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La lista di Kobe
15 dic 2014
Ieri notte il Black Mamba ha superato i 32.392 punti di Michael Jordan, diventando il terzo miglior realizzatore della storia NBA. Ma a che costo?
(articolo)
13 min
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Settimana scorsa, mentre cercavo invano di prendere sonno guardando una partita su League Pass, durante un timeout mi sono improvvisamente ritrovato di fronte a questo video:

Il mio primo pensiero è stato: “Wow. Di già? L’NBA è già partita con i video promozionali su Kobe e MJ? Ma non mancavano mica 99 punti al sorpasso?”. Immediatamente dopo, mi sono fermato un attimo a riflettere su quanto si vede in quel video. La data a cui fa riferimento è il 17 dicembre 1997, ovverosia la prima visita stagionale dei Los Angeles Lakers di un Kobe Bryant appena 19enne ai campioni in carica dei Chicago Bulls. Già a quel tempo, nonostante Kobe uscisse solo dalla panchina per i Lakers pur segnando 17.4 punti a partita, le domande dei reporter erano tutte sul rapporto e il paragone tra i loro stili di gioco.

In quell’occasione Kobe chiuse la sua prima risposta con una frase piuttosto abitudinaria nei circoli NBA: “I just have to continue to work hard and be the best basketball player that I can possibly be” — che però, nel suo caso, è tutt’altro che routine. Anzi, è la frase che meglio riassume la sua intera carriera, anche e soprattutto alla luce del fatto che proprio ieri notte è riuscito a superare Michael Jordan nella classifica dei cannonieri NBA a quota 32.293 punti, ora terzo di ogni epoca dietro a Karl Malone e Kareem Abdul-Jabbar. E MJ ha molto a che fare con quella ossessione di diventare il miglior giocatore di basket possibile sviluppata da Kobe.

“SAI ANCHE TU CHE POSSO FARTI IL CULO UNO CONTRO UNO”

Gli americani, nel gergo cestistico, possiedono un espressione bellissima: to pattern the game after somebody. Letteralmente significa “basare il proprio gioco su quello di un altro”, ma la parola pattern può essere tradotta come modello, schema, stampino, esempio. Nella storia del gioco, non si è mai assistito a un caso di “patterning” come quello sviluppato da Kobe Bryant su Michael Jordan.

Intendiamoci fin da subito: se il tuo obiettivo è di diventare il più grande di tutti i tempi, è perfettamente logico e direi quasi obbligatorio cercare di studiare, imparare e rubare il più possibile dal miglior giocatore di sempre nel tuo ruolo, specialmente se è anche il migliore di sempre overall. Quindi non c’è nulla di sbagliato in quello che ha fatto Kobe; solo che il suo “patterning” è stato portato agli estremi, ricalcando — e i suoi numerosissimi detrattori sostengono copiando — quello che faceva MJ in ogni singolo movimento, situazione, reazione, facendola diventare a tutti gli effetti un’ossessione. Nelle parole di Phil Jackson, tratte da Eleven Rings:

"Kobe era fortissimamente determinato a superare Jordan come miglior giocatore di tutti i tempi. La sua ossessione per Jordan era impressionante. Non soltanto aveva fatto suoi molti dei movimenti di Michael, ma cercava anche di imitarne i comportamenti."

L’ossessione per MJ era tale che Jackson, cercando in tutti i modi di inculcare nel giovane Bryant uno stile di gioco più consapevole e zen, pensò di chiedere aiuto allo stesso MJ per fargli cambiare idea, per fargli capire fin da subito che il modo giusto di giocare a basket era un altro: "In quella stagione, quando giocammo a Chicago organizzai un incontro tra i due, pensando che Michael potesse aiutarlo a cambiare atteggiamento, indirizzandolo verso un comportamento più altruista. Quando si strinsero la mano, le prime parole che uscirono dalla bocca di Kobe furono: «Sai anche tu che posso farti il culo uno-contro-uno»".

Posso solo immaginare la faccia di Phil Jackson dopo quella frase: deve aver alzato gli occhi al cielo e invocato il nome di qualche santo, e la sua religiosissima mamma sarebbe stata sconvolta che il suo “piccolino” potesse anche solo avere pensieri del genere. In verità, Kobe era già convinto di sapere cosa dovesse fare per raggiungere i propri obiettivi, e cercare di fargli cambiare idea e modificare il suo comportamento è stato — per sua stessa ammissione — il lavoro più difficile che Phil Jackson abbia mai affrontato nel corso della sua leggendaria carriera da allenatore.

"Convincere Kobe che non esisteva solo il suo modo per raggiungere i suoi obiettivi si è rivelato durissimo, e per certi versi lo è tutt’ora, perché Kobe era uno che imparava in maniera tenat e caparbia. Aveva grandissima fiducia nelle sue capacità, e non potevi aspettarti che cambiasse atteggiamento semplicemente facendogli notare i suoi errori. Doveva sperimentare il fallimento sulla sua pelle prima di far cadere le sue riserve, e spesso questo si rivelava un processo tremendo sia per lui sia per chiunque altro vi fosse coinvolto. Poi, all’improvviso, arrivava il momento in cui diceva “a-ha!” e trovava il modo di cambiare".

La realtà è che, fin da quando era giovanissimo e si faceva spedire dai nonni le videocassette in Italia per rimanere aggiornato sulla NBA, è come se Kobe avesse scritto una lista dei traguardi che voleva raggiungere nel corso della sua carriera, e niente e nessuno gli avrebbe impedito di conseguirli — anzi, avrebbe cercato di eliminare ogni singolo ostacolo che si sarebbe frapposto tra lui e i suoi obiettivi. Se dovessi immaginarmela ora, l’ideale lista un po’ sgualcita ai bordi e spiegazzata dal tempo appesa nell’armadietto di Kobe apparirebbe più o meno così, con i traguardi in ordine discendente di importanza.

- Diventare il più forte giocatore di tutti i tempi

- Vincere il titolo NBA (ASAP) ✔✔✔✔✔

- Vincere l’MVP delle Finali ✔✔

- Vincere l’MVP ✔

- Vincere la classifica cannonieri NBA ✔✔

- Convocazione per l’All-Star Game ✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔

- Vincere l’MVP dell’All-Star Game ✔✔✔✔

- Essere nominato per il Primo quintetto All-NBA ✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔✔

- Essere nominato per il Primo quintetto difensivo ✔✔✔✔✔✔✔✔

Da qualche parte (anche se non lo ammetterà mai) ci deve essere anche quella dedicata esclusivamente ad MJ, dalla quale l’altro giorno ha potuto spuntare “Superare Michael nella classifica cannonieri All-Time ✔”, oltre ad una lunghissima serie di movimenti e finte già apprese negli anni: Up and under ✔, fadeaway in post ✔, palleggio-arresto-tiro ✔, appoggio sul difensore, lingua fuori ✔, modo di esultare ✔, tiri allo scadere ✔ (x28, almeno), e chissà quante altre — anche se la voce che più gli interessa spuntare, “Superare MJ per titoli vinti”, molto probabilmente rimarrà per sempre incompiuta, così come rimane inattaccabile il primo posto nella classifica cannonieri di Karee — anche se, stando a lui, non gli interessano i titoli individuali ma solo “take pride in the building of my game”.

LOVERS & HATERS

Avere quel tipo di atteggiamento ha i suoi pregi e i suoi difetti, con i secondi che si ripercuotono soprattuto per chi gli sta intorno. I pregi si riflettono nella sua incredibile voglia di migliorarsi e di vincere che, se presa nella maniera giusta, può rivelarsi contagiosa per i suoi compagni, che non hanno mai smesso di tributargli una work ethic senza precedenti. Come dice lo stesso Jordan: “He wants it so bad that he’s willing to go to the extremes”. La cosa peggiore è che questo suo modo totalizzante di intendere il lavoro (e quindi anche l'intera vita) può alienare gli altri attorno a sé come esseri umani, facendo passare Kobe su un piano diverso, rendendo difficile anche solo interagire con lui perché molti dei compagni non vengono considerati degni di una singola parola. Per larghi tratti della sua carriera, i compagni sono stati solo un intralcio verso il raggiungimento dei suoi obiettivi, e questo faceva totalmente andare fuori di testa Jackson, che cercava in tutti i modi di inserirlo in un contesto di squadra (l’attacco Triangolo è il più democratico dei sistemi offensivi, almeno per come lo vorrebbe il suo ideatore Tex Winter) e di farlo andare d’accordo con Shaq.

Questa sua ricerca del miglioramento ossessivo e il suo incessante slancio verso l’alto, anche a costo di diventare egoista e insopportabile, è ciò che lo rende incredibilmente interessante da osservare, incredibilmente entusiasmante da sostenere, ma anche — se non soprattutto — incredibilmente facile da odiare. Da sempre il seguito di Kobe Bryant si è più o meno equamente diviso tra lovers e haters, due fazioni che ancora oggi dibattono su temi del tutto ininfluenti e ben poco entusiasmanti quali la posizione di Kobe nel ranking All-Time dei giocatori NBA, Kobe meglio di MJ, Kobe meglio di LeBron, Kobe “Clutch”, Kobe egoista, Kobe e il suo contratto, Kobe qualsiasi-c***o-di-cosa. È snervante.

Da “addetto ai lavori”, inteso come uno che per lavoro si ritrova a parlare, scrivere e dibattere di NBA su base quotidiana, Kobe è diventato — almeno per me — il giocatore più difficile da trattare in pubblico per via di queste due fazioni contrapposte. Cercare di trattare Kobe Bryant in maniera “neutrale” è difficilissimo, non solo per l’enorme complessità del personaggio, ma per la stessa presenza di queste due fazioni, che hanno polarizzato il dibattito attorno a Kobe – e pare che non si possa avere una posizione di mezzo, ovvero quella che uno nella mia posizione dovrebbe cercare di avere. Qualsiasi cosa tu voglia dire, ci sarà sempre un esponente delle due fazioni pronto a tacciarti come membro dell’altra parte, e spesso — nei commenti di Facebook, nei tweet, nei forum, ovunque sul web — si sviluppano discussioni infinite su tutti i temi che ho elencato prima non appena viene nominato Kobe Bryant. Esempi? All’inizio di questa stagione, Kobe ha superato il record di John Havlicek per maggior numero di tiri sbagliati nella storia NBA (13.418), ed è stato solo l’ultimo terreno di scontro per le due fazioni. Così come successo quando Kobe è stato indicato come 40esimo miglior giocatore nel ranking pre-stagionale di ESPN, provocando la sua (non esattamente elegantissima) risposta e scatenando la reazione delle due fazioni.

Un’altra delle cose per cui Kobe viene spesso attaccato è il numero di tiri che si prende e della pochissima qualità delle conclusioni che sceglie per attaccare. In poco più di 20 partite di questo inizio di stagione ha sfondato il muro dei 500 tiri tentati (quasi 100 più del secondo, Monta Ellis), e continuando di questo passo chiuderebbe a quota 1.833, terzo numero più alto della carriera (e, casualmente, vicino ai numeri tenuti da Jordan nel suo ultimo triennio in maglia Bulls). Oltretutto, quasi il 75% di queste conclusioni sono contestate (difensore entro un metro da lui) e ben 216 dei suoi tiri sono stati presi dal mid-range, notoriamente la peggior zona di campo per attaccare della NBA contemporanea. Il che, abbinato al secondo Usage Rate della sua storia gialloviola, sono numeri spaventosi per un 36enne reduce dalla rottura del tendine d’Achille e del ginocchio. I più maliziosi (haters!) potrebbero pensare che sia un tentativo per avanzare il più velocemente possibile nella classifica marcatori (e quindi superare Jordan); dall’altra parte, i suoi sostenitori fanno notare che i compagni di squadra non si chiamano esattamente Pippen e Rodman e nemmeno O’Neal e Pau Gasol, quanto piuttosto Carlos Boozer e Wesley Johnson. E come ha detto lo stesso Kobe: “Non puoi rimanere inerme quando avviene un crimine davanti ai tuoi occhi”.

In ogni caso — e spero che, quale che sia la vostra fazione, almeno su questo saremo d’accordo — la sola presenza di Kobe Bryant rende la NBA enormemente più interessante da seguire. Perché la sua personalità, il suo carisma e quello che ha raggiunto nella sua carriera lo rendono una leggenda vivente, e un argomento di discussione vastissimo ed amplissimo che può tenere impegnati per delle ore. E quindi, almeno dal mio punto di vista, parlare di Kobe Bryant è giusto, ovvio e divertente. Solo cerchiamo di farlo senza ragionare per dogmi assolutistici. Per favore.

KOBE BEING KOBE

Un’altra cosa di cui bisogna dargli atto — ed è preso direttamente dal Vangelo della Superstar NBA secondo MJ — è che Kobe non ha mai smesso, nemmeno per un secondo, di essere e sentirsi Kobe Bryant. Non si è mai tirato indietro davanti a nulla fin da quando era giovanissimo (anche con risultati disastrosi), ha affrontato mettendoci la faccia ogni singola situazione in cui è capitato (anche le peggiori), non ha mai rifiutato la responsabilità di essere il leader della squadra, la faccia della franchigia, e la superstar di riferimento della Lega dopo il ritiro di Jordan. Anzi, lo voleva fortissimamente. Lui ha sempre voluto l’ultimo tiro nelle sue mani, ha sempre cercato di essere il motivo per cui si vinceva e si perdeva, lui voleva che 20.000 persone andassero al palazzetto per vederlo giocare ogni singola sera (e se siete mai stati ad un evento sportivo di grandi dimensioni, potete immaginare la pressione che questo comporta), lui ha sempre voluto essere il maschio alfa dominante. Non conosce altro modo di vivere, e non si è allenato per altro. E non date per scontato che questa sia la normalità nella NBA. Come scrive Paul Flannery di SB Nation: “Sono nel giro della NBA da abbastanza tempo da aver capito che molti giocatori non vogliono assolutamente quel tipo di vita. […] Pensate alla nuova generazione di stelle: Anthony Davis, Steph Curry, anche Kevin Durant. L’essere il ‘maschio alfa dominante’ non è la loro personalità. Il modo in cui Kobe interpreta il suo essere superstar sta per estinguersi, e non sono sicuro che lo rivedremo tanto presto”.

Per tutto questo, una delle più grosse critiche che gli vengono mosse dai suoi haters — ovverosia quella di essere la causa del crollo dell’impero gialloviola degli ultimi anni per via del suo egoismo — per certi versi è incomprensibile: è ovvio che Kobe non avrebbe mai accettato di essere secondo a nessuno nella sua stessa squadra, è ovvio che non sarebbe andato da Dwight Howard a supplicarlo che rimanesse, è ovvio il migliore deve essere lui. Vive da 19 anni a Hollywood ed è una delle più grandi superstar di Los Angeles: il suo è un personaggio che si è scelto per la vita, ed ha lavorato più di chiunque altro per costruirselo giorno dopo giorno.

KOBE DOIN’ WORK

All’inizio del pezzo parlavo di come Kobe avesse detto che il suo obiettivo fosse “The best player that I can be”. Per certi versi, l’intera carriera di Kobe Bryant può essere letta attraverso quel pensiero, e ogni cosa che ha fatto si può giustificare con quella frase. È come se Kobe a 13 anni si fosse reso conto di possedere un talento enorme per questo gioco e avesse deciso di fare ogni cosa possibile per sfruttarlo al 101%. Senza lasciare nulla al caso, spremendolo ogni singolo giorno fino all’ultima goccia possibile per non aver nessun rimpianto, mai. E pretende da chi gli sta intorno faccia lo stesso, e rispetta solo ed esclusivamente quelli che lo fanno, altrimenti renderà la tua vita impossibile.

Una scena vista molte volte ad El Segundo, solo che questa volta è stata realizzata davanti ai giornalisti.

Per certi versi, aver espresso il suo massimo potenziale è quasi (quasi eh!) più importante di aver vinto quello che ha vinto. “Apprezzo più il percorso che ho avuto e la sua bellezza, piuttosto che il record in sé”, ha dichiarato nei giorni scorsi. In questo lungo viaggio che è la sua carriera, la figura di Jordan è stata decisiva, perché gli ha messo davanti agli occhi un obiettivo da raggiungere e superare: se non ci fosse stato MJ, probabilmente non avremmo mai avuto questo Kobe Bryant, con i suoi pregi ed i suoi limiti. Magari ne avremmo avuto uno peggiore, o uno migliore, o magari avrebbe trovato un altro modello a cui ispirarsi e di cui diventare ossessionato. Ma senza Michael Jordan, senza i suoi 6 titoli, senza i suoi 32.293 punti che sono stati superati ieri notte, non avremmo mai avuto questo Kobe Bryant.

E in fin dei conti, sarebbe stato un gran peccato.

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