L’origine di una rivalità non è sempre conosciuta. La causa scatenante di solito è sepolta talmente in profondità negli strati temporali fatti di vendette, ripicche e sgambetti da rendere la ricerca impossibile. Anche perché una volta che il meccanismo si è innescato e le tessere del domino cadono l’una contro l’altra, non resta che osservare la violenza scatenarsi sul campo e individuarne le origini diventa inutile. Indietro non si può tornare.
Nessuno si ricorda il momento esatto nel quale è scattata la scintilla tra Russell Westbrook e Damian Lillard, qual è stato il primo bambino cullato o il primo orologio indicato. Forse non se lo ricordano più neanche i due diretti interessati. Semplicemente tutti sanno che questa rivalità esiste, e loro stessi sembrano non poter fare altro che assecondarla.
Ma Russ e Dame non sono antagonisti, ma le rispettive nemesi. Troppo simili per essere davvero nemici, troppo competitivi per non entrare immediatamente in conflitto. La loro carriera si è intrecciata negli anni formando una spirale che non poteva che è sembrata non poter fare altro che portare dritti a una serie di playoff dominata dalle personalità dei leader delle rispettive squadre.
Entrambi sono cresciuti sulla costa californiana, ma lontani dal glamour e dalle star. Dame a Oakland, a pochi passi dalla Oracle Arena che ancora per poco sarà la casa dei Golden State Warriors. Russell a Hawthorne, tra Inglewood e El Segundo, ovvero tra lo Staples Center e la practice facility dei Los Angeles Lakers. Nessuno dei due è finito a giocare per la squadra di casa come sognavano da ragazzini perché la loro strada verso l’NBA è stata molto più tortuosa. Il primo dopo una carriera collegiale da star in una scuola di secondo piano; il secondo dopo una carriera di secondo piano in un college pieno di star.
In un modo o nell'altro, però, sono atterrati entrambi in due squadre alla periferia dell’impero NBA: hanno preso lo stesso numero di maglia, lo zero, che immediatamente riporta ad una mitologia condivisa fatta di sottovalutazione, orgoglio e rivincite personali. Come dice il messia di chi lo zero dietro la schiena - Gilbert Arenas -, «indossare il numero zero mi ricorda che devo uscire e combattere tutti i giorni». E sia Westbrook che Lillard hanno fatto di queste parole un mantra che si ripetono ogni sera prima di andare a dormire. Non mi sorprenderebbe se entrambi avessero una kill list con dentro il nome l'uno dell'altro: sarebbe perfettamente in linea con quello che hanno fatto vedere in campo nell’ultima settimana.
La serie tra Portland e OKC ha rappresentato l'apice della rivalità tra Westbrook e Lillard, che ha avuto varie forme nelle partite che si sono succedute prima di chiudersi definitivamente con l'incredibile canestro di ieri. Ho cercato di riepilogare le principali tappe che hanno portato a quel momento, con cui Lillard ha chiuso nel migliore dei modi l'ultimo capitolo di una delle saghe più appassionanti della storia della NBA recente.
Il primo duello in gara-2
Siamo al Moda Center di Portland, Oregon, e ci avviciniamo all’intervallo di gara-2. Jerami Grant sbaglia un tiro libero e Steven Adams si getta sul parquet come una rete da pesca nel mare per recuperare il pallone, riciclandolo subito verso il centro del campo, dove sta aspettando il pallone Russell Westbrook. Russ abbassa la visiera dell’elmo e lancia in resta cavalca verso il ferro avversario prima di essere fermato da C.J. McCollum e Lillard. Quando i due numeri 0 arrivano alla collisione, le braccia si incrociano come in una giostra medievale finché Westbrook non finisce in ginocchio, nel tentativo di impietosire l’arbitro ad un timeout. Disarcionato, Westbrook chiuderà la sua prestazione in maniera negativa, con 14 punti con 5/21 al tiro. Lui stesso riconoscerà davanti ai microfoni di essere stato la causa principale della sconfitta: «La mia prestazione è stata inaccettabile».
Contemporaneamente, invece, Lillard prende per mano i suoi compagni di squadra. Dopo aver trovato McCollum per la tripla che impatta la partita prima dell’intervallo, Dame prende fuoco nel terzo quarto con undici punti. Dopo una tripla sbagliata (e non di poco) da Russ, Lillard applaude quasi in maniera ironica, si fa dare la palla e spara una bomba da nove metri che sfiora a malapena la retina. Da quel momento in poi Portland non si guarderà più indietro e difenderà con due vittorie il parquet di casa.
La semplicità assoluta con la quale Lillard passeggia nella metà campo avversaria prima di lasciar partire la sfera dalle sue mani è forse ancora più intimidatoria del tiro stesso: ricalca la calma metodica e gentile del serial killer.
Dopo l’umiliazione subita lo scorso anno per mano dei New Orleans Pelicans, Dame si è marchiato a fuoco quel 4 a 0 indossandolo come un’armatura. Quella sconfitta per lui era diventata una questione personale. Nella serie contro NOLA aveva sbagliato quarantasei dei 71 tiri presi e perso 16 palloni, ma soprattutto sentiva di aver tradito la sua squadra e la sua città. Prima di questa serie Portland non vinceva ai playoff da dieci partite consecutive, con le ultime due postseason erano finite con due sweep sanguinosi. Contro Oklahoma City quindi non c’era in ballo solo una intera stagione di lavoro e sacrifici ma la sua stessa legacy, costruita con pazienza e perseveranza in un contesto difficile e limitato.
Quando Lillard è arrivato in Oregon, Portland era la squadra di LaMarcus Aldridge e cercava di rialzarsi dopo le devastanti perdite di Brandon Roy e Greg Oden. Dame è diventato non soltanto il giocatore simbolo, ma soprattutto il riferimento dentro e fuori dal campo dell’intera franchigia, crescendo velocemente in uno dei leader più rispettati della lega. Gli ultimi playoff avevano però fatto dubitare la sua fedeltà verso l’organizzazione, ma lui stesso è stato il primo a rimettersi in discussione per portare il suo gioco a un altro livello.
Russell Westbrook da quando Kevin Durant lo ha lasciato per aprire un nuovo capitolo della sua carriera a Oakland non ha più vinto una serie di playoff. Una ferita ancora aperta - in trasferta non vince da 12 gare in fila - nella sua strepitosa carriera da solista, più volte definita con una maniacalità da hoarder piuttosto che da leader di una squadra vincente. In realtà Westbrook è un essere umano molto più complesso di quanto è stato sempre raccontato, tutto triple doppie e outfit al limite del ridicolo. Si è preso la responsabilità di essere la faccia di una franchigia giovane e tumultuosa, che non ha mai avuto un momento di pace dopo essersi rilocata da Seattle. Alla fine è rimasto solo, l’ultimo discendente di una storica casata ormai in rovina dopo essere stata distrutta dal fato avverso e dalla propria presunzione.
Il ritorno di Westbrook
Con la serie che si sposta in Oklahoma per gara-3, Russell è consapevole di essere già arrivato al punto in cui si decidono le sorti dell’intera serie. Il numero 0 in maglia Blazers lo ha totalmente sovrastato nelle due precedenti partite, specie nella seconda, ridicolizzandolo davanti agli occhi di tutto il mondo NBA. Quella partita rappresentava il momento del riscatto per mantenere la faccia e la promessa fatta negli spogliatoi del Moda Center.
Oklahoma entra in campo con la voglia di riaprire la serie grazie a quindici triple dopo le dieci complessive nelle due precedenti sfide (e nonostante un Paul George da 3 su 16 dal campo). Ma è soprattutto Westbrook che impone alla gara il suo ritmo, fatto di aggressione continua e smodata al ferro. All’inizio del terzo quarto, mortale per i Thunder finora in questa serie, Russ prima cancella un tentativo al ferro di Lillard schiacciando la palla sopra una rete immaginaria, poi, nel possesso successivo lo castiga grazie alla sua supremazia fisica ad un &1 con relativo dondolamento di braccia.
Il libero garantisce a OKC un comodo più quindici sul tabellone e la partita sembra sulla giusta direzione per il pubblico casalingo. Lillard però ha altri piani e, complice qualche errore in copertura del pick&roll dei Thunder, accende l’occhio di bue su un personale monologo da venticinque punti nel solo quarto (ad un punto dal record nei play-off di Allen Iverson) e riporta i suoi dentro la gara. Per una volta però l’attacco dei Thunder gira a dovere e riesce a chiudere in crescendo, riaprendo una serie che poteva già affondare. Westbrook rispetterà i proclami fatti e guiderà i suoi con 33 punti e 11 assist con il 50% dal campo. Per una notte la sfida con la sua nemesi l’ha vinta lui.
Logo Lillard
Ma i Thunder sanno che non possono sedersi sugli allori, una sconfitta nella prossima partita li spingerebbe nel baratro dell’1 a 3, dal quale è statisticamente molto difficile risalire. La gara cardine della serie riassume tutti i termini di questa rivalità. Da una parte l’intensità creativa e confusionaria di Westbrook, dall’altra la glaciale gestione di Lillard, che lascia sfogare il suo avversario prima di iniziare a giocare davvero.
Russ vuole partire in quinta ma va presto fuori giri, trascinando con sé tutta la squadra che non riesce mai ad entrare in ritmo. In un secondo tempo molto negativo sbaglierà tutti i tiri tentati e finirà con un misero punto. I Thunder tireranno con il 38% sul campo di casa, anche a causa delle tremende scelte di Russ, che ogni qual volta si mette in testa di dover vincere la partita da solo finisce per ottenere il risultato opposto.
Lillard invece gestisce le forze e gli uomini, lasciando che sia McCollum a guidare l’attacco di Portland. Gli bastano un paio di triple per mettere a tacere un pubblico che lo becca in ogni occasione, concedendosi una chance di non doverlo più rivedere quest’anno.
Il finale perfetto
E infatti Gara-5 è un match point troppo ghiotto per non trasformarsi in un episodio speciale di Lillard Time, che non delude il suo affezionato pubblico mandando in onda una prestazione da Emmy. Come il più preparato degli showrunner, Lillard ha lasciato i momenti più iconici e scioccanti per il finale.
Con il risultato in perfetta parità e il cronometro dei 24 spento, Lillard palleggia sul logo dei Trail Blazers noncurante dei secondi che scivolano via veloci mentre Paul George lo marca a distanza non capendo perfettamente quello che sta succedendo. È troppo tardi quando realizza le intenzioni del suo avversario. Lillard con un rapido palleggio laterale guadagna una separazione anche superflua visto il punto del campo e lascia andare via un pallone che parte da così lontano che sembra attraversare in longitudine l’intero stato dell’Oregon.
È il cinquantesimo punto della sua folle partita, perché anche i dettagli contano e i numeri rotondi sono da preferire. Il pallone rimane in aria per un secondo e mezzo, e c’è un momento, come tutti i più grandi momenti di sport, in cui il tempo sembra fermarsi. Quando riprende, il pallone si insacca in rete nello stupore generale, nel momento esatto nel quale si accendono le luci rosse che fanno cornice al tabellone, e che sembrano quasi state aggiunte in postproduzione.
Troppo perfetto per essere reale, il tiro di Lillard è uno di quei momenti nel quale il nostro mondo si interseca con un soprasensibile sul quale non abbiamo nessun controllo. Dame invece sì, ed ha modellato uno dei gesti più complicati, aleatori e irriproducibili del gioco del basket nel finale perfetto. Paul George in conferenza stampa ripeterà più volte come il tiro di Lillard sia un tiro sbagliato, almeno tecnicamente. E questo, se possibile, gli dà ancora più valore perché lo stesso si potrebbe dire di qualsiasi essere umano su questo pianeta che non faccia di nome Steph e di cognome Curry.
Lillard, però, ha dimostrato per tutta la serie come quello sia il suo tiro, un tiro che ha allenato e affinato nel corso degli anni proprio per un momento come questo. In queste cinque partite contro OKC ha segnato ben 10 dei 18 tiri presi oltre i 30 piedi (orientativamente poco più di nove metri) e quattro di questi sono arrivati nella gara di stanotte.
Nessuno iconico e spettacolare come quello che ha chiuso per l’ennesima volta anzitempo la stagione di Westbrook e dei Thunder. Oklahoma ha buttato un vantaggio in doppia cifra a cavallo dell’ultimo quarto e si è consegnata alla fatality di Lillard come se avesse seguito un copione già prestabilito. In ogni rivalità si arriva al momento nel quale bisogna risolvere il conflitto con un duello all’alba (in questo caso quella italiana) e serve tutto il sangue freddo che si ha in corpo per uscirne vivi.
Westbrook è stato un’altra volta un pistolero troppo frettoloso e poco preciso quando conta davvero. Lillard invece è stato un killer di ghiaccio, dimostrando che quella pugnalata al cuore ricevuta lo scorso anno dai Pelicans lo ha davvero trasformato, mentre con la mano salutava la panchina di Oklahoma augurandogli un bel viaggio in estate.
Così si è conclusa la sfida più appassionante di questo primo turno, alla fine rimangono solo i bossoli e i caricatori vuoti. E gli avvoltoi girano lenti aspettando la prossima sfida in questo elettrizzante, sanguinoso, selvaggio West.