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Dare a Spalletti quel che è di Spalletti
31 ago 2022
Con la fama del "perdente di successo", ma con meriti che fatichiamo a riconoscergli.
(articolo)
13 min
(copertina)
Foto di Gabriele Maltinti / Getty Images
(copertina) Foto di Gabriele Maltinti / Getty Images
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Non è stata un’estate semplice, per il Napoli. L’addio già digerito di Insigne, quello passato sotto (eccessivo?) silenzio di Ospina, l’estenuante e strappacuore telenovela Mertens, quindi la bomba di Koulibaly al Chelsea. Eppure, qualche giorno fa, per un’amichevole contro la Juve Stabia che rappresentava solamente un modo per mettere alla prova le gambe dei nuovi acquisti Ndombelé, Raspadori e Simeone, al Maradona si sono presentati in quarantamila. Certo, lo show di Kvaratskhelia nelle prime due giornate di campionato ha inciso, così come lo sforzo di mercato degli ultimi dieci giorni da parte della società. Ma se attorno al Napoli si sono diradate improvvisamente quelle nuvole di pessimismo che avevano cinto la volontà di ricostruzione portata avanti dalla società azzurra, c’è un altro motivo, anche se non molti amano ammetterlo.

È un motivo complesso, di difficile lettura, un mistero che la nostra Serie A ha conosciuto per la prima volta 25 anni fa. Avevamo appena abbracciato l’arrivo di Ronaldo, Roberto Mancini aveva lasciato la Sampdoria per iniziare il suo ciclo alla Lazio, Francesco Totti prendeva possesso della maglia numero 10 della Roma dopo anni passati tra 20 e 17, Roberto Baggio decideva di ripartire da Bologna per dare l’assalto al Mondiale del 1998. E una neopromossa, l’Empoli, aveva come guida tecnica il 38enne Luciano Spalletti. In quella Serie A 1997/98 si sono accomodati in panchina, tra esoneri vari, 26 allenatori. Con l’eccezione di Carlo Ancelotti, per cui il tempo che passa non sembra una faccenda preoccupante, Spalletti è l’unico ancora in sella a una panchina di uno dei cinque principali campionati europei. È un mistero umano del quale, volta per volta, pensiamo di aver finalmente scoperto qualcosa, tessere di un enorme mosaico che iniziano a svelarsi sotto i nostri occhi man mano che lo scopriamo mentre gli altri tasselli si sgretolano e ci confondono le idee.

Chi è davvero? L’uomo che cerca il silenzio anche negli stadi più rumorosi, in quegli istanti lunghissimi in cui con lo sguardo perso nel vuoto prova a trovare la concentrazione per risolvere un problema tattico o per far sbollire un cattivo pensiero? Quello capace di prendersi pause profonde, anni sabbatici che diventano bienni, per poi ripresentarsi come se nulla fosse in panchina, tirato a lucido, quasi non avesse mai interrotto il proprio cammino? Oppure quello che si commuove parlando degli spaventapasseri che dominano la sua tenuta in Toscana? Uno, nessuno, centomila Spalletti.

Il paradosso del piazzato

In principio fu Sven Göran Eriksson. Arrivato in Italia giovanissimo, a soli 36 anni, grazie a una brillante intuizione di Dino Viola, era stato il primo a essere etichettato come “perdente di successo”: poco importavano alla critica i suoi successi in Portogallo, con un biennio al Benfica nel quale aveva portato la squadra in finale (persa) di Coppa Uefa e vinto due campionati perdendo soltanto tre partite in due anni. Alla guida della Roma, nel suo secondo anno in giallorosso, aveva creato un meccanismo quasi perfetto, con un’applicazione della zona a dir poco innovativa per l’epoca, e perso un campionato fuori da ogni logica: una rimonta disperata nei confronti della Juventus, l’aggancio a tre giornate dalla fine, quindi il tracollo in casa, contro il Lecce già retrocesso, in una partita che per il tifo romanista rappresenta uno di quei marchi di sofferenza così brucianti da essere mostrati quasi con orgoglio.

Foto di Gabriele Maltinti / Getty Images.

Era stata quella la base di un appellativo non offensivo ma certamente sgradevole. Come può un perdente avere successo, come può continuare a essere scelto da squadre che dovrebbero avere ambizione? Il biennio alla Fiorentina dopo i tre anni romanisti aveva consolidato questa idea, acuita ulteriormente dal quinquennio come tecnico della Sampdoria: la Coppa Italia vinta nel 1994 era stato un palliativo e sono in molti, tra i tifosi doriani, a sostenere che in quella stagione la Samp avesse tutto per contendere e strappare lo scudetto al Milan. L’etichetta era poi caduta alla Lazio, con un ciclo vincente al quale mancò comunque l’acuto in Champions League. Proprio in quegli anni, mentre Eriksson se ne liberava, toccava a Carlo Ancelotti indossare i panni del perdente di successo, soprattutto a causa dei due campionati persi in volata con la Juventus contro Lazio e Roma. Ricordare ciò che ne è seguito è fin troppo semplice, ma all’epoca Ancelotti dovette convivere con ingiurie ben peggiori.

Ora, dopo il primo anno di Napoli, in una piazza che sa essere allo stesso tempo calorosa e martellante, incendiaria e tremendamente esigente, Spalletti inizia a sentire con insistenza quella definizione. Per paradosso, non gli era successo nella sua seconda esperienza romanista, quella in cui, nell’anno degli 87 punti raccolti, si era fermato a 4 lunghezze dai 91 della Juventus e, soprattutto, aveva lasciato andare la stagione in due settimane da incubo, sbattuto fuori dall’Europa League contro il Lione e compromettendo in maniera fatale il cammino in Coppa Italia, perdendo 2-0 il derby d’andata in semifinale. Era una Roma fortissima, con l’alternanza Szczesny-Alisson tra campionato e coppe in porta, con il miglior Nainggolan di sempre, Strootman tornato a livelli molto simili a quelli della «lavatrice» devastante del suo primo anno italiano, un Edin Dzeko capace di issarsi a quota 39 gol stagionali, vette mai toccate neanche quando era il padrone del Wolfsburg insieme a Grafite. E poi Salah, destinato a diventare uno dei migliori giocatori al mondo. Ma la rabbia per le due eliminazioni nelle coppe era stata annientata dalla polemica suprema che ha avvolto la carriera di Spalletti, quella con Francesco Totti, un tormentone che continua a riaffiorare in ogni intervista.

Luciano Spalletti non ha mai vinto un campionato in Italia. Lo ha fatto in Russia, due volte, alla guida dello Zenit, diventando allo stesso tempo icona e meme, a torso nudo in mezzo alla tormenta per festeggiare il titolo oppure reagendo male alle interviste dei bordocampisti russi. Ma in Italia mai. In compenso, è il tecnico che può vantare il maggior numero di piazzamenti in zona Champions tra quelli che non hanno mai vinto lo scudetto: ben nove, uno con l’Udinese, cinque con la Roma, due con l’Inter, uno con il Napoli. Il terzo posto dello scorso anno, arrivato dopo un inizio di stagione in cui gli azzurri sembravano di un altro pianeta, è stato percepito dai più come un fallimento. Ma prima dell’avvio del campionato, avremmo effettivamente pronosticato un Napoli da scudetto? Spalletti ha perso un’occasione o ha semplicemente tradito le aspettative che il suo stesso lavoro aveva creato?

È un confine sottile, ma di sicuro ha finito per consolidare la figura di un allenatore a cui, nel nostro campionato, è sempre mancato il colpo di reni. Ma Spalletti rimane un tecnico di vertice e in un’epoca come questa, in cui gli introiti della Champions League per le società rappresentano un obiettivo irrinunciabile, anche superiore alla vittoria di una Coppa Italia, si ritrova a essere un paradosso: quello che per i tifosi può rappresentare un problema, per i presidenti è invece una risorsa. La certezza di avere un cavallo che magari non vincerà, ma che nonostante tutto si piazzerà: un assegno circolare da tenere nel comodino, per stare tranquilli. E magari per progettare tempi migliori.

Costruire, inventare, rigenerare

Spalletti, così ferocemente legato alla terra, è diventato dunque l’uomo chiamato a preparare il terreno. È così che l’ha utilizzato l’Inter: due quarti posti in fila, acciuffati per il rotto della cuffia ma comunque preziosissimi, in una fase essenziale di semina. Se c’è un pregio che anche i più feroci detrattori di Spalletti devono riconoscergli, è la capacità di rigenerare calciatori, lavorando sulla loro testa e sulla posizione in campo. Ci si fossilizza troppo spesso sulla geniale trasformazione di un fuoriclasse come Francesco Totti, e sulla conseguente valorizzazione sotto porta di Simone Perrotta, trascurando altri capolavori: lo straordinario rendimento avuto da Nainggolan nei panni di incursore alla Roma, il lavoro per sgrezzare difensivamente Emerson Palmieri, l’invenzione di Diego Perotti centravanti nell’anno in cui si era trovato a raccogliere le macerie tecniche ed emotive lasciate da Rudi Garcia, l’abilità nell’immaginare un futuro diverso per Marcelo Brozovic. Quando Spalletti è arrivato all’Inter, il croato stava scivolando in quel limbo che imprigiona i senza ruolo: un po’ trequartista, un po’ mezz’ala, un po’ tutto e un po’ niente. Era praticamente già salito su un aereo per Siviglia nel gennaio del 2018, quando Spalletti decise di bloccarne la partenza. L’arrivo di Rafinha convinse il tecnico a provare Brozovic nella coppia di mediani del suo 4-2-3-1, impiegandolo stabilmente da regista per un anno e mezzo e agevolando così la definitiva esplosione del croato agli ordini di Conte.

E Aurelio De Laurentiis, quando ha dovuto scegliere l’erede di Gattuso, forse ancora scottato per quel passo falso con il Verona che era costato l’accesso alla fase a gironi di Champions League, ha deciso di non rischiare. In una conferenza stampa che preannunciava l’arrivo di Spalletti, De Laurentiis aveva tracciato già le linee guida dei due anni successivi: per questo motivo lo stupore estivo per la rifondazione azzurra appare bizzarro. «Dobbiamo far quadrare i conti e tornare in Champions. Il tifoso vuole vincere e basta, lo capisco, non ci sono logiche societarie: per fortuna poi c’è chi a freddo lo capisce. […] Siamo passati da 30 milioni di stipendi a 156: bisogna sanare questo problema. Il Napoli spende cifre che non fattura e deve rivedere il foglio paga dei calciatori. Bisogna portare il club sui binari giusti. […] Se alcuni calciatori avessero giocato di più dei cinque minuti effettivi, forse si potevano vendere meglio. Dovrò parlare con il mister per le strategie, prima vendere e poi comprare, essere una sorta di giocoliere finanziario, un aspetto che i d.s. non riescono a fare: io mi reputo un atleta dell’imprenditoria», raccontava ai giornalisti con quel modo di fare che i tifosi del Napoli fanno ancora fatica a digerire a distanza di tanti anni dal suo arrivo.

E allora Spalletti, la soluzione perfetta. L’uomo che avrebbe riportato il Napoli in Champions, abbassando il monte ingaggi e valorizzando quegli uomini che in azzurro sembravano persi nel nulla. Diventava necessario recuperare il patrimonio dei quasi 21 milioni di euro sborsati per Lobotka, dare un senso ai 14 spesi per Rrahmani, provare a non disperdere i 51 milioni complessivi investiti per Lozano ed Elmas. Spalletti si è messo a lavorare con la mente fresca di chi per due anni si era dedicato in apparenza soltanto ad asini, struzzi e galline, o a sistemare con cura la sala in cui ripone le magliette raccolte nel corso di decenni di carriera. Il rinnovamento della rosa non c’è stato subito e così il tecnico toscano ha avuto modo di illudere Napoli e il campionato intero: l’avvio con otto vittorie consecutive ha fatto pensare che quella squadra potesse davvero spezzare l’incantesimo tricolore. Ma la consistenza del sogno è beffarda per sua stessa natura e il Napoli si è sciolto proprio quando aveva dato l’impressione di avere una pasta diversa dal passato. La sconfitta nello scontro diretto contro il Milan una manciata di giorni dopo aver raggiunto un successo di pesantezza inaudita in casa della Lazio, reagendo all’ultimo pallone utile con Fabian Ruiz dopo il pareggio di Pedro arrivato all’88’; e poi le tre vittorie consecutive con Verona, Udinese e Atalanta, clienti antipatici da affrontare mentre tutti intorno borbottano sulla tua tenuta. Tutto all’aria in 14 giorni: sconfitta in casa con la Fiorentina, pareggio con la Roma sempre al Maradona, quindi il disastro perfetto di Empoli, troppo brutto per essere vero.

Spalletti non è un uomo diplomatico. Nel momento più difficile della scorsa stagione, gli è stato fatto trovare uno striscione in cui si suggeriva la possibilità di ritrovargli la Fiat Panda, che gli era stata sottratta tempo prima, a patto che se ne andasse. È il prezzo da pagare per un tecnico che viene ritenuto troppo aziendalista, troppo vicino alla voce del padrone. Aveva risposto cercando di minimizzare l’accaduto, di nascondere quella che inevitabilmente deve aver vissuto come una piccola ferita personale: riportare il Napoli in Champions League non era bastato per conquistare tutti i tifosi azzurri e non a caso, nelle settimane a venire, Spalletti ha puntato molto l’indice su questo traguardo centrato. Un successo personale e di squadra, l’ennesima opera di rigenerazione di giocatori che parevano persi per la causa Napoli: se oggi Rrahmani ci sembra un leader credibile per la difesa del Napoli anche senza Koulibaly, se per Lobotka si scomodano paragoni importanti, non bisogna dimenticare dove erano questi giocatori prima dell’arrivo di Spalletti. I tifosi del Napoli e qualche addetto ai lavori gli imputano una lettura non sempre eccelsa della partita, cambi che arrivano fuori tempo: normale amministrazione, capita a ogni allenatore, lo sa bene Simone Inzaghi appena travolto dalle critiche per la sua gestione in Lazio-Inter.

Eppure di Spalletti ci si ricorda di un cambio più di altri, l’ingresso di Davide Santon per Mauro Icardi a 5 minuti dalla fine di Inter-Juventus, nell’aprile 2018: erano i giorni in cui Napoli vedeva lo scudetto così vicino quasi da poterlo toccare, dopo aver violato il fortino dello Stadium con una capocciata di Koulibaly. L’Inter era passata dal 2-1 al 2-3, colpita al cuore da Cuadrado prima e Higuain poi. Una sorta di peccato originale che si è portato dietro a Napoli, tirando fuori il tema non appena l’occasione lo richiede.

Anche adesso, che il Napoli sta vivendo la sua vera annata di ricostruzione, avendo perso pezzi importantissimi, c’è chi gli rinfaccia di avere pasticciato con i cambi dopo un pareggio ottenuto a Firenze, partita dalla quale è uscito con un punto soddisfacente e con le orecchie martoriate dai tifosi della Fiorentina che, per sua stessa ammissione, non hanno fatto altro che gridargli che la madre è una maiala.

Instant classic.

Si è già messo al lavoro per modellare una squadra rinnovata negli uomini e in parte anche nei principi, in cui Kim si è calato con personalità al centro della difesa. Il passaggio al 4-3-3, anche se il triangolo di centrocampo del Napoli è sempre pronto a rovesciarsi in un 4-2-3-1 ed è comunque estremamente fluido nel corso della partita, pare aver aumentato le responsabilità offensive di Anguissa, capace di proporsi anche al limite dell’area avversaria con una padronanza che lo scorso anno, complice la presenza di uno strepitoso stoccatore dai 20 metri come Fabian Ruiz, neanche avremmo immaginato.

A Firenze Spalletti gli ha anche chiesto di affiancarsi a Osimhen nei momenti in cui voleva andare a prendere la costruzione bassa del centrale di sinistra della Fiorentina, Martinez Quarta: questo perché il Napoli, che come lo scorso anno basa la sua forza sul controllo del pallone, rispetto alla prima stagione spallettiana sembra più proiettato all’aggressione alta, a ricacciare la paura provata quando la sfera ce l’hanno gli altri reagendo con un istinto più feroce nella riconquista. E nel passaggio da Insigne a Kvaratskhelia, Spalletti ha trovato un esterno meno regista e più proteso verso la porta. Il georgiano sa essere sfacciato nell’uno contro uno e a Firenze ha messo in mostra anche una giocata “alla Insigne”: il cross confezionato per la testa di Lozano avrebbe meritato epilogo migliore.

Se fino a un mese fa immaginavamo il Napoli un passo indietro rispetto al campionato appena concluso, e a distanza siderale dal trio Milan-Inter-Juventus, adesso questo pessimismo cosmico pare quantomeno aver perso parte della sua forza. E il merito, oltre che dei nuovi acquisti e di due vittorie arrivate con metà degli italiani ancora in riva al mare, è di un tecnico che riesce ad abbinare allo stesso tempo visione e pragmatismo, massime folgoranti e grandi silenzi, divisivo come pochi altri allenatori nella storia recente del nostro calcio. Un mistero umano che abbiamo iniziato a conoscere 25 anni fa e del quale, probabilmente, non abbiamo scoperto ancora granché.

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