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Lo Straniero
29 lug 2016
Chi è Sandro Donati, l'allenatore di Alex Schwazer, un personaggio unico nella storia dello sport italiano.
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17 min
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«Per me è il secondo agguato perché ne ho subito un altro 19 anni fa quando seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale». E ancora: «È chiaro che il caso Schwazer si inserisce nella mia storia».

Con queste parole Sandro Donati se ne usciva dall’audizione di fronte alla Commissione antimafia della Camera dei deputati lo scorso 14 luglio. Prima di fronte all’assemblea presieduta da Rosy Bindi, poi dal Procuratore capo di Roma Pignatone, che già da tempo ha un fascicolo aperto sulle falle dei controlli antidoping italiani, i celeberrimi “whereabouts”, ora integrato da un esposto. Mentre la memoria difensiva contro la positività agli anabolizzanti è ufficialmente sbarcato al Tas di Losanna. Ma i tempi per una decisione si allungano visto che la Iaaf ha chiesto che la decisione sul caso venga presa il 4 agosto, cioè il giorno prima dell’inizio delle Olimpiadi, direttamente a Rio.

Al termine degli incontri le sue parole sono state dure: «Il sostegno è venuto dalle procure della Repubblica e dalla Commissione parlamentare antimafia, ma sul caso Schwazer dalle istituzioni sportive ho sentito un silenzio assordante o ironie di pessimo gusto. Schwazer è stato descritto come un bipolare, un uomo dalla doppia personalità. Io lo conosco da oltre un anno e chi lo frequenta lo trova un ragazzo semplice, coerente, che non ha nulla di strano, eppure è stato creato un quadretto: “Se lo ha fatto in passato lo avrà fatto di nuovo”. In questo modo si cerca di coprire l'enormità di questo controllo antidoping assurdo, con una tempistica che da sola rappresenta la firma dell'agguato».

Donati ha poi replicato a chi gli chiedeva perché le istituzioni sportive italiane non difendano Schwazer: «Perché non vogliono mettersi contro la Iaaf - ha spiegato - una istituzione internazionale. Mi sono rivolto pubblicamente a Sebastian Coe affinché dia una spallata per il cambiamento: non può lasciare all'interno gente compromessa, gente che ha preso dei soldi per nascondere i casi di doping. Io con questa schifezza non ho niente a che vedere e invece mi ritrovo mail intimidatorie: non mi rendevo conto che allenare Schwazer, un fenomeno assoluto, farlo andare così forte senza doping sarebbe diventata una esperienza esplosiva, destabilizzante. Una iniziativa rivoluzionaria che è stata stroncata».

Claudio Fava, membro della Commissione antimafia, dà una definizione interessante di tutta la vicenda, dicendosi profondamente turbato dall’audizione del tecnico del marciatore altoatesino. «Siamo di fronte a poteri forti, interessi forti, menzogne forti. E l’impressione che abbiamo avuto è che Schwazer sia stato il mezzo per far pagare un conto salato a Donati, alle sue denunce, alle sue battaglie». Concetto che Donati va ripetendo dal 9 maggio, giorno del ritorno alle gare di Alex.

“Violenza inaudita”

E che ripete pure nel caldo di metà luglio appena fuori da Montecitorio, aggiungendo una postilla che suona come uno schiaffo di addio alla domanda su cosa farà dopo questa nuova battaglia: «Tornerò a non allenare. Del resto, sono stato già emarginato tanti anni fa. La lotta al doping? Basta, domani la faccia qualcun altro».

Ma chi?

Forse giornalisti come Fausto Narducci che, sulle pagine della Gazzetta dello sport dell’aprile 2015, scriveva di operazione di marketing alla quale Donati metteva «il timbro di garanzia». Proprio lui «che nella vita e nelle opere, non aveva mai concesso una seconda occasione a nessuno. Seconda occasione che non siamo noi a voler negare, visto che ne hanno usufruito in tanti, ma da cui proprio il principe dell’antidoping e con lui l’intera struttura di Libera e i fratelli De Benedictis avrebbero fatto bene a tenersi alla larga».

Oppure Franco Bragagna, storico telecronista Rai, che al Golden Gala del 2015 si lanciò in un intemerata sulla stessa lunghezza d’onda di Narducci, definendo il lavoro di Donati con Schwazer «un’operazione di maquillage e marketing». Un rincaro della dose che portò Eugenio Capodacqua a scrivere sul blog di Repubblica parole molto dure. «Opinione al limite della diffamazione perché dietro l’iniziativa c’è un personaggio sul quale solo pensare una cosa simile è offensivo. Uno che da sempre è in prima fila nella lotta al doping. Avendo pagato e continuando a pagare in prima persona per le sue scelte in un mondo, quello sportivo, largamente dominato dall’imbroglio, da “furbi” e “furbetti” di turno».

Sandro Donati, nato Alessandro il 14 giugno 1947 a Monte Porzio Catone, zona Castelli Romani, è stato allenatore della Nazionale di atletica leggera italiana dal 1977 al 1987 e poi è diventato un simbolo della lotta al doping. Richiesto come consulente dalla Wada (World anti-doping agency), chiamato a tenere conferenze sul tema in giro per l’Europa. Allo stesso tempo è stato molto osteggiato all’interno della Federazione di atletica italiana: per anni gli è stato impedito di allenare, relegandolo in un ruolo da impiegato. La sua è una storia che vale la pena di essere raccontata.

Lo straniero

Il 6 aprile 1975 è una data molto importante per l’atletica italiana. Giovanni Salvaterra, un giovane atleta della Nazionale azzurra lanciò il suo martello a 66,22 metri, il che non rappresentava una misura degna di nota in una specialità che già allora non aveva troppo appeal sul pubblico. A quella prestazione seguì una dichiarazione del direttore tecnico dell’atletica italiana, Enzo Rossi, che disse a Tuttosport: «Salvaterra è l’unico in Italia che sa fare un uso appropriato degli anabolizzanti. E sai perché? Perché è figlio di farmacista. Noi vogliamo che tutti in Italia, come già avviene all’estero, facciano un uso appropriato e razionale degli anabolizzanti anche quando il proprio genitore non fa il farmacista».

Nel lancio la tecnica è fondamentale.

Nei giorni successivi non ci furono reazioni. Il libro che Sandro Donati ha scritto nel 1989 col titolo Campioni senza valore inizia così, da un vuoto. Il silenzio da parte di tutta l’atletica italiana dopo una grave dichiarazione resa senza ironia dal più alto dirigente della Nazionale. Il racconto di Donati è pregno di storie molto poco edificanti e che a distanza di trent’anni appaiono attualissime. Storie che il tecnico di Alex Schwazer e per anni consulente della Wada, si è trovato a vivere in prima persona, che ha denunciato e poi raccontato a stretto giro, senza attendere la vecchiaia e il passaggio in cavalleria delle storie.

Campioni senza valore esaurì ben presto la prima tiratura e non fu mai più pubblicato. Fortunatamente alcuni appassionati sono riusciti a recuperarne una copia, rendendola consultabile sul web. La potete leggere qui. Lo stesso Donati ha sottolineato che l'unica copia di “Campioni senza valore” in suo possesso l'ha ottenuta scaricandola da internet.

Nella prefazione di Gianni Minà si può leggere una descrizione molto fedele del personaggio in questione: «Un uomo comune, onesto, appassionato, ben certo dei suoi valori, che un giorno, senza cercarlo né volerlo, si trova ad affrontare i più potenti, ad essere l'unico che si oppone ai padroni della ferrovia, a quelli che vogliono inquinare il panorama, la qualità della vita del suo piccolo mondo (l'atletica Leggera, nda), quelli per i quali ogni singolo mezzo è lecito per far prevalere i propri interessi, il proprio profitto. Così la sua lotta spietata, solitaria, diventa senza quartiere. Ad un certo momento si tenta perfino di far passare lui per bandito. Ma questo "omino", senza il fisico e la vocazione del ruolo, riesce alla fine a sconfiggere il male, almeno così sembra».

In questi giorni da redde rationem dell’atletica e dello sport olimpico russo, giova ricordare che Sandro Donati formulò le sue prime accuse al sistema ex-sovietico più di dieci anni fa, quando si trovò a collaborare, tra 2004 e 2006, con la Direzione nazionale anti-mafia, smascherando un giro internazionale di anabolizzanti gestito dalla mafia russa. Il suo lavorò provò inoltre che gran parte del business delle case farmaceutiche in capo a Mosca erano controllate dalla stessa mafia. Un giro d’affari per milioni di dollari e quintali di steroidi che univa Thailandia, Australia, India, Cina, Messico, fino ad arrivare in Grecia e Russia. A tal proposito vanno ricordate alcune circostanze interessanti.

Ad esempio che il 5 dicembre del 2012 il Comitato olimpico internazionale decise di ritirare quattro medaglie di atleti saliti sul podio ai Giochi di Atene 2004 per essere risultati positivi ai test antidoping (steroidi). I quattro atleti sono l'ucraino Yuriy Belonog oro nel peso, il bielorusso Ivan Tikhon, argento nel martello, la bielorussa Irina Yatchenko e la russa Svetlana Krivelyova, rispettivamente bronzo nel disco e nel peso.

Senza dimenticare la fuga di fronte al controllo anti-doping alla vigilia dell’Olimpiade, mascherata da incidente in moto, di Ekaterìni Thànou e del suo compagno Konstantinos Kenteris, semplicemente le due uniche speranze di medaglia nell’atletica del paese ospitante. Uno shock vero per tutto il popolo greco che segnò pesantemente quei giorni e intaccò la credibilità dei Giochi ellenici prima che ci pensasse il conto economico a farli naufragare.

Essere allenatore

Sandro Donati, da consulente della Wada, ruolo che ha abbandonato quando ha accettato di tornare a fare l’allenatore per Schwazer, è legato a tutte le vicende più torbide dell’atletica degli ultimi anni. Ma da accusatore. Fu proprio lui a segnalare Schwazer all’agenzia anti-doping: «La mia decisione ha provocato il danno dello stop, ma ritenevo fosse la cosa giusta. Se fossi stato nell’ambiente non lo avrei mai fatto arrivare a questo punto, lo avrei salvato prima».

La storia della positività di Schwazer porta la procura di Bolzano ad accusare di favoreggiamento al doping tre medici italiani: Giuseppe Teodoro Fischetto, dirigente Fidal e membro della commissione medica antidoping della federazione internazionale (Iaaf), Pierluigi Fiorella, medico e responsabile sanitaria della Federatletica e Rita Bottiglieri, dirigente dell'area tecnica della stessa federazione. Fischetto viene trovato in possesso di un database «che è una sorta di mappa gigantesca che può fare da guida per cercare di ricostruire e risanare l’ambiente». Parole di Donati affidate al blog di Beppe Grillo.

A partire proprio da questo database si è potuti giungere alla scoperta della montagna di corruzione che ha travolto l’ex presidente Iaaf Lamine Diack (ne abbiamo parlato in pezzi precedenti qui e qui) e che giunge proprio in questi giorni all’estromissione dell’atletica russa dai prossimi Giochi olimpici di Rio. Non male come effetto a catena. Va ricordato che Fischetto è stato scagionato dalle accuse di frode in sede sportiva, mentre il processo penale è ancora in corso a Bolzano.

“L’inizio” dello scandalo doping.

Donati è da sempre un sostenitore dei test ematici che secondo la sua esperienza consentono di verificare preventivamente delle anomalie, e se fatti ripetutamente, portano l’atleta sotto esame a diminuire o a interrompere gli usi dei farmaci dopanti. «Ma per un uso attento di questi interventi - scrive sul blog di Grillo - è necessario che i governi aiutino la Wada a creare all’interno di ogni paese delle agenzie autonome. I governi finora sono stati complici delle loro istituzioni sportive di vertice».

Uno dei punti focali del pensiero di Donati infatti è che non ci possa essere uso di sostanze proibite da parte dei singoli atleti senza che dietro non ci sia un appoggio, o almeno un tacito assenso, da parte delle istituzioni. Per lo stesso motivo la sua ultima opera uscita nel 2012 per le edizioni Abele e il cui ricavato è andato a “Libera” di don Ciotti si intitolava Lo sport del doping, chi lo combatte davvero e chi no. Donati è uno che non ha cambiato mai idea: ottenere risultati senza pratiche illecite non solo si può, ma si deve.

Nel 1998 dichiarò al New York Times che nel nostro Paese c’erano «più di 700 medici che aiutano gli atleti a doparsi. Una storia triste che accomuna altri paesi, questa è la storia dello sport moderno. Ma non è sport, è un’altra cosa, come i gladiatori».

Da quando ha detto basta al Coni nel 2006, è stato chiamato a fare il consulente in Francia e in Finlandia, rimanendo ciò che ha sempre voluto essere: un tecnico dell’atletica leggera che ha costruito la sua carriera per rispondere a quell’allenatore dei velocisti che un giorno gli fece notare che «la gente è interessata solo alle medaglie, tu sei in grado di garantirle solo con la tecnica d’allenamento?»

«Tutti coloro che, da anni, propongono la liberalizzazione del doping - spiega Donati - partono dalla constatazione che, fino a oggi, il contrasto si è dimostrato inadeguato e che la convivenza di atleti che lo usano e di atleti che lo rifiutano ha determinato una confusione e un evidente squilibrio nelle possibilità competitive». Secondo Donati, infatti, «anche nel caso di liberalizzazione della pratica, questa non cesserebbe di conservare ampi margini di clandestinità poiché ognuno terrebbe per sé il "segreto" delle proprie combinazioni di farmaci e dosaggi». Ma chi propone di liberalizzare il doping, aggiunge Donati, non fa i conti con «l'effetto di dipendenza determinato da numerose sostanze e farmaci utilizzati per il doping, né considera le interrelazioni e i collegamenti tra doping e droga».

Coloro che assumono dosi rilevanti di steroidi anabolizzanti, aggiunge Donati, «sentono l'esigenza di ricorrere a potenti stimolanti nei periodi di sospensione dei trattamenti con la conseguenza di divenire dipendenti dall'una e dall'altra categoria di farmaci. Più in generale, l'uso sistematico da parte degli atleti di farmaci che iperattivano il sistema nervoso fa crescere il rischio dell'abuso di tipologie di droga sia con effetto compensatorio che con effetto sostitutivo».

Secondo la lettura di Donati, gli stimolanti non fanno gonfiare i muscoli «ma sono trovati nel sangue di soggetti ipertrofici come loro (casi Tyson Gay e Asafa Powell). E poi sono stati trovati in gara e questo significa che gli atleti in questione non soltanto fanno uso di metodi a me sconosciuti per aumentare il volume dei muscoli, perché i muscoli non diventano così gonfi con la pesistica, ma pure di sostanze che stimolano il sistema nervoso. Siamo di fronte quindi a una prestazione artificiale totale, ecco tutto».

In un’intervista a Panorama del 2013 mette bene in chiaro una sua certezza: «I protagonisti mondiali della velocità sono chiari prodotti artificiali già da diversi anni. I giamaicani hanno caratteristiche fisiche e atletiche senza dubbio notevoli, questo è certo. Ma da qui a dominare le corse di velocità come accaduto di recente... Non ci sono precedenti nella storia. Statisticamente è impossibile». Una recente tegola sul movimento caraibico è quello della positività di Nesta Carter alle Olimpiadi 2008.

Gli ormoni anabolizzanti, che hanno una storia trentennale nello sport, modificano la forza in modo così imponente che si apre un baratro con gli altri che non li utilizzano. Discorso analogo vale per le specialità di resistenza in cui l'Epo scava un abisso rispetto a chi non lo assume. Secondo Donati «le Federazioni internazionali cercano di evitare che i loro atleti di vertice finiscano nel fango, questo è evidente. Il problema si risolve se il sistema sportivo capisce una volta per tutte che il doping può servire al fine egoistico del singolo ma non è utile per l'organizzazione in sé. Perché procura soltanto guai e calo della credibilità».

Ma le Federazioni e i Comitati olimpici appaiono sempre un passo indietro rispetto a chi compete in modo fraudolento. Basti pensare che la Wada è nata nel 1999 per volontà di molti governi, compresa l’Unione Europea che ne rappresentava diversi, e del comitato Olimpico internazionale, ed è chiaro che la presenza politica dei governi doveva assicurare una posizione al di sopra e al di fuori di quella prettamente sportiva e quindi l’agenzia mondiale doveva da una parte avere le competenze sportive, dall’altra il potere politico di poter agire.

Donati sostiene che «Nella realtà non si è mai passati a una fase successiva di perfezionamento, per esempio dando all’agenzia mondiale antidoping una veste pubblica, una veste di istituzione pubblica». Invece è un’istituzione privata e come tale ha dei forti limiti operativi: «per esempio se l’agenzia mondiale antidoping decide di andare a fare dei controlli antidoping in Cina, deve passare attraverso la trafila della richiesta dei visti, per cui quei controlli antidoping non saranno mai a sorpresa, tutta la Cina sarà allertata con dei sufficienti giorni di anticipo».

Quando ci accorgemmo del doping.

Facendo un passo indietro, va ricordato che i primi controlli antidoping in assoluto, sostenuti dal Cio (comitato olimpico internazionale) ci sono stati solo dopo che il campione del mondo di ciclismo Tommy Simpson morì in diretta televisiva sulla salita del Mont Ventoux (1967), a causa di un cocktail bestiale di anfetamine. Controlli « solo sugli stimolanti, ma ormai da anni si utilizzavano molte altre sostanze dopanti come ad esempio gli anabolizzanti e il Cio ha atteso la metà degli anni Settanta per iniziare i primi controlli su questi».

L’esordio di Donati alla ribalta della lotta al doping avviene nei primi anni ’80, quando da tecnico federale si accorge della presenza nello staff azzurro di un dottore che propone un metodo rivoluzionario di “trattamento” dell’atleta. I primi capitoli di Campioni senza valore sono dedicati a Francesco Conconi e all’autoemotrasfusione. La strategia usata in genere era questa: l'atleta si allena per alcune settimane in quota o in camere ipobariche dove si creano condizioni simili. La minor concentrazione di ossigeno in altura stimola la produzione di globuli rossi e aumenta l'emoglobina. Dopo il periodo in altitudine, all'atleta viene estratto il sangue (300-400 cc), poi depurato dei globuli bianchi e del siero.

Questo sangue, più ricco di ossigeno (cioè si va più forte), è congelato e conservato in attesa di essere reimmesso nel corpo dell'atleta in prossimità della gara (o durante, in caso di corsa a tappe). I rischi: aumentano densità del sangue e pressione circolatoria, con pericolo di trombosi e danni cardiovascolari. Sono nati così i grandi exploit di quegli anni dell’atletica italiana: i suoi "testimonial" si chiamano Maurizio Damilano, Alberto Cova (il campione europeo 1982 dei 10.000, che ammise di essersi sottoposto ad autoemotrasfusione), il pesista Andrei, la mezzofondista Gabriella Dorio, oro a Los Angeles, i pentathleti d'oro nei Giochi in Usa, il Moser del record dell'ora messicano (realizzato con l' aiuto dell'emotrasfusione, secondo il libro di Donati).

La pratica venne considerata dopante nel 1985 dopo che i parlamentari Ceci e Paoletti presentarono un’interpellanza grazie alle denunce di Donati e il ministro dello sanità Costante Degan lo fece proprio, coniando il termine emodoping. La trasfusione col proprio sangue era a quel tempo così diffusa che si praticava anche su atleti di seconda fascia per ottenere i piazzamenti utili a raggranellare punti nei meeting. Conconi, che continuò a collaborare con lo sport azzurro per anni, sarà anche uno dei padri dell’Epo.

Nel libro Donati racconta di uno dei pochi incontri riusciti ad avere con Primo Nebiolo, ex atleta mediocre poi diventato padre padrone dell’atletica italiana per un ventennio (1969-1989) e a partire dal 1981 anche presidente della Iaaf fino alla morte arrivata nel 1999. In quel faccia a faccia datato 1985, Nebiolo ammonì il tecnico romano: «Lei deve avere una visione più ampia dell’attività della federazione. Mi sono impegnato a far crescere l’immagine dell’atletica, che in precedenza aveva scarsa prese sui mezzi di informazione e sul pubblico. La valutazione del nostro lavoro deve essere globale. Il nostro è come un grande circo nel quale si rischia, tirando il tendone da una parte o dall’altra, che questo cada e si richiuda su tutti noi».

Una figura meschina dimenticata troppo presto.

Emblematico del metodo-Nebiolo è quanto accaduto al Mondiale di Roma del 1987. Il nostro Giovanni Evangelisti vide il suo salto da 7.85 metri diventare in sede di misurazione 8.38. Con quel salto l’italiano si sarebbe messo al collo la medaglia di bronzo in un clima irreale, con gli Stati Uniti inferociti per la medaglia sottratta al loro Larry Myricks. Anche in quel caso fu un esposto presentato da Donati ai carabinieri a far visionare il video del balzo di Evangelisti, dal quale era facile evincere la truffa.

Evangelisti venne scagionato da ogni addebito, seppure stranamente già a novembre dichiarasse che non aveva ricordi di quel giorno. I vertici di Coni e Fidal si dimisero, mentre Nebiolo restò stabile sui due troni.

Il tendone era salvo. Qualunque cosa voglia dire.

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