Per un pubblico neutrale la finale di Coppa UEFA del 2001 è stata un evento esotico. Liverpool e Alavés, due squadre dalla narrativa quasi opposta, hanno portato in campo uno spettacolo pazzo - 9 gol in totale! - lontano dagli standard cui si era abituati in Serie A o in Champions League, competizioni in quegli anni piuttosto avare di gol.
Quella finale ha rappresentato per certi versi il canto del cigno di una competizione ormai sempre più schiacciata dalle riforme volute dalla UEFA, che hanno permesso alla Champions League di mangiarsi tutto il prestigio disponibile sul mercato. In un contesto di finali tirate e appesantite da sovrastrutture tattiche, Liverpool-Alavés ha aderito invece a un ideale di spettacolo puro.
Per capirla bisogna però ricostruire meglio il contesto. Il calcio europeo del 2000 è in una fase di transizione: nessuna delle grandi squadre di fine secolo come Manchester United, Bayern, Real Madrid o Juventus è riuscita ad aprire una dinastia in Europa (come riuscirà a fare solo successivamente il Milan). Le due scuole calcistiche che stanno sfornando i maggiori talenti sono quella francese e quella brasiliana, i cui giocatori però finisco per giocare un po’ ovunque distribuendo talento tra le grandi squadre. I diritti tv non sono ancora una fonte di guadagno totalizzante, i petrodollari non sono ancora arrivati nel calcio e la bolla economica del calcio italiano e spagnolo non è ancora scoppiata.
La Premier League non è la lega nettamente più ricca e nei due campionati più prestigiosi (la Serie A e la Liga) i soldi sono tanti e ben distribuiti, tanto che ogni anno ci sono 4 o 5 squadre che partono con l’idea di poter vincere il titolo: per capirci, nel 2001 la Lazio è campione d’Italia e la Roma lo sarà a fine stagione; il Deportivo è campione di Spagna e il Valencia è nel mezzo di due finali di Champions League consecutive. Questa distribuzione del talento porta le selezioni nazionali ad essere ancora l’apice del calcio, nessuna squadra di club è paragonabile a quello che possono mettere in campo la Francia, l’Italia, il Brasile o l’Argentina.
Dal punto di vista tattico e dei metodi di allenamento le grandi rivoluzioni del nuovo secolo devono ancora arrivare: Mourinho giungerà al Porto solo dall’estate 2001, Guardiola gioca ancora a pallone nel Brescia e la Germania e la Spagna non hanno ancora deciso di cambiare la propria storia. Le grandi avanguardie europee di fine secolo - guidate da Sacchi, Cruyff o van Gaal - sono state assorbite ma ancora non capite fino in fondo e siamo in un periodo di rigetto, dove dominano approcci pragmatici o votati al talento individuale, rispettivamente nella Liga e in Serie A. In questo periodo storico le scuole calcistiche sono ancora poco compenetrate e si avverte la differenza degli stili e del modo di vedere il calcio. Il Liverpool è un grande esempio di questa fase calcistica.
Il Liverpool di Houllier
La Premier League di inizio secolo è uscita solo di recente dall’isolazionismo post-squalifica per i fatti dell’Heysel. È un campionato dominato dal Manchester United di Ferguson, nella sua versione più britannica, e dall’Arsenal di Wenger, col suo stile più continentale, come mosca bianca della competizione.
Il Liverpool è allenato dal francese Houllier da tre stagioni, ha una rosa fatta per lo più da giocatori britannici ed è costruita per giocare in verticale, reggere alti ritmi e lo scontro dal punto di vista atletico. La linea difensiva gioca bassa ed è composta in pratica da quattro centrali in linea: Sami Hyypiä e Stéphane Henchoz al centro, Markus Babbel e Jamie Carragher sugli esterni. Per dire, Carragher era il più basso ed era alto comunque 185 cm, giocava a sinistra pur essendo destro.
Il centrocampo segue la stessa logica. Il Liverpool si presenta in finale con due giganti al centro - Dietmar Hamman e Gary McAllister - e due centrocampisti centrali schierati da falsi esterni, Steven Gerrard e Danny Murphy. Il ventunenne Gerrard, già idolo della Kop, è un fascio di energia vitale, viene sistemato sulla fascia per permettergli di correre quanto vuole senza rompere la struttura della squadra.
La storia dell’esperienza al Liverpool dello scozzese McAllister è forse il simbolo dell’idea di calcio di Houllier: arrivato in estate gratis quando a 36 sembrava a fine carriera, è risultato invece fondamentale per la sua capacità di gestire la palla con freddezza, oltre che per il suo talento nei calci piazzati. È suo il rigore segnato nella semifinale di ritorno contro il Barcellona.
La strategia del Liverpool è quella di sempre: la palla si recupera a centrocampo e poi si prova velocemente una verticalizzazione per una delle due punte, nel frattempo già girate per andare per la loro strada dividendosi i compiti. Si può cercare Emile Heskey sulla trequarti, se è venuto incontro a ricevere, oppure, più spesso, sull’esterno, dove si è allargato per poi virare verso l’area. In alternativa si può cercare Owen, che si preoccupa più che altro di scappare oltre la difesa. Trovare Heskey è più facile, ma trovare Owen spesso significa creare automaticamente un pericolo. Siamo ancora nella fase di innamoramento generale per Michael Owen, le sue caratteristiche di gioco lo rendono ancora ingestibile per le linee difensive inglesi, abituate ai centravanti fisici.
Nonostante non sia una squadra dal gioco bellissimo (il calcio di Houllier viene bollato come troppo difensivo) la narrativa del ritorno del Liverpool tra le grandi è irresistibile sia in Premier League, dove chiuderà terzo, che nel percorso verso la finale della UEFA, dove tolti i primi due turni facili, la squadra di Houllier ha eliminato prima l’Olimpiakos (sceso dalla Champions League), poi la Roma di Totti e Batistuta (futura campione d’Italia) agli ottavi, il Porto ai quarti, e in semifinale la grande favorita della competizione, il Barcellona di Figo e Rivaldo.
Solo cinque giorni prima, il Liverpool ha alzato il secondo trofeo stagionale: la FA Cup, vinta in finale contro l’Arsenal (che si è aggiunta alla League Cup vinta ai rigori contro il Birmingham City). L’idea di chiudere la stagione con tre trofei alzati e la qualificazione in Champions League dà una grande spinta motivazionale alla squadra, si vuole segnare la stagione simbolo della rinascita della squadra e aprire un nuovo grande ciclo, guidato da Gerrard e Owen.
La Coppa UEFA era storicamente la competizione preferita delle squadre inglesi, che negli anni precedenti alla squalifica l’avevano vinta 9 volte con 6 squadre diverse (il Liverpool ne aveva già 2 in bacheca). Sono 17 anni però che una squadra di Premier non alzava un trofeo, di mezzo c’è ovviamente la squalifica dalle competizioni europee che ha aumentato il divario con le italiane, che nel frattempo ne hanno fatto il proprio regno. L’Italia ne aveva vinte 8 delle ultime 12, portando a 10 il numero di squadre che erano riuscite ad alzarla.
La favola dell’Alavés
Dall'altra parte del campo di battaglia, a giocarsi quella finale, c’era la vittima sacrificale designata, la favola della competizione destinata ad infrangersi e a fare da comparsa contro la narrativa dominante (quella, come detto, del ritorno in pompa magna di una grande storica del calcio mondiale). Il Deportivo Alavés era nel periodo migliore della sua storia, ma parliamo comunque di una squadra di mezza classifica della Liga alla prima partecipazione ad una competizione europea.
Il principale protagonista di questa favola sportiva era il basco Mané Esnal, un allenatore con la faccia da padre in pensione. Il tecnico aveva costruito con pazienza un buon progetto nonostante i pochi soldi, spingendo la sua squadra, in soli quattro anni, dalla seconda divisione ai posti europei in Liga. L’Alavés era una squadra umile, che giocava un calcio semplice, la cui strategia di base consisteva nel non concedere mai superiorità numerica nella propria metà campo. La linea difensiva era folta e arretrata e l’idea era quella di attaccare attraverso una transizione offensiva veloce e verticale. Un calcio efficace grazie allo spirito di sacrificio di tutti i giocatori in campo (miglior difesa della Liga con 37 gol incassati l’anno della qualificazione in UEFA).
Nel suo percorso in coppa l’Alaves all’inizio aveva incontrato squadre facili: la prima avversaria all’altezza era stata il Rosenborg nei sedicesimi, che in quella stagione era stato paracadutato come terzo del proprio girone in Champions League. Una doppia sfida decisa dal 3 a 1 che l’Alavés ha ottenuto fuori casa, a Trondheim. L’Alavés è arrivato in finale dopo aver vinto sempre in trasferta. A Milano, nel ritorno degli ottavi, contro un’Inter in crisi d’identità ma comunque dai valori in campo neanche lontanamente paragonabili a quelli della spagnola (giocava con Recoba e Vieri davanti), l'Alavés ha vinto per 2-0 segnando due gol in contropiede con Jordi Cruyff prima e Ivan Tomic.
La vittoria contro l’Inter è probabilmente la più prestigiosa dell’intera storia dell’Alavés ed è quella che convince il gruppo di poter arrivare fino in fondo. I quarti contro il Rayo Vallecano vengono affrontati in scioltezza, liquidando gli avversario con un 3-0 già all’andata. In semifinale l’Alavés arriva a fare 9 gol totali al Kaiserslautern di Djorkaeff e Klose. A quel punto, è la prima squadra moderna ad essere arrivata in finale di coppa nella propria stagione di debutto in Europa. Adesso il soprannome del Deportivo Alavés, “Il Glorioso”, sembra avere un senso.
Nessuno all’interno della società - ad eccezione di Jordi Cruyff - aveva però mai giocato una partita di questo livello. Forse anche per questo nei giorni precedenti erano state prese una serie di decisioni che, se oggi ci sembrano ridicole, in quel momento sembravano perfettamente sensate.
La marca spagnola Luanvi, che vestiva l’Alavés, pensa in accordo con la dirigenza di fare il colpaccio dal punto di vista economico. Visto che per la finale contro il Liverpool la squadra non si può schierare con la maglia speciale rosa scura (per ricordare il vino della Rioja Alavesa, sponsor della squadra) dedicata proprio alle partite in Europa, confeziona un'altra maglia speciale, pensata solo per la finale. L’Alavés si ritrova quindi a giocare la partita più importante della sua storia in un improbabile maglia blu con fascia gialla (ispirata, non si sa bene perché, al Boca) invece che con la classica bianca e blu a bande.
La maglia va a ruba e la vestono buona parte dei tifosi intervistati durante la giornata a Dortmund, il giudizio che ne danno è che la maglia sia brutta, ma forse proprio per questo è ancora più speciale indossarla per quest’occasione unica. La dirigenza, per evitare di aumentare ulteriormente la pressione, sistema la squadra in un hotel fuori Dortmund, in una zona molto isolata e tranquilla come solo le periferie tedesche sanno essere. In realtà il contesto aumenta la pressione sulla squadra, che guarda in tv le immagini dei propri tifosi, più di ventimila, che trasformano il centro città in una specie di festa di paese.
Mané sembra consapevole di dover affrontare una squadra atletica e per questo conferma il modulo con cui aveva giocato le precedenti trasferte europee, il 5-4-1 più coperto a disposizione. Linea difensiva a tre, con il capitano storico Karmona al centro (anima basca della squadra e unico sempre presente dell’inizio della scalata dalla Segunda) e altri due centrali forti fisicamente a proteggere i lati come Oscar Téllez e Eggen. Il norvegese Dan Eggen è un centrale sopra il metro e novanta e viene visto da Mané come l’unico argine fisico da poter contrapporre a Heskey, il cui strapotere fisico, anche in zone lontane dalla porta, era qualcosa a cui i giocatori dell’Alavés non erano abituati.
Il pezzo forte del sistema di Mané era il centrocampo, che difendeva praticamente in linea e attaccava invece con il rombo. L’esperto argentino Hermes Desio rimaneva davanti alla difesa mentre il connazionale Astudillo e il serbo Ivan Tomić giocavano come interni.
Tomić era in prestito dalla Roma dove faceva la riserva, sia con Zeman che con Capello. Nell’Alavés invece è fondamentale perché è il migliore nell’interpretare tutte le fasi: sa quando uscire in pressione sull’esterno e quando muoversi in avanti seguendo l’attacco. Come vertice alto del rombo c’era Jordi Cruyff, che si occupava della rifinitura. Aveva una qualità tecnica superiore rispetto a chiunque dei 22 in campo, che si esprimeva nel controllo del pallone a testa alta, nella visione di gioco e nella sicurezza nel passaggio. Era forse solo per i suoi limiti fisici che stava giocando la finale di Coppa UEFA con l’Alavés e non quella di Champions con il Valencia. Aveva rifiutato il nome paterno sulla maglia, preferendo scriverci "Jordi", ma ha voluto comunque il 14 come numero. Come a dire che non vuole essere visto solo come il figlio di Cruyff, ma che il suo modello ideale è comunque quello.
A completare il 5-4-1 sugli esterni c'erano il catalano Delfí Geli a sinistra, un ex attaccante del Barça B riconvertito terzino destro, e Contra sull’altra fascia. Cosmin Contra a destra era un terzino tecnico e un abile crossatore, fondamentale per far arrivare dall’esterno i cross per la punta. Javi Moreno invece faceva da prima punta, con i classici compiti di alternare i movimenti in profondità, con una buona velocità di base, a quelli spalle alla porta per far salire la squadra, grazie all’ottimo uso del corpo. Era il principale, se non unico definitore della manovra in area, dove in stagione si è dimostrato abile sia di testa che con un tiro potente (anche con le punizioni dal limite).
La partita
La partita completa in inglese. I commentatori vedono evidentemente l’Alavés per la prima volta nella loro vita, tanto da rimarcare come il centrale Oscar Téllez deve essere temibile nei contrasti visto che ha un tatuaggio di un rottweiler sulle braccia.
La consapevolezza di essere più forte, e l’abitudine a giocare una finale, portano il Liverpool a voler indirizzare subito la dinamica dell’incontro. Neanche 3 minuti sul cronometro e si vede la differenza tra chi ha appena giocato una finale e chi sta ancora pensando al rumore che fanno i tifosi allo stadio. Da una punizione calciata dalla fascia destra, tre metri in diagonale dall’angolo dell’area, le marcature dell’Alavés sembrano reggere ma nessuno attacca il cross e a Babbel basta allungarsi di più in tuffo dietro al marcatore per riuscire a colpire la palla in modo pulito. È già 1 a 0.
Il Liverpool ora può giocare la partita che vuole contro un avversario terrorizzato. I “Reds” possono permettersi anche più di sei o sette passaggi consecutivi palla a terra prima della verticalizzazione. Possono scegliere come e quando attaccare. L’Alavés invece sbaglia anche i passaggi più facili per arrivare alla sua punta. Per quanto avesse senso la strategia scelta da Mané, fedele al sistema che li aveva portati fino a giocarsi la finale, l’allenatore basco non aveva fatto i conti con la poca esperienza della sua squadra per reggere psicologicamente il contesto dopo un inizio avverso. In campo si vedono più contrasti che stop, ma pensare di buttarla sul fisico per l’Alavés, con interventi in crescendo che portano al giallo di Astudillo, non aiuta.
Riguardando la partita con gli occhi di oggi fa impressione quanto le due squadre siano poco propense alla costruzione dal basso dell’azione. La palla per i difensori deve viaggiare in verticale, massimo due passaggi a terra devono precedere il lancio e il portiere non ci pensa due volte se il pallone finisce nella sua zona, anche il centrocampista che eventualmente lo recupera guarda la prima opzione disponibile davanti a sé. Non esiste un sistema di pressione per un recupero alto: entrambe le squadre difendono in modo cauto e preferiscono coprire gli spazi nella propria metà campo, considerando il pressing troppo rischioso. La partita, però, è decisamente piacevole, soprattutto perché il ritmo è alto. Javi Moreno è forse troppo isolato in mezzo ai due centrali del Liverpool ma basta una conduzione di Jordi tra le linee per dare l’impressione che possa succedere qualcosa.
Dopo un quarto d’ora di gioco salta completamente il piano gara dell’Alavés di contenere il Liverpool e provare a lanciare Javi Moreno. Semplicemente non funziona. Il Liverpool recupera la palla intercettando un passaggio a centrocampo con Hamman che scarica subito per Owen sulla trequarti spalle alla porta, la punta si gira e serve in modo perfetto rasoterra sulla corsa Gerrard, che non deve neanche controllare in area, gli basta contare i passi e calciare di prima teso sul primo palo per segnare. La transizione offensiva del Liverpool è micidiale.
Appena incassato il 2-0 Mané capisce che deve intervenire subito o rischia di uscire una goleada. Si gira verso la panchina e indica al ragazzino di scaldarsi. Il ragazzino è Iván Alonso, punta uruguaiana di ventidue anni arrivato in estate dal River Plate di Montevideo, cugino del più famoso Diego Alonso (punta del Valencia) e che avrà una lunga e soddisfacente carriera in Spagna, diventando un giocatore di culto per la perfetta tecnica nel colpo di testa. È il norvegese Eggen a fargli spazio quando sono passati venti minuti di gioco con l’Alavés che ora viene rigirato quindi come un calzino da Mané: esce un centrale ed entra una punta che va sistemarsi accanto a Javi Moreno. La difesa passa a 4: visto a quanto poco era servito provare a non subire gol l’allenatore deve aver pensato che tanto valeva provare a farne qualcuno. Il centrocampo viene ridisegnato: Jordi passa sull’esterno sinistro e Astudillo su quello destro, con Tomić e Desio centrali. Mané vuole difendere schierandosi con un 4-4-2 e attaccare con i due esterni nei mezzi spazi, così da avere più giocatori nella trequarti avversaria rispetto a prima.
Il piano di Mané funziona subito. Astudillo riesce a ricevere sulla trequarti un lancio dalla difesa, la mette giù per Javi Moreno che si era allargato per ricevere e proteggere il pallone sull’esterno; la punta scarica a questo punto qualche metro dietro di lui, dove arriva Cosmin Contra. Il romeno, passato dietro con il cambio di modulo, supera l’uomo e lascia partire un cross sulla testa di Iván Alonso, che segna.
Il gol è una piccola vittoria di Mané, il segnale che l’allenatore ha la lucidità giusta per aiutare la squadra a tentare la rimonta.
Da lì in poi la partita cambia davvero registro: l’Alavés continua ad attaccare mentre il Liverpool ha le sue occasioni in transizione, una su tutte con McAllister. Niente lascia presagire quello che porta al rigore per il Liverpool qualche minuto dopo: Owen riceve una verticalizzazione rasoterra e si lancia verso l’area a tutta velocità, ha il baricentro basso e la tecnica per saltare chiunque gli si pari davanti; l’intervento goffo di Herrera la dice lunga su quanto fosse difficile per i portieri dell’epoca affrontare la velocità di Michael Owen. Una scena quasi comica: un omone con i guanti si lancia a tutta velocità fuori dall’area prima di realizzare di essere già stato superato. Sembra quasi di sentire il motivetto di Benny Hill in sottofondo.
È il 40’ e il Liverpool è 3-1. Con tutta la buona volontà, è bastato l'errore di un singolo per rimettere le distanze fra le due squadre al loro posto.
Il secondo tempo
L’Alavés rientra però dagli spogliatoi avendo capito che non ha nulla da perdere. All’inizio della ripresa entra il brasiliano Magno Mocelin, che va a mettersi al posto dell’esterno Astudillo. Neanche due minuti e Mané ha nuovamente ragione: Magno Mocelin alto a destra permette all’Alavés di mantenere il possesso sull’esterno e far salire piacimento quindi Contra mentre i compagni si sistemano in area.
Sembra quasi un balletto quello che mette su Cosmin Contra per propiziare il gol del 3-2. Salendo in conduzione sulla fascia senza paura e puntando ancora una volta l’uomo parte con un dribbling ritmato che vuole essere a metà tra un controllo per superare l’uomo e una finta di cross. Per cinque volte mette in mezzo il marcatore mandandolo fuori equilibrio mentre arretra, alla sesta si mette a posto il pallone muovendolo con la suola del destro fuori dalla distanza del marcatore prima di sistemarselo e crossarlo col sinistro. Il gol dell’Alavés quindi è ancora di testa, questa volta quella di Javi Moreno.
L’azione inventata da Contra è la ciliegina sulla torta di una stagione giocata ad altissimo livello, che gli vale l’inserimento nella Squadra dell’anno della UEFA e il trasferimento milionario al Milan. In rossonero durerà solo un anno. Anche l’autore del gol, Javi Moreno, in estate passerà al Milan ( per 16 milioni) e anche lui durerà un solo anno. Entrambi finiranno all’Atlético Madrid l’anno dopo.
Passano solo tre minuti e arriva il gol del pareggio. Ancora una volta Javi Moreno, questa volta da punizione dal limite. La distanza è quella giusta per mettere la palla sotto al sette e al momento di calciare la rincorsa sembra portare ad un tiro potente, ma al contrario esce fuori una traiettoria rasoterra che passa sotto la barriera già in volo. Dirà che il gol è stato fortunoso e non cercato, merito del piede di appoggio che al momento del calcio gli scivola quel tanto che basta per portarlo a colpire il pallone di punta invece che di collo interno.
La finale ricomincia da capo quando ci sono da giocare ancora 40 minuti e il pareggio costringe anche Houllier a cambiare qualcosa. La partita è veramente in bilico ma la dinamica sembra a favore dell’Alavés. Dopo qualche minuto decide di far uscire il centrale Henchoz per far entrare un centrocampista dalla vocazione offensiva come Šmicer sulla fascia destra, spostando Babbel al centro della difesa e Gerrard come terzino destro.
Il cambio del Liverpool genera una fase di calma apparente. Il pallone viaggia veloce tra le due squadre, con il Liverpool che attacca in modo più razionale ma senza trovare il filtrante giusto. Houllier sceglie di tirare giù la sua carta vincente e quando manca mezz’ora alla fine inserisce Fowler al posto di Heskey. Mané risponde provando a congelare la gara: toglie Javi Moreno e fa entrare un centrocampista, Pablo.
L’Alavés, quindi, cambia ancora qualcosa dal punto di vista tattico. Pablo è un centrocampista tecnico che probebilmente, nell’idea di Mané, dovrebbe migliorare la capacità di tenere il pallone e rallentare i ritmi. L’Alavés cambia nuovamente modulo e si sistema su un 4-5-1 dove Iván Alonso è la punta e Jordi Cruyff ha ampie libertà di avanzare e accentrarsi sulla trequarti. La scelta di Mané ha senso, ma non fa in tempo a premiarlo perché quello che entra per il Liverpool non è un attaccante qualunque.
Bastano 10 minuti a Fowler per prendere le misure con la difesa dell’Alavés studiandone le distanze. Si posiziona per ricevere alle spalle di Contra dopo la caratteristica sponda per il giocatore dietro di lui e alla verticalizzazione giusta può ricevere libero e rientrare sul destro dove, l’ingenuità dei centrali dell’Alavés che pensando di contenerlo gli permette di arrivare fino a dentro all’area, gli aprono la strada verso il suo regno. Una volta arrivato ha tutto il tempo che gli serve per scegliere quando saltare il marcatore e calciare in modo secco e preciso sotto le gambe dell’avversario al lato del portiere.
Da lì sembra una lunga preparazione per la cerimonia di premiazione per il Liverpool. Mentre i tifosi inglesi intonano cori di festeggiamento, però, arriva di nuovo il pareggio.
In una partita così assurda il gol più assurdo è quello del 4-4 che la manda ai supplementari, quando da un calcio d’angolo, a 2’ dalla fine, spunta la testa dai capelli radi di Jordi Cruyff in mezzo a tre giocatori del Liverpool più il portiere. Nell’arco di due metri quadrati c’è solo la sua maglia blu ma nessuno sembra interessato a marcarlo.
Ai tempi supplementari la squadra basca è ormai cotta. Ogni azione sembra sempre meno ragionata e sempre più dettata dalla foga. In questo contesto arriva il cartellino rosso per Magno a metà del primo tempo supplementare, che sposta l’inerzia dalla parte del Liverpool. A quel punto la squadra di Houllier può girare il pallone a piacimento e giocare al gatto col topo. Su una verticalizzazione sulla catena di sinistra, Šmicer riceve con spazio e può puntare la porta, il centrale Karmona prova ad andare in copertura ma è senza forze e una volta superato lo prende per la maglia e lo butta giù.
Gli costa il rosso, e soprattutto costa la partita a tutto l’Alavés, quando mancavano solo tre minuti ai rigori. Nel più crudele dei modi possibili, su una punizione all’apparenza innocua, la palla finisce nella zona dove ci sono tre giocatori dell’Alavés, con Geri che invece di lasciarla al portiere che sta uscendo alle sue spalle (non sappiamo se chiamata o meno) prova con la testa a buttarla fuori dallo specchio. Quando la traiettoria del pallone corre verso lo specchio non c’è nessuno per fermarla.
Vale ancora la regola del Golden Goal e la palla non fa in tempo a toccare la rete che già mezza panchina del Liverpool si è alzata in piedi per correre verso il centro del campo a festeggiare la vittoria. Finiesce 5-4, con un autogol: come si dice, non puoi inventartela una storia del genere. L’ennesima vittoria del Liverpool re delle coppe, capace di alzare tutti i tornei ad eliminazione diretta a cui ha partecipato in quel 2001.
È la storia perfetta della rinascita del Liverpool, una narrativa così affascinante da spingere Owen ad alzare il Pallone d’Oro quello stesso anno. Il Liverpool tornerà effettivamente tra le grandi, in Champions League, ma solo con l’arrivo di Rafa Benítez qualche anno dopo, quando Owen non è più un ragazzo prodigio e il Liverpool sarà indiscutibilmente quello di Steven Gerrard.
L’Alavés resta con niente in mano, nella finale più spettacolare della storia della Coppa UEFA. Non può neanche lasciarsi andare a quelle piccole menzogne che si dicono per tirarsi su il morale, tipo “torneremo a provarci il prossimo anno”. Sono praticamente tutti consapevoli che un’occasione del genere passa una volta nella vita. Ci sono quelle stagioni in cui sembra andare veramente tutto bene, in cui un gruppo di giocatori trova l’alchimia giusta e i risultati che ne conseguono portano ad altri risultati favorevoli e ad un gruppo ancora più unito negli intenti. Ma non è detto che la favola finisca con il lieto fine.
L’anno successivo l’Alavés arriverà settimo in Liga e potrà quindi riprovare l’impresa nella stagione 2002/03. Mané era ancora l’allenatore e in rosa c'erano ancora tanti reduci di Dortmund: Jordi, Alonso, Magno, Karmona, Geli e Pablo. La squadra però esce contro il Beşiktaş al secondo turno e i brutti risultati in Liga portano Mané a lasciare la squadra in corsa. Retrocederà a fine stagione e non si riprenderà più. Nel giro di un lustro si ritrova persino in terza categoria.
Solo nel 2016 l’Alavés è riuscito a completare la scalata fino alla Primera. Lo scorso anno, il primo del ritorno fra i grandi, obbedendo a una strana mistica, è arrivato a giocarsi la finale della Coppa Nazionale per la prima volta nella sua storia. Perdendola.