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LPDC: la coerenza tattica è un limite?
15 apr 2017
Michele ci ha chiesto se la fedeltà ai propri princìpi può diventare un problema. Risponde Emiliano Battazzi.
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5 min
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Buongiorno redazione di UU,

vi scrivo per sottoporvi un filo rosso che penso unisca tre diverse situazioni.

1. Qui Flavio Fusi parla di come il Manchester City abbia "sofferto ogni volta che si è trovato ad affrontare squadre in grado di proporre un pressing di alto livello sia dal punto di vista dell’esecuzione che di quello dell’intensità (si pensi alle gare con Tottenham, Chelsea, Liverpool)".

2. Qui invece D. V. Morrone descrive la difficoltà riscontrata dal Napoli nel costruire una manovra fluida al Bernabeu, vuoi per il medio escenico vuoi per bravura di Zidane.

3. Lo stesso Milan, mutatis mutandis, costruisce sempre l'azione da dietro, senza mai buttare la palla, come da credo del proprio allenatore.

Ebbene, vi chiedo: un allenatore che mantiene i propri principi qualunque sia l'avversario è da lodare per la fermezza di idee o da sculacciare come ha fatto De Laurentiis perché "oh Maurizio cazzo tieni la difesa alta a Madrid"? Parlo, infatti, di una filosofia: Sarri non rinuncia alle proprie idee neanche agli ottavi di Champions, Zidane "quest’anno fa della versatilità – strategica e tattica – un’arma con cui essere imprevedibile, impedendo ai suoi avversari di poter prevedere con esattezza come e in che modo giocheranno. Questo, su una base tecnica che garantisce comunque grande tranquillità alla sua squadra".

Dove sta la verità?

Mi scuso per la lunghezza e ringrazio per l’attenzione.

Michele

Risponde Emiliano Battazzi, caporedattore calcio

Caro Michele,

La tua domanda è molto ambiziosa, ma prima di inerpicarmi sul tuo stesso sentiero, preferisco mettere le cose in chiaro: la verità, semplicemente, non c’è, perché nel calcio nessuno conosce dei metodi in grado di garantire la vittoria sistematicamente. Le filosofie calcistiche, a cui corrispondono stili di gioco, sono solo dei sentieri aperti dagli allenatori per provare ad ottenere un vantaggio competitivo. Per vincere, fondamentalmente, ognuno applica un suo metodo.

Incontriamo gli stessi problemi in moltissimi campi dello scibile umano, ad esempio, in quello economico: non siamo certi che alcune misure aiuteranno un paese a crescere, ci basiamo su simulazioni, modelli, esperienze passate. Non esiste una sola teoria economica (sebbene ce ne sia di solito una dominante) e in alcune grandi università americane si impartiscono addirittura corsi di teoria economica marxista.

Nel suo piccolo, il calcio incontra gli stessi problemi.

Hai fatto riferimento al Manchester City, che in effetti può essere un caso esemplare. Guardiola non riesce ad ottenere i risultati desiderati perché troppo dogmatico? Dovrebbe cambiare qualcosa? Hanno provato a chiederglielo, e questa è stata la sua reazione: «Non sono un romantico, voglio vincere le partite: ma credo che questo sia il modo migliore per farlo». I principi del gioco di posizione in Premier si stanno scontrando con una serie di caratteristiche specifiche molto forti: solo per citarne un paio tra i tanti, l’abitudine al gioco lungo (il City può anche pressare alto, ma molte squadre sono ben contente di lanciare dalla difesa) e l’intensità fuori controllo che rende i centrocampisti quasi dei cavalli pazzi. Adesso tocca a Guardiola adattarsi a un nuovo ambiente e trovare soluzioni tattiche diverse - ma sempre sul solco dei suoi principi di gioco: e ricordando che ci sono una serie di fattori fuori dal controllo degli allenatori. Al Bayern Monaco ci è riuscito (nonostante si dica che vincere la Bundesliga sia facile, sai bene che questa è una banalizzazione da bar), anche se rimane il fatto che avrebbe potuto vincere una Champions League. Fra un paio di stagioni avremo forse una visione più chiara sull’esportabilità di questi principi di gioco, ma nel frattempo è giusto ricordare che Guardiola cambia uomini e formazioni con una flessibilità quasi unica.

Nella tua domanda mi sembra di individuare una contrapposizione tra dogmatismo e flessibilità che è corretta solo in parte. Sono pochissimi i casi di allenatori iperdogmatici che finiscono per sclerotizzare la loro visione: casi tipo Zeman, che dopo lo splendido periodo con il Foggia non è riuscito ad evolversi (ad esempio, gli sono sempre mancati principi di sistematica riaggressione dopo la perdita del pallone) e si è accartocciato sulle stesse idee per più di 20 anni. Un altro possibile caso potrebbe essere quello di Schmidt, esonerato dal Bayer Leverkusen, ma che ancora può dimostrare di sapersi evolvere.

È vero che anche nel calcio, alla fine, sono i risultati a mettere alla prova le idee. Ma il Milan di Montella ha dei limiti molto evidenti e che non dipendono granché dalle idee del suo allenatore: quest’anno i rossoneri hanno 5 punti in più dell’anno scorso. Oppure pensa al Pescara di Oddo, che aveva una proposta di gioco incredibilmente ambiziosa per una neopromossa, ma un livello tecnico e competitivo davvero troppo basso per applicarla in Serie A: non credo che un allenatore più flessibile avrebbe ottenuto risultati migliori. Meglio continuare a seguire i propri principi, sperando che il gioco ti aiuti come una bussola nei momenti di difficoltà, e ti esalti come una scarica di adrenalina nei momenti in cui tutto va bene.

La sconfitta del Napoli al Bernabeu non è figlia del dogmatismo sarriano, bensì del suo opposto: di una squadra che è stata poco fedele ai suoi standard qualitativi con il pallone, e troppo passiva senza, per i motivi descritti perfettamente nel pezzo di Daniele V. Morrone. E proprio quello del Real Madrid è un caso che ci aiuta a collegare lo stile di gioco alla filosofia di un club: la Casa Blanca è abituata sin dagli anni ’50 ad un’idea di squadra all-star, ed ha cercato di replicare spesso questa metodologia nel corso dei decenni. Zidane a me sembra un ottimo interprete di questa filosofia: un allenatore che non impone la propria visione ma si adatta alle caratteristiche della rosa a disposizione (prima di lui uno aveva provato a sovvertire, ed è stato cacciato: Benitez). La storia del Barcellona di Guardiola non è comprensibile senza conoscere la semina di Cruyff: esiste un’identità calcistica, anche se si fa sempre più sfuggente.

Ormai, infatti, le contrapposizioni a cui siamo abituati si fanno sempre più flebili: e così il Barça può giocare a volte un calcio incredibilmente verticale senza quasi passare per il centro del campo; il Real Madrid può pressare altissimo contro il Napoli. I concetti di calcio reattivo vs passivo, associativo vs transitivo, ci aiutano a descrivere bene alcune situazioni di gioco, ma difficilmente possono essere usate come etichette per una squadra. Perché tutti, nel calcio, vogliono vincere, e quindi, anche per i più idealisti, vale sempre questo ritornello: “moriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta”.

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