Ritiratosi solo due stagioni fa dal calcio giocato dopo oltre vent’anni da professionista, Javier Zanetti è sempre la stessa persona, nonostante lo spirito agonistico sia ormai ammorbidito dal suo incarico dirigenziale nell’Inter, dove ricopre il ruolo di vice-presidente.
Dopo mesi di "trattative" via mail, riesco finalmente a prendere appuntamento con lui nella sede della società nerazzurra in pieno centro di Milano, dove mi domando come faccia ad arrivare senza che nessuno lo infastidisca, visto il suo status di leggenda vivente.
Impegnatissimo, sia nel ruolo da vice-presidente sia nel lavoro costante per la "Fundación Pupi", da lui creata nel 2001 in piena crisi economica argentina, Zanetti nel suo curriculum vanta oltre 1100 incontri disputati in ogni angolo del pianeta, tra Talleres, Banfield, Inter e nazionale argentina.
Javier Zanetti con la maglia del Banfield. Le gambe sono sempre quelle (e anche i capelli).
Ed è proprio da lì che partiamo, dalla zona sud di Buenos Aires, luogo di nascita del Capitano e punto di partenza della sua crescita calcistica. Gli mostro orgoglioso il biglietto di un Banfield-Independiente a cui assistetti due anni fa, notando complicità per la coincidenza. Il Banfield è, infatti, la squadra che lo fece debuttare in Primera División e quella della quale è sempre stato tifoso in Argentina. Mentre si scusa per la mancanza di mate sulla sua scrivania e si dispiace che gli alfajores non siano ancora arrivati in Italia, il capitano dell’Inter del Triplete riavvolge il nastro della sua vita.
Sei nato nel Dock Sud, una zona leggermente periferica di Buenos Aires, ma che, in quanto a calcio, di periferico aveva ben poco…
In Argentina si respira calcio in ogni angolo e la zona sud di Buenos Aires riflette chiaramente quell’espressione coniata da non ricordo quale commentatore televisivo che dice "fútbol pasión de multitudes".Stiamo parlando di una zona nella quale hanno sede cinque club, a pochissimi minuti di distanza: Independiente, Racing, Banfield, Lanús e Temperley. È incredibile. E pensa che la mia casa in Argentina è a dieci isolati dallo stadio del Banfield...
Proprio al Banfield sei cresciuto come calciatore. E hai vissuto come tifoso la rivalità tra Independiente e Racing e da calciatore quella tra Banfield e Lanús. Come sentivi queste sfide?
Erano emozioni fortissime. L’intero quartiere era in subbuglio e se ne parlava per una settimana intera, prima, durante e dopo. Il Dock Sud stesso aveva una squadra che negli anni ‘80 militava nella nostra Serie B e ricordo che quando giocava le strade del quartiere si svuotavano perché tutti erano allo stadio! La domenica ovviamente andavo a vedere il grande Independiente, quella squadra che nel 1984 vinse Libertadores e Intercontinentale. Poi, di ritorno dallo stadio con i miei amici andavamo a giocare nel campetto vicino casa, costruito in cemento da mio padre e dai vicini, e io facevo la cronaca mentre correvo col pallone, fingendo di essere un giocatore dell’Independiente.
Stai parlando del classico potrero argentino…
Sì, quello dove si sono formati giocatori come Tevez, per esempio. In Argentina bastano due borse per costruire una porta e hai il campo per giocare. Esiste una cultura del fútbol de barrio (calcio di quartiere) che non ha eguali nel mondo. Pensa che a scuola arrotolavamo il grembiule bianco e lo utilizzavamo come pallone. Sono i ricordi più belli della mia infanzia.
Già leader, col numero 7.
Il tuo essere tifoso dell’Independiente non ti ha impedito però di sviluppare una profonda amicizia con Diego Milito, noto tifoso e trascinatore del Racing, l’eterno rivale.
È vero. Per me Diego è un fratello e sono molto contento che il suo ritorno al Racing abbia riportato la sua squadra al trionfo in Argentina. Ciò che ha vissuto ha dell’incredibile perché lasciò il Racing dopo aver vinto il titolo nel 2001 e una volta tornato nel 2014 lo ha riconquistato, da protagonista e capitano.
Dalle rivalità di quartiere in Argentina a quella del derby di Milano...
A livello di passione e di impeto credo che proporzionalmente stiamo parlando della stessa intensità. Ovviamente quando entri a San Siro e vedi 80mila persone con gli occhi puntati su di te l’effetto è unico.
Come ti senti in questo nuovo ruolo da vice presidente?
Per me l’Inter è sempre stata una grande famiglia. Mi sono state aperte subito le porte quando ero giovane e dopo quattro anni mi hanno dato la fascia di capitano che ho portato al braccio per quindici anni. Quando mi sono ritirato ho accettato questo ruolo dirigenziale anche perchè posso seguire di pari passo lo sviluppo della "Fundación Pupi", che mi sta molto a cuore.
La fondazione è nata nel 2001, anno della crisi economica in Argentina.
Un periodo molto difficile per il mio Paese. La decisione di creare la fondazione fu accelerata da queste difficoltà: io e mia moglie Paula sapevamo che c’era gente che aveva bisogno di aiuto, soprattutto bambini e ragazzi ai quali mancava la scuola. È una situazione che purtroppo continuo a vedere ogni volta che torno in Argentina, ma per dare un futuro a queste persone, bisogna partire proprio dall’istruzione. La nascita della fondazione fu l’unico aspetto positivo in una stagione stregata, quella dei miei peggiori ricordi da calciatore: il 5 maggio a Roma e l’eliminazione ai mondiali con l’Argentina senza neanche superare la fase a gironi.
Istruzione e disciplina in campo sono i tuoi dogmi principali. Credi che il modo di giocare a calcio rispecchi lo stile di vita?
Ho sempre vissuto il calcio con molta passione. Il mio primo regalo a tre anni fu un pallone e iniziai a giocare ovunque. Sono cresciuto rispettando questo sport come una professione anche perché la vera difficoltà è mantenersi a un alto livello. La disciplina è fondamentale, nel calcio e nella vita.
Disciplina che ti permette di mantenerti in forma tutt’oggi.
Certo. Ovviamente non mi alleno come prima, ma vado a correre con mia moglie e lo faccio perché allenarmi mi fa sentire bene.
Correre per strada non è complicato per una celebrità come te? Immagino ti fermino ogni 100 metri…
Succede soprattutto in estate, quando con i miei figli andiamo in bicicletta intorno al Lago di Como: la gente suona il clacson dopo avermi riconosciuto e mi saluta. È lo stesso anche in Argentina, dove la gente mi ammira soprattutto per il lavoro svolto dalla mia fondazione.
All’Inter hai sempre portato il 4, numero ora ritirato. Ha un significato particolare per te?
Perché quando arrivai nel 1995 era una delle poche maglie libere. E inoltre in Argentina il terzino destro è da sempre chiamato "4", diversamente da qui in Italia, dove di solito è il 2.
Esempio di “gol pesante”.
Però al mondiale 1998 con l’Argentina hai vestito il 22.
Perché quell’anno si andava in ordine alfabetico, e il mio cognome era l’ultimo.
Poi la disfatta del mondiale del 2002, che è anche il tuo ultimo Mondiale. Nel 2006 Pekerman ti lasciò fuori dalla spedizione in Germania e nel 2010 fu Maradona ad escluderti dalla nazionale ai mondiale sudafricani. Come ti sei sentito?
Fu senza dubbio una delusione forte, anche perché in entrambi i casi giocai le eliminatorie in tutte le partite. Ma quando la decisione non dipende solamente da te non ci puoi fare niente. Io sapevo di aver fatto del mio meglio ma non bastò e non saprò mai il perché di quella esclusione.
E paradossalmente nel 2010, a 37 anni, meritavi ancora di più la convocazione.
Avevamo vinto tutto con l’Inter, avevo giocato tutte le partite e in varie posizioni, ma purtroppo il calcio è così, a volte è crudele. Diego (Maradona ndr) ha sempre cercato di essere un allenatore unico, quello che è stato da giocatore.
L’Italia e l’Argentina sono da sempre unite da un ponte culturale solidissimo. Non a caso Roberto Baggio, grande appassionato di caccia, si reca spesso nella Pampa. Cosa pensi di lui avendo vissuto due stagioni al suo fianco?
Calcisticamente si tratta di un genio e a livello umano è una personale ammirevole. Ho avuto la fortuna di trascorrere con lui tanto tempo qui all’Inter. Non dimenticherò mai quando, dopo aver visto un suo video di caccia, mi innamorai di un labrador che appariva nel video e lui dopo qualche giorno, dopo avermi invitato a cena, si fece accompagnare alla macchina e da lì spuntò un cucciolo di labrador… Comprendo il suo amore per l’Argentina, io stesso non riesco a fare a meno del dulce de leche e del mate, che per fortuna trovo in un negozio cinese qui a Como.
Nella Champions League 2009-10 la vera finale fu la semifinale contro il Barcellona?
In un certo senso sì. Fu una partita interminabile perché sapevamo che era la miglior squadra in circolazione, ma noi avevamo troppa voglia di arrivare in finale e demmo tutto. Possono dire quello che vogliono sulla nostra attitudine difensiva, ma credo che qualsiasi altra squadra con quel Barcellona e in inferiorità numerica avrebbe fatto lo stesso. E credo che paradossalmente in undici contro undici sarebbe stato ancora più difficile mantenere il risultato perché avremmo avuto anche più possibilità di attaccare.
Quella notte il sacrificio di Eto’o, che ti accompagnò sulla fascia sinistra, fu encomiabile. Senza Mourinho avrebbe agito allo stesso modo?
In realtà Eto’o capì da solo che ognuno di noi avrebbe dovuto sforzarsi più del solito per arrivare a una finale che tutti sognavamo.
Dopo Barcellona arrivò la finale di Madrid. La vittoria del Bernabéu è stata la più importante della tua carriera?
Senza dubbio. Alzare la Champions da capitano dell’Inter dopo 45 anni fu un’emozione unica, resa ancor più speciale dalle migliaia di interisti presenti a Madrid che festeggiavano con noi e avevano riempito uno stadio storico già due ore prima del fischio d’inizio. Quella notte l’Inter scrisse la storia, essendo l’unica rappresentante del calcio italiano capace di vincere il triplete.
Il possibile passaggio al Real nel 2000 fu la tua più concreta possibilità di allontanarti da un Inter che non vinceva. Perché sei rimasto?
Perché non intendevo andarmene senza lasciare una traccia. Vincere all’Inter aveva un sapore diverso e io non potevo lasciare questa squadra senza poi fare quello che ho fatto per amore della maglia.
Non hai mai dato la sensazione di avere paura prima o durante una partita importante, eppure hai confessato lo spavento quando hai avuto quel pneumotorace a Palermo nel settembre 2010…
In quel momento provai paura perché non riuscivo a respirare. Era una sensazione rara mai sentita in precedenza. E fu strano perché quando finì la partita, che vincemmo, iniziai a sentire fastidio al torace mentre salivo le scalette dell’aereo per tornare a Milano. Poi feci gli esami e mi salvai di tanto così (fa il segno con le dita indicando uno spazio di due centimetri) dall’operazione.
In un momento così delicato, come per il tuo infortunio al tendine d’Achille, dove hai trovato la forza per riprenderti?
Sono ottimista di natura. E in casi del genere ancora di più. Di momenti difficili nel calcio ce ne sono tanti, è impensabile che in un intero campionato vada tutto perfettamente, ma l’importante è affrontare le difficoltà con positività, perché se uno si pone in maniera negativa la situazione può solamente peggiorare.
Chiudiamo con un’immagine. Stadio San Paolo: Napoli - Inter di Coppa Italia 2010-11, l’Inter passa ai rigori e tu, dopo aver festeggiato, ti avvicini a uno sconsolato Lavezzi seduto per terra dopo aver fallito dal dischetto. Cosa gli hai detto in quel momento?
Che era un grande. Che i rigori si segnano e si sbagliano, ma che lui aveva avuto il carattere di andare a calciarlo. Gli ho dato coraggio per il futuro e per il resto della stagione (il Napoli si sarebbe qualificato in Champions League). Bisogna essere lì, sul campo, per capire le emozioni che provoca uno uno stadio intero che aspetta il rigore decisivo. E te lo dice uno che ha avuto la fortuna di segnare il 100% dei rigori tirati, perché in realtà ne ho tirato solo uno, quello che ci regalò la Supercoppa Italiana nell’agosto 2008, contro la Roma, a San Siro.