Luca Nardi non ci crede, scuote la testa, il polsino fosforescente in mano e delle lacrime che nemmeno vogliono scendere. Il pubblico è in delirio perché non capita spesso, di vedere il numero 123 del mondo battere il numero 1. Non capita spesso di vedere un ragazzino di vent’anni battere il suo idolo: il giocatore di cui tiene il poster in cameretta, l’uomo da cui ha provato a copiare i movimenti, lo stile, la mentalità. «Mi sembra un miracolo».
Come è potuto succedere?
Djokovic ai microfoni ha semplificato la questione: «Lui ha giocato molto bene e io ho giocato molto male» certo, ma non può essere così facile. Dietro questo ovvio squilibrio di forma c’è una storia incredibile.
La storia di un giocatore che non avrebbe dovuto giocare questa partita, che non aveva la classifica per giocare il torneo e che non aveva superato la qualificazioni. Nardi era stato battuto in tre set dal veterano David Goffin. Avrebbe dovuto spostarsi a Miami ma ha deciso di restare come terzo lucky loser - questo ruolo strano in cui i tennisti si mettono sul trespolo, pronti a subentrare nel caso in cui un giocatore in tabellone si facesse male. Cinque giorni fa l’argentino Thomas Etcheverry si è stirato e ha dato forfait. Il colpo di fortuna è stato clamoroso, perché nel frattempo Etcheverry era stato accoppiato con un bye: in poche parole accedeva direttamente al secondo turno.
E così Nardi si è ritrovato a esordire a Indian Wells, in uno dei migliori tornei del mondo, con i campi incastrati tra le montagne del deserto, contro Zhang Zhizhen, un giocatore in ascesa, che qualche settimana fa ha lasciato appena due game a Lorenzo Musetti. Nardi, che non aveva mai battuto un top-50, batte il numero 50 al mondo in tre set. Già sembra un mezzo miracolo.
Al terzo turno non era chiaro che versione di Nole avrebbe trovato, visto che non metteva piede in campo dalla sconfitta a Melbourne con Sinner, ma una cosa era certa: non c’era una versione di Djokovic che Nardi avrebbe potuto battere.
Meno di un mese fa Nardi aveva perso al secondo turno del Challenger di Bangalore contro Ramkumar Ramanathan. In uno stadio quasi completamente deserto si era fatto prendere a sassate da questo tennista numero 462 del mondo (miglior ranking 111 nel 2018). A Chennai aveva perso da Nagal (gli indiani sono il suo punto debole a quanto pare), a Montpellier dallo spagnolo Rincon, che su Google accanto al suo nome ha la dicitura “tennis”, per capirci. Ha perso più o meno da tutti nelle ultime settimane: da Sweeny, da Sho, da Mmoh, da Marinkov. Quanti di questi nomi vi dicono qualcosa? Il suo passaggio alle Next Gen ATP Finals ha lasciato traccia solo di una vittoria amarissima contro Cobolli, con entrambi tristi ed eliminati. Prima del torneo aveva ammesso di non aver giocato una buona stagione, «Troppi alti e bassi». Insomma: Nardi stava vivendo un cattivo momento di forma, non c’era nessun segnale di possibile impresa.
Poi è iniziata la partita e abbiamo capito che Luca Nardi poteva sostenere lo scambio da fondo con Djokovic. Non subito: nei primissimi game non riusciva a trovare le misure del servizio, e quando il ritmo si alzava i colpi uscivano verso i corridoi, il braccio surriscaldato. A un certo punto, però, Nardi ha trovato la sua presenza nella partita, si è messo al centro del campo e ha iniziato a muovere Djokovic. È in quel momento che ha scoperto che la versione di Nole che aveva davanti era peggio di qualsiasi previsione. Djokovic falloso, impaziente, stanco e sempre in debito d’ossigeno - come se stesse giocando in altura. Djokovic con un dritto sottosopra, sconclusionato soprattutto in movimento, spostandosi verso destra, una delle armi storiche di Nole. In diversi punti Djokovic è sembrato instabile sugli appoggi, spesso in ritardo sulla palla, e ovviamente nervoso.
Nel quinto game Nardi ottiene il break rimontando dal 40-15. Arrivato in parità approfitta di un altro errore di dritto di Nole, e poi vince un altro punto manovrato, con quella che scopre essere una risorsa importante per l’equilibrio tattico: la palla corta, che sposta Djokovic fuori posizione e lo costringe a fare i conti con degli appoggi incerti - e di certe indecisioni tattiche strane per lui.
Aver vinto il primo set era già un successo. Era un Djokovic malandato, ma i set non si vincono facilmente nemmeno contro la sua versione più deteriorata. Nel secondo set il serbo trova il ritmo degli appoggi, la fluidità del braccio. Il suo gioco si decontrae. Sul set pari la partita pare finita. C'era comunque da essere soddisfatti.
Più o meno un anno fa Luca Nardi sfidava Lorenzo Musetti al torneo di Montecarlo. C’era molto hype su quella partita, perché Musetti era in una delle sue solite crisette, mentre Nardi era lanciato.
A 19 anni era considerato l’ennesima nuova cosa bella prodotta dal tennis italiano. Per quanto i titoli di oggi parlano di un semi-sconosciuto, il nome di Nardi circola da anni tra gli appassionati di tennis. Si diceva di questo giovane con una fluidità di colpi pazzesca, con una facilità disarmante nel produrre velocità da entrambi i lati del campo. Il suo percorso giovanile è stato notevole. Nel 2017, a 14 anni, vince Les Petits As (“I piccoli assi”), uno dei più importanti tornei per ragazzi del mondo. Vince sia il doppio che il singolo. In semifinale gli capita di battere Holger Rune, e qui c’è la partita completa se vi volete gustare la compostezza con cui Nardi gioca a 14 anni.
Di Rune e Alcaraz è coetaneo, e fino a un certo punto non sembrava distante dal loro livello. Nel 2018 però subisce un infortunio alla schiena, il suo punto debole (e non certo solo il suo), e sta 5 o 6 mesi lontano dai campi. Mesi cruciali per lo sviluppo di un tennista. Nel 2019 vince Sharm el-Sheik battendo in finale Pospisil: il primo titolo, a 16 anni. L’Italia produce talmente tanti giovani tennisti che su Nardi non viene messa eccessiva pressione.
A Montecarlo Nardi viene demolito. Musetti gioca con un’intensità agonistica speciale, forse perché sente molto quella partita e la prende come un’occasione per dimostrare qualcosa. I due erano compagni di scuola a Tirrenia. Quando Musetti è ispirato sulla terra c’è poco da fare, ma Nardi perde 6-0, 6-0. Perde in meno di un’ora, mettendo insieme la miseria di 19 punti. Perde una partita in cui non sembra pronto per il circuito ATP. Quella sconfitta pare aver rotto qualcosa, perché nei mesi successivi la sua crescita rallenta. Perde cinque partite consecutive, vince qualche match nei challenger ma si fa battere da altri italiani meno quotati di lui in quel momento (Cobolli, Gigante). Si sussurra persino di un Nardi poco professionale, o comunque poco interessato a eccellere.
E arrivati a quel terzo set, insomma, a Nardi basterebbe fare una figura dignitosa. Però non ha niente da perdere. Certo, c’era qualche rimpianto. Nel settimo game del secondo set si era fatto togliere il servizio in modo bruciante: due doppi falli, una palla corta sbilenca, una demi volée insicura. Galimberti in tribuna gli diceva «Respira, respira». E poi in quell’inizio del terzo c'erano sono state tre palle break sciupate. Non sciupate, ma giocate molto bene da Djokovic, con un servizio vincente e un serve&volley. Nella terza aveva sbagliato un rovescio in rete. In quello stesso game aveva tirato due accelerazioni lungolinea - di dritto e rovescio - che erano la sintesi della sua scioltezza biomeccanica, di come riesca a produrre velocità senza sforzo apparente. La terza l’aveva guadagnata con un pallonetto spettacolare. Era stato un game lunghissimo (quasi 13 minuti) e perdente. Il classico game con cui i campioni lasciano scendere gli sfavoriti in una buca di sfiducia. Djokovic ha agitato il pugno e chiamato il calore del pubblico.
Nardi però sapeva di avere il controllo. In quel game aveva vinto alcuni scambi molto duri, contro un Djokovic più vispo e centrato. C’era la sensazione che era lui ad avere nel braccio i cambi di ritmo letali.
La compostezza con cui Nardi gioca lo scambio da fondo fa impressione. Senza particolari sforzi, riesce a prendere una posizione centrale e avanzata, e inizia a comandare. Non ci sono grossi strappi o fatiche. Il talento di Nardi è quello, invisibile, del tempo sulla palla. I colpi gli partono dal braccio leggeri e naturali. Non possiede la flessibilità elastica di Arnaldi, l’agonismo di Sonego, il talento creativo di Musetti, ma gioca un tennis facile, leggero, offensivo. Fa tutto piuttosto bene. Quando è chiamato a rete il suo braccio è dolce. Sa giocare palle corte, variazioni in back, e in lob. Il suo servizio è piazzato e lavorato. Il pubblico di Indian Wells comincia a cantare “Luca, Luca, Luca!” dopo un paio di ricami nei pressi della rete. Galimberti gli dice «stai vicino», per invitarlo a tenere il punto dello scambio. Nel sesto gioco arriva il break: un’altra accelerazione lungolinea, i piedi dentro al campo, i colpi tenuti profondi, la pressione costante su Nole. Poi qualche tremore, ma non abbastanza per mettere in discussione una vittoria frutto della sua superiorità.
Questa vittoria non è arrivata dal nulla solo perché il talento di Nardi da juniores si conosce, ma perché qualcosa aveva cambiato negli ultimi mesi. Per esempio ha deciso di andare ad allenarsi all'accademia di Cattolica di Giorgio Galimberti, lasciando il Baratoff a Pesaro. In un'intervista a Supertennis Galimberti aveva steso il suo piano per Nardi: fargli giocare un tennis più aggressivo e più intenso, oltre che più preciso tatticamente - «Le ultime sconfitte sono arrivate da game giocati in modo sciagurato». Farlo diventare più rapido nell'uscita dal servizio, e più pronto a prendere in mano lo scambio.
"Biggest upset in tennis history?!" semplicemente no, ci viene da rispondere.
Ai microfoni Nardi era così sconvolto che quando gli hanno chiesto di Tommy Paul, il suo prossimo avversario, ha risposto «Tommy Paul cosa?». Non aveva guardato il tabellone, non conosceva il suo prossimo avversario. Djokovic, però, è sembrato persino più sconvolto. Dopo aver stretto la mano ha rimproverato Nardi per qualcosa successo nel secondo set, la faccia torva. Ai microfoni è sembrato sconvolto, di nuovo, da sé stesso. Ha di nuovo ammesso di aver giocato molto male, un paio di mesi dopo quella conferenza post-sconfitta con Sinner in cui aveva ammesso di aver giocato molto male. Si era detto scioccato, in negativo, dal proprio livello di gioco. I segnali iniziano a essere inquietanti, e lui pare rendersene conto.
Djokovic non sta finendo col logoramento e i tormenti fisici. Il suo invecchiamento è quasi impercettibile, eppure facendo attenzione sembra aver perso un secondo, forse una frazione di secondo della sua velocità. Un pizzico di intensità mentale, meno precisione. Una strana impazienza a uscire presto dallo scambio, in certe situazioni. Contro Nardi ha perso la maggior parte degli scambi che si sono prolungati oltre i 5 colpi. Il tennis è uno sport crudele, soprattutto se hai 37 anni. Basta un lieve rallentamento decimale per perdere il proprio livello competitivo. Non è tempo di organizzare la cerimonia funebre per Novak Djokovic, ma dei dati rimangono: non aveva mai perso con un giocatore così in basso in classifica in un 1000. Un altro giocatore molto giovane, che ha 16 meno di lui, lo ha battuto.
C’è ancora il tempo per altri momenti di gloria e grandezza, ma qualcosa è perduto per sempre nel tennis di Novak Djokovic.