattutto andare in porta a Marassi dopo l’espulsione di Maignan al 100° minuto per difendere un 1-0 trovato in maniera rocambolesca pochi minuti prima, lanciandosi in uscita bassa su Puscas e colpendo in qualche modo con l’avambraccio girandosi a occhi chiusi per evitare un calcio in faccia, mantenendo la lucidità di avventarsi sul pallone rimasto vagante prima dell’arrivo di Gudmundsson. Pensateci: ci sono ottime possibilità che non vedremo mai più una giocata del genere da parte di un giocatore di movimento nelle nostre vite.

 

A Milano Giroud ha ritrovato la Nazionale, di cui è diventato miglior realizzatore in attesa che Mbappé lo superi, e una coda insperata per una carriera che sarebbe stata completa anche senza questo triennio al Milan, ma che lo ha fatto entrare per sempre nel cuore di ogni tifoso. Ha spezzato la maledizione della numero 9, che da oggi dovrà essere occupata da un attaccante che abbia le spalle abbastanza larghe per non farlo rimpiangere né a livello di rendimento né, soprattutto, di carisma.

 

Per la sua ultima partita a San Siro ha chiesto che i tifosi, in contestazione con la società da settimane, tornassero a cantare per lasciargli un bel ricordo. Sarebbe meglio che venisse accontentato, perché Olivier Giroud dopo essere arrivato da riserva se ne va da leggenda, e se il Milan è tornato a pensarsi grande è anche per merito di un numero 9 degno di sedersi allo stesso tavolo dei più grandi nella storia del club.

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).