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Lucas Beltran è a Firenze per lottare
18 ago 2023
Chi è il nuovo centravanti di Italiano.
(articolo)
9 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Wire
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Quel che succederà di lì a una settimana, a Madrid, ancora non può saperlo nessuno. Si sa a malapena che succederà a Madrid. L’atmosfera all’Antonio Vespucio Liberti è piuttosto tesa, frustrata: i tifosi del River Plate appendono gli striscioni a testa in giù, in segno di protesta per i disordini del 24 novembre, che hanno fatto sfumare la finale di Libertadores. I cori sono tutti contro la barrabrava, indiziata d’essere la colpevole di quello che in quel momento è ancora uno psicodramma. L’era Gallardo sta vivendo il suo momento più cupo: ma c’è da affrontare il Gimnasia y Esgrima de La Plata a una settimana da un Superclásico storico, dal quale dipenderà ben più di quel che sostiene il claim della Libertadores, la gloria eterna.

Il River scende in campo con seconde linee, gregari, giovani della Reserva. Gioca nientemeno che il figlio di Gallardo stesso, e in panchina ci sono cinque giocatori con la maglia numero trentaqualcosa, tutti prodotti della Primavera. L’unico titolare è Rafael Santos Borré, che segna una doppietta giocando in coppia con uno dei giovani più promettenti, Julián Álvarez. A sette minuti dalla fine, al posto di Camilo Moyada, entra un giovane cordobese con la faccia seria, i capelli e un accenno di barba rosso fuoco. Trova il tempo per partecipare all’azione del terzo gol.

Sul passaggio di Moya, Lucas Beltrán, il cordobese coi capelli rossi – che infatti è soprannominato Vikingo – riceve spalle alla porta. La protezione del pallone, insieme al movimento con cui compie una torsione per orientare il controllo, lo fanno somigliare a una porta scorrevole, di quelle agli ingressi dei centri commerciali, o dei cinema. Bascula ottenendo, in un colpo solo, di contenere un avversario, disorientarne un altro e spalancare la via al gol per il compagno.

«Gioco da centravanti e mi piace vivere per il gol. Non mi mette pressione. Per diventare il centravanti del River Plate devi fare gol. Non ci sono scuse». Le parole sono di Beltrán, che le ha pronunciate tre anni prima di questa partita, quando era un giovane promettente della Sexta. Sognava, ma non immaginava forse, che avrebbe esordito in prima squadra così presto. Perché non è un predestinato, non lo è mai stato.

La Gloria prima della gloria

La Agustina è un complesso ricreativo e sportivo. Ci sono chalet e grosse griglie per l’asado, chiese con guglie gesuitiche, piscine e campi da calcio. Si trova all’estremità di Alta Córdoba, uno dei quartieri più vivi della città santafesina, opposta rispetto all’Estadio Presidente Perón, dove l’Instituto, la squadra che si allena al centro de La Agustina, scende in campo.

«A me piace molto il gioco di Paulo Dybala», dice Beltrán a quattordici anni, poco prima di lasciare l’Instituto. Ha già chiaro cosa vuole diventare, ha scelto il suo referente. «Scende a cercarsi la palla per giocarla, anche a me piace più passare il pallone che fare gol». Dybala è il suo mito, un mito intimo. Aggiunge: «Mi sembra il giocatore al quale somiglio di più».

Paulo Dybala ha vissuto per un certo periodo a casa Beltrán. Walter, il capofamiglia, lavora come amministrativo dell’Instituto Atlético Central Córdoba. Santiago e Federico, i fratelli più grandi di Lucas, giocano nelle giovanili – Federico arriverà a debuttare tra i professionisti, proprio al fianco di Dybala. Lucas va agli allenamenti della prima squadra, porta le bottiglie d’acqua al fratello e ai suoi compagni. Gioca a calcio a sette, come centrocampista: lo chiamano torito, come il pugile del racconto di Cortázar (in italiano Fine del gioco), perché che vuoi farci, secco, quando stai sotto le incassi da chiunque. Poi, quando inizia a calcare il campo regolamentare, viene reinventato nueve. Mi viene da dire che la sua maniera di interpretare il ruolo di centravanti sia in parte da centrocampista, o forse sarebbe meglio dire da boxeur, cioè da uno che le prende tanto quanto le dà. Forse è per questo che Gallardo ha deciso di farlo esordire, di concedergli spazio: perché sapeva immolarsi.

E poi, ho come l’idea che dalla frequentazione dei fratelli maggiori abbia insegnato la resilienza tipica dei piccoli tra i grandi, a essere uno di poche parole, l’umiltà. Beltran ha quattordici anni: i pari categoria del River salgono sulle sierras cordobesi per affrontare l’Instituto, e Beltran brilla. Juan José Borrelli, ex giocatore con un passato in Grecia, si muove subito per portarlo a Núñez. Non ci vede del talento, forse, non solo: intuisce la sua intima poliedricità.

L’Instituto è una società piccola, sempre piena di debiti. Non riesce a trattenere i suoi talenti più fulgidi: Dybala viene venduto al Palermo, Gonzalo Maroni al Boca, Beltrán al River. Certo, lo cercano anche gli xéneizes, ma suo fratello Santiago, tifoso dei Millonarios, minaccia di non andarlo mai più a vedere giocare casomai scegliesse il Boca. Quando si trasferisce nella pensione del club Millonario, divide la stanza con Julián Álvarez.

Essere un nueve del River

«Chi sono i miei punti di riferimento? Mi piace Higuaín per la maniera in cui si muove e conclude dentro l’area. Segna da tutte le parti», dice ancora Beltran. Essere un nueve del River ha significati molto diversi: c’è un prima e un dopo, e lo spartiacque è l’avvento di Gallardo. Crespo, Higuaín, per certi versi Radamel Falcao sono già stati centravanti molto mobili, lontani dall’archetipo del centravanti d’area. Ma è con Gallardo e con i vari Driussi, Alario, Santos Borré e Julián Álvarez che il nueve del River ha cominciato a essere un centravanti che gioca spalle alla porta, difende il pallone, partecipa al gioco della squadra, si allarga per tagliare in diagonale all’interno dell’area ma poi sa anche definire a rete, letale, brutale: in parte sembra quasi essere un orpello, segnare, che però per osmosi diventa naturale, quasi inevitabile. Lucas Beltrán è quel tipo di nueve, un po’ lumpen, un po’ gregario, mai smargiasso che svaria per tutto il fronte d’attacco, contribuisce al gioco della squadra, pressa gli avversari, li snerva, li intralcia, li sfinisce. Ma è anche un attaccante da 0,75 xG per partita, uno che insomma il gioco contribuisce a crearlo ma che ha anche le sue occasioni.

Non è per niente semplice, marcare Beltrán: non dà punti di riferimento, è così presente nella manovra da finire per sembrare evanescente, fin quando la sua concretezza non si abbatte sulla porta avversaria come un bolide, o una palla demolitrice. De Michelis, che ha ereditato il River da Gallardo ed è stato così intelligente da non snaturarlo, si è allora trovato in dote un centravanti che ha saputo non far rimpiangere Julián Alvarez, che di Julián Alvarez ha certe movenze. «Può darsi che a forza di condividere così tanti momenti siamo finiti per copiarci a vicenda», scherza lui. A differenza di Julián Alvarez, però, Beltran non è un talento predestinato, oppure semplicemente non ha avuto exploit eclatanti.

Gallardo, per non soffocarlo, lo ha mandato per un semestre in prestito al Colón: al Sabalero ha avuto la fortuna di condividere il campo con un carrillero offensivo dribblomane come Facundo Farías e un trequartista geniale come la Pulga Rodríguez.

Beltrán era la sostanza accompagnata dal talento e dal genio. Come si fa allora a non immaginarlo devastante al centro di un attacco in cui a spalleggiarlo ci saranno Ikoné e Nico González? Come si fa a non pregustarlo già negli schemi fluidi di Italiano a tagliare in diagonale verso il centro dell’area, che è il suo luogo deputato, a intercettare, a contropressare gli avversari?

Ugualmente a Retegui, per esplodere Lucas ha dovuto abbandonare la squadra blasonata (il Boca, o il River nel caso di Lucas) per trovare la sua dimensione in provincia (al Tigre, o al Colón nel caso di Beltrán); eppure, diversamente dal Boca con Retegui, il River ha fatto carte false per riaverlo nelle sue fila. E la fiducia di Gallardo prima, e De Michelis poi, è stata ripagata.

Oggi Lucas è quel tipo di centravanti che tira quasi 3 volte a partita, ma che soprattutto ha saputo imporsi nella Liga Argentina come uno tra i dieci migliori recuperatori di palloni nella metà campo offensiva (in media recupera 2,5 palloni a partita). E poi segna – 12 gol nell’ultimo campionato, vinto dal River – ma in maniera mai banale, attaccando il palo, in anticipo, prendendo in controtempo gli avversari, tirando al volo. Quando è in stato di grazia, Beltrán sa davvero essere implacabile, come in questo fulmineo inizio contro l’Estudiantes:

Uno degli aspetti più interessanti del suo gioco, non appariscente ma tremendamente efficace, è la maniera in cui muove il corpo nella fase preparatoria al tiro, come in questa rete proprio contro l’Instituto, oppure qui, contro il Godoy Cruz, quando in due mosse manda fuori giri la difesa e conclude in maniera chirurgica.

Ma anche come usa quello stesso corpo per proteggersi dal ritorno del difensore, come il mantello di un supereroe, come una coperta ignifuga su un fuoco acceso, come il plaid che appoggi d’inverno sulle spalle della donna che ami sul divano. In maniera più profonda di quanto possa sembrare, il suo corpo è attestazione e rivendicazione di presenza: e non sempre la presenza in quel punto del campo è scontata. Lo è, se sei un centravanti con i tempi nel tuo codice genetico. Lo è, se sai essere dove ci si aspetta tu sia.

Certo, dodici reti segnate in Liga Argentina non fanno di Lucas Beltrán Gabriel Omar Batistuta, e per fortuna neppure Diego Latorre, quindi è normale nutrire qualche dubbio su come potrà tradursi la sua interpretazione del ruolo immersa nel contesto della Serie A, a maggior ragione in una città – Firenze – che ha già visto passare sotto la Fiesole tanto Ramón Diaz quanto "Il Re Leone". In fin dei conti, poi, sono gli stessi interrogativi che circondano l’arrivo di Mateo Retegui al Genoa. Beltrán e Retegui si somigliano tantissimo, in effetti, specie nella misura in cui si presentano come il nuovo prototipo di nueve argentino, tutto movimento e sacrificio prima che forza fisica e cinismo.

«Ci siamo trovati bene con cinque centrocampisti», ha dichiarato Beltran al termine del campionato vinto con De Michelis per la prima volta sulla panchina de la Banda. «Quando gioco come unico punto di riferimento devo arrangiarmi, devo pressare, devo essere più mobile rispetto a quando ho un compagno di reparto, che mi aiuta a pressare i difensori rivali e mi permette di muovermi in una maniera diversa». Tutte dritte di cui Italiano potrà fare tesoro.

Nella sua Fiorentina, Beltrán dovrà lottare per un posto da titolare con Jović e Nzola, ma potrà anche contare sull’appoggio di Ikoné e Nico Gonzalez, i suoi nuovi Solari e Nacho Fernández; il che non significa che sarà esentato dal lavoro sporco a cui è abituato, e che nel contesto della Serie A potrebbe renderlo tra i nuovi arrivati il più utile, il più funzionale. La domanda centrale, che verrà sciolta quando inizierà a giocare con la Fiorentina, però rimane: quanto distruttivo saprà essere per le difese avversarie? Impossibile sapere la risposta adesso, che si può solo assaporare l'aspettativa che ha già iniziato a ronzargli intorno. Da questo uomo di poche parole, rosso come il leggendario re svedese Bjorn Ragnarsson, detto Fianco di Ferro - attaccante refrattario alla fumosità, con l’espressione di chi non ha voglia – nonostante i cordobesi siano tra gli argentini più proni allo scherzo e alla risata – che di essere concreto, ecco, è bene che Lucas Beltrán lo sappia. Non ci si aspetta niente di meno che la devastazione che portarono i vichinghi quasi milletrecento anni fa, quando si spinsero fino alle colline di Fiesole.

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