Lo scorso venerdì mattina negli Stati Uniti si è spento a 78 anni Jerry Sloan, a seguito di complicazioni dovute al Parkinson e alla demenza dei Corpi di Lewy, entrambe malattie neurodegenerative che negli ultimi anni avevano tolto lucidità e ricordi allo storico coach degli Utah Jazz. La sua scomparsa giunge a distanza di pochi giorni dalla messa in onda dell’ultimo episodio del documentario The Last Dance di cui era stato suo malgrado partecipe nei panni dell’antagonista di Phil Jackson e di quei Chicago Bulls, di cui peraltro era stato da giocatore, leggenda e profeta in patria.
Da Original Bull a leggenda dei Jazz
Sloan, nativo dell’Illinois, aveva giocato al college ad Evansville tra gli anni ‘60 e ‘70 prima di diventare il primo giocatore dei Bulls ad avere il proprio numero ritirato. Prima dell’arrivo di Michael Jordan a metà anni ‘80, Sloan veniva considerato il “2” più forte ad aver mai giocato nei Chicago Bulls, il primo in grado di mettere quella squadra sulla mappa del grande basket americano con due apparizioni all’All Star Game. Da bandiera dei Bulls giocò per dieci stagioni e quasi 700 partite, talmente amato dai tifosi da guadagnarsi il soprannome di “The Original Bull”. La sua attitudine da guerriero, che non lesinava mai una goccia di sudore in campo e si buttava su ogni palla vagante come se la sua vita dipendesse da questo, lo ha fatto diventare in breve tempo uno dei preferiti del pubblico di Chicago. Si affermò come uno dei difensori più arcigni della sua generazione, tanto da essere nominato per quattro volte nel primo quintetto difensivo NBA - quattro come il suo numero di maglia che per sempre sarà esibito sul tetto del United Center.
Jerry Sloan in maglia Bulls.
Anche se non dovrebbe esserlo, la sua carriera da giocatore diventa quasi trascurabile di fronte a quella di allenatore lunga ben 31 anni, iniziata proprio a Chicago prima da assistente e poi da capo-allenatore, portandola infine al massimo splendore nei 23 anni sulla panchina degli Utah Jazz. Una carriera chiusa - seppur con l’amaro in bocca delle dimissioni nel 2011 - come terzo allenatore più vincente di sempre (poi diventato quarto a seguito del sorpasso di Gregg Popovich, suo ideale discepolo) e a cui è mancata solo la soddisfazione del titolo NBA, come è successo a molti durante gli anni del dominio dei “suoi” Chicago Bulls che nel frattempo stavano vivendo la fantastica epopea di Michael Jordan, in un intreccio del destino che più crudele non si può.
Sloan - che si diceva fosse troppo “focoso” per diventare allenatore di alto livello - prese in mano i Jazz nel 1988 dopo quattro anni da assistente di Frank Layden (diventato poi capo della dirigenza) e li guidò a 1.127 vittorie in 1.809 partite, con due finali NBA (tra le più epiche di sempre) e 15 apparizioni consecutive ai playoff. Fino al sorpasso avvenuto sempre per mano di Popovich, è stato il coach più longevo a rimanere sulla stessa panchina nella storia dello sport americano, oltre ad esser riconosciuto universalmente come uno dei dieci migliori allenatori di sempre.
Nonostante ciò, non ha mai vinto il premio di Coach of the Year, un’assurdità se pensiamo ai risultati ottenuti. Sembra un paradosso, ma la continuità con cui le sue innumerevoli versioni degli Utah Jazz sono scese in campo per 23 stagioni, a livello di gioco, atteggiamento e soprattutto vittorie, non gli sono mai valse la vittoria del più alto riconoscimento per un allenatore in NBA. Nel 1997, quando guidò i Jazz a 64 vittorie con un record 78%, si trovò contro i Bulls che ne vinsero 69 e i Miami Heat di Pat Riley che in quella stagione portò la squadra dalle 42 vittorie dell’anno precedente a 61 vinte e al terzo record della NBA, a cui alla fine andò il COY. L’unica onorificenza ricevuta da Jerry Sloan in carriera è stata l’induzione nella Hall of Fame nel 2009, mentre era ancora sulla panchina degli Utah Jazz.
Sotto la sua guida i Jazz hanno disputato 22 stagioni sopra il 50% di vittorie - di cui quattro con record sopra il 70% e 14 oltre il 60% - e solo una stagione perdente, la stagione 2004-05, il secondo anno D.S.M. (Dopo Stockton-to-Malone) chiusa un record del 31%. La fine di quel ciclo avrebbe affossato qualsiasi organizzazione e qualsiasi coach, e invece scalfì appena la continuità dell'allenatore dell’Illinois, che dopo un breve limbo di due stagioni - i playmaker titolari di quella versione di transizione dei Jazz dopo il ritiro di Stockton furono Carlos Arroyo e Keith McLeod - inanellò sei stagioni consecutive sopra il 50% di vittorie, di cui cinque sopra il 57%.
Al posto di Stockton e Malone si insediò un’altra coppia, meno leggendaria ma più che onorevole, composta da Deron Williams e Carlos Boozer con Andrei Kirilenko a fare da anello di congiunzione tra le due epoche. I Jazz cambiarono approccio: per la prima volta dell’era Sloan non c’era più una pertica a centro area - Mark Eaton prima e Greg Ostertag poi - ma attorno al nuovo duo vennero favoriti giocatori duttili come il già citato Kirilenko, Mehmet Okur, Paul Millsap e Kyle Korver. In un Ovest decisamente competitivo dominato dai San Antonio Spurs, dai Phoenix Suns e dai Dallas Mavericks, i Jazz divennero l’outsider che nel 2007 raggiunse la finale di conference, pronta a reclamare un posto al tavolo delle squadre se il destino, sotto forma di Phil Jackson e dei Los Angeles Lakers, non si fosse nuovamente messo di mezzo.
Cosa ci ha lasciato Jerry Sloan
Sono state catartiche le parole espresse da Adam Spinella - guru di Twitter per quanto riguarda l’analisi tattica del gioco - in un suo tweet a ridosso l’annuncio del decesso di Sloan.
Jerry Sloan ha avuto la forza di reinventarsi continuamente nei 30 e passa anni in cui ha allenato, riuscendo a essere un innovatore pratico e non filosofico. È stato uno dei primi allenatori NBA a mettere il sistema di gioco davanti al talento dei giocatori, anzi, aiutando i giocatori e esprimere il proprio potenziale grazie al sistema di gioco. Una specie di Phil Jackson ma svuotato dei messaggi zen, che proprio non facevano parte del personaggio: se Jackson parlava con la stampa quasi sempre con un doppio fine, Sloan era solito cenare in mezzo ai giornalisti prima di ogni partita, mostrando una disponibilità che molti decani gli hanno tributato in questi giorni di commiato.
Negli anni ‘90 le squadre che giocavano la pallacanestro più fluida, scorrevole ed efficace erano proprio i Chicago Bulls guidato dai precetti della Triple Post Offense di Phil Jackson e Tex Winter, e gli Utah Jazz che mettevano in campo ogni sera una delle più belle versioni di Motion Offense mai viste su un campo da basket. L’attacco dei Jazz era un orologio svizzero che muoveva ogni suo ingranaggio con meticolosa precisione, in cui il movimento di palla e di uomini era talmente incessante da diventare frustrante e illeggibile per gli avversari. Ancora oggi tanti concetti di quell’attacco vengono utilizzati nei playbook di allenatori NBA e di Eurolega: c’è una collaborazione offensiva in particolare molto comune oggi che si chiama “Utah Screen”, una sorta di blocco al bloccante diagonale, che prende il nome proprio da uno dei movimenti chiave dell’attacco dei Jazz di Jerry Sloan.
Lo “Utah Screen”. Negli anni ‘90 questa collaborazione era il terrore delle difese perché a portare il primo blocco erano Stockton e Hornacek, abili nell’usare i gomiti sulle schiene di difensori ben più grossi di loro, ma inermi davanti (o per meglio dire dietro) alla loro perfidia.
Quando si pensa agli Utah Jazz di quel periodo la prima cosa a cui si pensa è allo slogan “Stockton-to-Malone” associando l’estro di John Stockton alle doti realizzative di Karl Malone. Lo strumento che molto spesso faceva dialogare i due Hall of Famer e membri del Dream Team era il pick and roll che Sloan proponeva in modo sistematico ogni santa sera, in un’epoca in cui ne venivano giocati pochi e con effetti diversi da quelli odierni. Un Pick and Roll che molto frequentemente era il culmine di una manovra collettiva che portava ogni giocatore in campo a fare attivamente la sua parte e che mirava a coinvolgere tutti i membri della squadra.
Il pick and roll Stockton to Malone: Karl Malone poteva finire al ferro o aprirsi nel mezzo angolo per un pop, mentre Stockton era sublime nel leggere la difesa e fare sempre la scelta giusta. Steve Nash è diventato Steve Nash studiando attentamente il gioco del leader ogni epoca per assist.
Non è un caso se la fiducia di Jerry Sloan nel suo sistema di gioco sia stata uno dei motivi della continuità ad alto livello dei Jazz: nel corso di 23 anni ha cambiato centinaia di giocatori, è cambiato il gioco stesso, ma Sloan è sempre rimasto fedele al suo metodo, sia che il pick and roll lo giocassero John Stockton e Karl Malone, sia che lo giocassero Deron Williams e Carlos Boozer.
Un assioma che vale anche dal punto di vista difensivo, utilizzando poco i raddoppi sul pallone (che ai tempi dovevano essere più “decisi” per via della regola della difesa illegale) e fidandosi quasi ciecamente delle capacità individuali dei suoi giocatori. Anche quando davanti a lui c’era uno come Michael Jordan.
Jerry Sloan ha contribuito a spingere avanti il gioco e ha mostrato un modo diverso di fare pallacanestro, aiutando la NBA a uscire dalle sabbie mobili in cui si stava cacciando dal punto di vista tattico, e diventando fonte di ispirazione per almeno tre generazioni di allenatori che oggi ne piangono la scomparsa.