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L'improbabile rinascita turca di Adebayor
19 mag 2017
Dopo 6 mesi di inattività è finito a giocare nella quarta squadra di Istanbul, e ora rischia di vincere il campionato.
(articolo)
8 min
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La telecamera del drone inquadra un campo trapezoidale di terra rossa, calcareo e polveroso, senza linee: il pallone non rimbalza, ondeggia tra nuvole di polvere. Emmanuel Adebayor è seduto ai bordi del campo, mescolato alla folla che assiste a una partita di calcio eppure idealmente issato su uno scranno reale, circondato dalla sudditanza del suo entourage. Indossano pantaloncini baggy e berretti da baseball, oppure vestiti tradizionali togolesi e camicie sgargianti. Uno tiene tra le mani una piccola radio portatile.

«Chi gioca?», chiede il giornalista. «Vedi» risponde Adebayor, «è semplicemente una partita tra il mio club… e l’altro mio club».

Revealed” è una serie di reportage realizzati da Nathan Kwabena Adisi aka Bola Ray, il guru del giornalismo d’intrattenimento ghanese: interviste lunghe e profonde a carismatici figli d’Africa. Il fatto che il primo degli speciali sia stato riservato ad Adebayor è abbastanza eloquente dell’aura che circonda il calciatore togolese, e del suo ruolo di ambasciatore onorario di un certo tipo di sentire africano, sospeso a metà strada tra l’ostentazione orgogliosa di ciò che si è e di ciò che si ha.

Il reportage non segue un filo logico preciso - per quanto strutturato con una sintassi didascalica, quasi scolastica: giro nel parco macchine, visita sul campo, balli tribali, tour in case troppo grandi e troppo vuote - ma il senso dell’immagine che vuole convogliare è comunque preciso: i confini tra l’inventario morboso delle sue ricchezze e la volontà di scoprirne un lato inedito si confondono al suono che fanno gli oh e gli ah di stupore.

«Vederli giocare mi ricorda chi sono io», spiega Adebayor durante la scena del drone, in uno slancio di umiltà; pochi secondi dopo sta già parlando di quanto sia stato magnanimo a concedere a quei ragazzi uno spicchio dei suoi possedimenti, sui quali avrebbe potuto continuare ad ampliare la sua già assurda magione, anziché creare un campo su cui giocare.

«Alla fine della fiera sono un calciatore, e qualsiasi cosa faccia deve per forza avere a che fare con il calcio».

Anche tenere una bandiera con lo sguardo marziale dell’eroe che sta per affrontare una guerra.

Riconosco di avere una certa fissazione per Adebayor: difficilmente scrivo sullo stesso giocatore ma a lui ho dedicato già duepezzi diversi. E se torno sull’argomento non è per semplice spirito elegiaco, o per chiudere una trilogia, ma perché osservare Adebayor è un’esperienza in divenire, un accumulo di dettagli che rende quasi inafferabile una visione d’insieme. È una sfida, in un certo senso.

Il documentario di Bola Ray è stato girato prima di Natale, cioè quando Adebayor era un free agent dopo essersi svincolato dal Crystal Palace, e i più sentimentali (tra cui io) peroravano la sua causa affinché qualcuno gli affidasse le chiavi di un attacco qualsiasi.

Quando Ray gli chiede di parlargli delle offerte in ballo, citando Cina, Giappone e Dubai, Adebayor risponde un po’ stizzito: «Ma io mi sento ancora al top. Sento di poter dare qualcosa ad alti livelli». E aggiunge, draconiano: «Ogni proposta va analizzata da un punto di vista calcistico e da un punto di vista finanziario: quando trovi un punto di equilibrio, e pensi che un trasferimento possa apportare un cambiamento alla tua vita, allora prendi una decisione».

Adebayor, quella decisione, l’ha presa a gennaio, dopo una Coppa d’Africa tanto infruttuosa quanto umile disputata con la sua Nazionale. E non è stata una scelta scontata.

Ha firmato un contratto di diciotto mesi con la quarta - e in assoluto meno iconica - squadra di Istanbul, il Başakşehir.

Galatasaray? Fenerbahce? Besiktas? Nahhhhh.

La Turkish Superlig, specie negli ultimi anni, è diventata un palcoscenico privilegiato per i calciatori africani in cerca di riscatto, o decisi a chiudere la loro carriera in un contesto stimolante e appassionato: in principio c’è stato Drogba al Galatasaray, poi Eto’o, Moussa Sow e Aboubakar.

«Correre non significa necessariamente arrivare», dice Adebayor a un certo punto del documentario, giustificando forse - a posteriori, se mi permettete l’artificio narrativo - una scelta così poco piena di appeal. È pur vero, però, che a gennaio il Başakşehir guidava un po’ a sorpresa il campionato turco e a quel punto, per quanto magari inaspettatamente, Adebayor deve aver intravisto la possibilità di raggiungere un obiettivo che - udite, udite - non ha ancora mai avuto modo di flaggare: la vittoria di un titolo nazionale. Adebayor, con tutte le squadre che ha girato, non ha mai vinto un campionato. Neanche in panchina, come invece ha vinto la Coppa del Re in Spagna.

Incredibile quanto sia povera la sua bacheca, no?

Il Başakşehir è nato tre anni fa dalle ceneri dell’Istanbul BB, a sua volta fondato solo negli anni ‘90: gioca in uno stadio intitolato a Fatih Terim, ed è l’espressione calcistica artificiale e creata dal nulla di uno dei quartieri figli della gentrificazione di Istanbul, dove sorgerà il terzo aeroporto cittadino. Nel ranking UEFA è 193esimo, sotto squadre che in altri campionati galleggiano a stento, tipo l’Arouca portoghese.

Eppure oggi, a solamente 3 giornate dal termine della stagione, sta contendendo il primato al Besiktas, lontano solo 2 punti dopo averlo avuto alle spalle per buona parte della stagione. Ha la miglior difesa e il secondo miglior attacco, guidato da Stefano Napoleoni, italiano dalla parabola esotica e straniante.

Al Başakşehir, Adebayor sembra essere arrivato ignorando - ai limiti del disconoscimento - la prima parte del suo paradigma sulle scelte di carriera - l’equilibrio tra interessi calcistici e monetari - e puntando tutto sul potere del cambiamento. Non ha strappato un ingaggio esoso, anche perché il Başakşehir preferisce, agli all-in mediatici, improntare progettualità a lunga gittata (e infatti ad Adebayor hanno proposto un contratto di diciotto mesi: sei per raggiungere l’obiettivo, dodici per provare ad avanzare in Europa).

Avci, il tecnico, cercava un centravanti alto, forte nel gioco aereo, agile: Alioum Saidou, ex calciatore oggi scout del Başakşehir, lo ha contattato e convinto ad accettare una nuova sfida.

Il primo gol di Adebayor con la maglia del Başakşehir è arrivato il 12 Marzo, quasi 400 giorni dopo l’ultima rete segnata, in Premier League. Era il suo esordio nel campionato turco e di lì in poi non avrebbe mai più mancato il settimanale appuntamento col gol. In realtà ha saltato un turno, in cui è rimasto a secco, ma ha compensato con questa rete in Coppa di Turchia:

C’è più Adebayor in quello che succede dopo che la palla ha toccato per la prima volta la rete che non prima. Cioè, in realtà anche prima, per il modo in cui fa esplodere una bolla magnetica intorno alla sua figura mandando a gambe all’aria il marcatore, per il gesto elegante con cui impatta la palla. Ma poi la rabbia. Voglio dire: quella rabbia, quella di uno che ci crede ancora moltissimo, in qualsiasi cosa creda.

Sei gol in otto partite sono un piccolo record, anche in Turchia, specie per chi mancava dal calcio agonistico da sei mesi, specie se arrivano contro avversarie tutt’altro che abbordabili. Contro il Galatasaray, in una sfida comunque di vertice, in ogni caso contro un avversario blasonato, e in fin dei conti pur sempre un derby, Adebayor ne segna addirittura tre. Un tripletta, come non gli capitava da sette anni.

Sette anni, nell’ultima giornata di Liga con la maglia del Real Madrid, senza particolari obiettivi da raggiungere e contro un Almeria già retrocesso, un contesto talmente brutalizzante da risultare estraneo a un personaggio come Adebayor.

Non sono tre reti spettacolari, ma in un certo senso confermano, con onestà, i presupposti del patto di intenzioni stipulato tra Adebayor e Avci: tre gol di testa, in cui svetta prepotente, arrivando dove gli avversari non riescono ad arrivare. Gesti che ne testimoniano la supremazia fisica.

Adebayor riluce anche e soprattutto per la forma fisica con cui si è presentato in Turchia, quel tipo di tonicità atletica ai limiti dell’affronto che ti permette di autolanciarti sulla fascia come un proiettile inarrestabile.

Nella consapevolezza di potersi permettere una giocata piena di caparbietà come questa, però, c’è anche di più: c’è una lucidità mentale che deriva da un obiettivo che evidentemente Adebayor ha messo bene a fuoco. E se Adebayor ci tenesse davvero a vincere il suo primo campionato?

L’ultimo gol segnato - finora - da Adebayor è anche quello che tiene ancora in vita le speranze di titolo del Başakşehir: è arrivato l’ultimo giorno di aprile, contro il Besiktas, nello scontro diretto.

In Turchia sta trovando una concretezza lontana dagli scintillii passati, e forse per questo, almeno all’apparenza, più solida: aiutare il Başakşehir a vincere uno storico Scudetto - o magari la Coppa nazionale, sono in finale - basterebbe magari a liberarlo dalle zavorre dell’autoreferenzialità (in casa ha una poltrona foderata con la sua maglia del Togo e, in una teca del suo museo personale, uno dei proiettili sparati contro l’autobus della Nazionale in Angola).

Non è detto che ci riesca, ma davanti a sé ha un altro anno di contratto: un’altra Superlig da provare a vincere e una Champions League da giocare. Nel bene e nel male, Adebayor è ancora nel nostro planetario calcistico, una supernova capace di illuminare di luce riflessa i pianeti che gli gravitano attorno.

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