“Freddino oggi, non trovi?”
“...perché mi devi fare questo, Kyrie?”
“È solo una constatazione, amico.”
Le mattine nel Distretto 73 sembrano non finire mai. Il sole sorge, sempre alle 6:30, e sta attaccato alla lattiginosa volta celeste esattamente dodici ore. È così e basta. I più vecchi talvolta alzano lo sguardo rassegnati e lo ricacciano giù di colpo. La loro mente è attraversata da quel ricordo, lo stesso che tormenta i loro incubi, una delle tante cose di cui nel 2060 è vietato parlare.
Kevin e Kyrie vivono in un appartamento ovale alla periferia del Distretto, leggermente sopraelevata rispetto alle altre. Possiedono un enorme televisore che non guardano mai, un sistema che pompa acqua corrente e un impianto di riscaldamento. L’abitazione ha un certo lusso post-apocalittico. Dalla finestra possono vedere solo baracche e ancora più in là, dove la luce trova un varco nel cielo plumbeo, quella che sembra una delle loro città. Alti pinnacoli neri come guglie gotiche sovrastano una distesa di radici nere che si incastrano a perdita d’occhio.
“Perché lo fai, davvero”. Kevin non riesce a tenere un profilo basso, in barba alle regole del regime. “Ogni giorno te ne esci fuori da quella camera con un ‘Freddino oggi’, ‘Bella giornata oggi’. Mi vuoi provocare? Dillo che lo fai apposta”.
“Ma..”, Kyrie sogghigna, mentre dà le spalle al coinquilino.
“Ma cosa? È sempre tutto uguale! Qui, ad Ayeshaborough, a Nuova Davidson, a Rileyland, a Dell City, a Santa Sonia, in ogni buco che ti possa venire in mente da qui a un migliaio di chilometri. E io li ho visti tutti credimi. È quella merda che bevi che ti sta facendo impazzire e...”. Kevin d’un tratto non riesce più a trovare parole, il respiro mozzato. Kyrie poggia la sua Curry-Cola su una mensola di ferro arrugginita e si toglie dalla tasca una lunga siringa colma di un liquido dorato.
“Kevin stai calmo, è un’altra delle tue crisi, passerà” gli sussurra all’orecchio mentre inietta il liquido nella martoriata vena femorale dell’amico.
Il battito e il respiro si fanno regolari. Kyrie si abbandona alla sua poltrona amaranto, residuo di un’epoca gloriosa che non tornerà più. Kevin Love ha 72 anni ma ne dimostra almeno una novantina. Il viso segnato, la muscolatura inflaccidita e i rigogliosi capelli riccioluti trasformati in paglia secca e rada. Fa male vederlo così, pensa Kyrie. In un singolo, veloce movimento getta uno straccio a brandelli verso l’occhio giallo che li fissa dal fondo dalla stanza.
“La mano è ancora buona” esclama compiaciuto, e altrettanto velocemente tira fuori da uno scomparto nascosto della sua poltrona un vessillo sbiadito. Una di quelle bandierine allungate che distribuivano ai tifosi per creare un’atmosfera di festa e insieme di intimidazione per gli avversari. È oro, vinaccia e bianca, gli angoli rosicchiati da qualche topo che infestava la zona. Non leggeva quella lingua da decenni, ma nella sua mente pregusta questo momento da così tanto tempo che le parole escono sicure, senza la ruggine del tempo: “NBA Finals 2016: #GoCavs” recita il cimelio, e con esso Kyrie.
Le sirene risuonano stridule per tutto l’isolato, a breve qualche Stephatron avrebbe sfondato la porta con un braccio meccanico. Quel giochino della telecamera gli sarebbe costato caro, ma in quei dieci secondi Kyrie Andrew Irving, nato a Melbourne il 23 marzo del 1992, prova una sensazione sparita da quel mondo distopico e repressivo: la libertà. Guarda Kevin forse per l’ultima volta e un sorriso gli taglia le labbra stanche. Se ne vanno, finalmente, senza rimpianti. L’incubo è finito.
Altrove
In un punto corrispondente alla vecchia città di Billings, Montana, una quarantina di miglia sotto terra, la Resistenza ha organizzato la sua base operativa. Il 1° Silver è il battaglione d’èlite della fanteria pesante, l’unico negli ultimi cinque anni a infliggere danni diretti alla capitale nemica, Curryville. Il sacrificio in termini di vite e risorse era stato devastante, ma si trattava di qualcosa in più che un semplice lanciare un messaggio al Regime. L’attacco aveva danneggiato il sistema di comunicazioni, e tutte le unità stanziate nelle Americhe si erano mosse all’unisono per liberare città lontane dal comando centrale, per un breve periodo prive di difese adeguate.
L’operazione fu un successo, ma le ritorsioni non tardarono ad arrivare. Cinque basi sotterranee vennero individuate e incendiate dalle tecnologie del Regime. Migliaia di uomini perirono come bestie intrappolate, bruciate vive. Da quel momento il generale della 1° venne messo in discussione. Da eroe di guerra a capro espiatorio: troppo presto per un attacco frontale, troppe variabili impazzite nel nostro sistema difensivo.
Con un golpe venne detronizzato e rinchiuso nelle segrete. Gli uomini al comando non se la sentirono però di giustiziarlo: la sua leadership e la memoria storica che si portava addosso come un fardello potevano essere ancora utili alla Resistenza. Si decise, all’unanimità, di creare un giorno commemorativo del passato ante-bellico. Il vecchio generale usciva dal suo antro e si prestava alle domande delle reclute militari, giovani diciottenni pronti ad immolare le proprie vite per la causa.
Ogni singolo minuto della vita di LeBron Raymone James era dedicato alla preparazione di quella giornata. Era pronto, come sempre, a mostrare le crudeltà, l’inganno, il disincanto, l’ingenuità, la barbarie di ciò-che-era-stato. Si avvicinò, solenne, al palco che era stato preparato per lui. Accarezzava dolcemente i due anelli preziosi che indossava solo ed esclusivamente per questa occasione. “Devo raccontare la verità”, pensava, “e la speranza nel futuro. La speranza è la cosa più importante”. I ragazzi attendevano in silenzio.
Poi parlò.
“Quand’ero giovane tutti vedevano in me l’erede di un altro grande giocatore, si chiamava Michael Jordan. Ora è solo un gioco dimenticato, il basket, ma un tempo sapeva attirare morbosamente le persone. Le aspettative che mi misero addosso sin da quando ero ben più giovane di voi a tratti mi seppellivano. Era come cercare di liberarsi da una fanghiglia profonda. Nessuno lo vide perché io non avevo intenzione di crollare pubblicamente. Così andavo avanti, arrancando, tra le critiche, finché una di queste cose che porto alle dita non mi salvò dalla gogna. Esisteva un complesso meccanismo di, come dire... telecamere, impianti audio, un mezzo fantastico ma crudele a disposizioni di tutti - lo chiamavamo Internet - in cui ogni mia giocata, ogni mia intervista veniva dissezionata da persone esperte o anche solo da semplici appassionati, ragazzi come voi. Su questo Internet circolava una teoria divertente col senno di poi, secondo cui io stesso sarei stato un androide geneticamente modificato. Questo è ciò che rende la storia di come siamo arrivati a questo ancora più paradossale.
Be’, Lui è stato più furbo di me. Ha sempre scelto un profilo basso, per quanto possibile. Sì è vero, la storia la sapete tutti, si è generato figlio di un giocatore di basket. Ma in una città tranquilla, senza i riflettori addosso. È maturato, silenziosamente, in un istituto di istruzione superiore, dei luoghi in cui si studiava, detti College. Non era ancora pronto per la sua fase finale ma già mostrava segni inquietanti. Sempre con quel paradenti in bocca che masticava per reintegrare l’energia dispersa. Ma noi tutti lo scoprimmo solo più tardi.
Era ancora esile, quasi un bambino, i giornalisti si compiacevano nella gara di chi l’aveva scoperto prima. “The Baby-Faced Assassin” era il suo soprannome, non invecchiava mai perché le sue cellule si rigeneravano 4.000 volte più velocemente di quelle di un essere umano.
Lui si è creato una bella storia strappalacrime. Quello ignorato, l’ultimo della classe, che tutti snobbano e poi invece esplode d’un colpo. I tifosi lo adoravano proprio perché la sua storia era avvicinabile a quella di un uomo comune, il suo stesso fisico non trascendeva i limiti dell’umanità. Per gli standard del basket era un normodotato, così si sentiva in giro all’epoca. Stenterete a crederci lo so, ma gli umani del passato si focalizzavano molto sull’aspetto esteriore, sulle cosiddette apparenze. Questo ha contribuito a costruire il predominio psicologico e la presa progressiva dell’immaginario del tifoso.
In pochissimi anni si è preso un posto che era mio nell’Olimpo del basket, quello del giocatore più forte del mondo. E non credete che io provassi invidia, perché tutto ciò che sentivo per Lui all’epoca era ammirazione, come tutti. Stava portando avanti una rivoluzione: il miglior tiratore che il mondo avesse mai visto. Era semplicemente incredibile vederlo giocare.
Il primo dubbio mi sorse mesi dopo, vedendolo in un momento in apparenza ludico. Mentre rilasciava un intervista colpì con un asciugamano un compagno pronto a gettargli scherzosamente dell’acqua sul viso. Non si era mai girato e il compagno era tre metri dietro, nascosto da diverse persone. Centrò perfettamente quel bicchiere. Era come se avesse avvertito la sua presenza e il pericolo imminente.
Questo è il motivo per cui non siamo mai riusciti a cogliere di sprovvista Lui e la sua razza, non prima di aver disattivato le celle sensoriali tramite cui percepiscono ogni variazione dell’atmosfera. I suoi riti pre-partita intanto divenivano una sorta di culto, più importanti della partita stessa. Circolava ovunque materiale multimediale che magnificava le sue doti. A ben poche persone all’epoca venne il dubbio che la sua coordinazione e la sua percezione delle cose fosse qualcosa che aveva ben poco a che fare con il pianeta Terra. Era semplicemente un fenomeno e come tale andava glorificato.
Poi, nel mezzo della sua vittoriosa campagna che filava come un raggio laser, ci fu un imprevisto. Un residuo di quella forma imperfetta che si era lasciato alle spalle. Inscenò un infortunio al ginocchio nella città di Houston, Texas. Non più le caviglie, che il supporto di un’azienda finanziata dagli alieni avevano contribuito a rendere infrangibili. Le sue scarpe erano ai piedi di tante persone ormai, un altro dei tasselli di un perfetto puzzle insolvibile.
Ritornò qualche settimana dopo, nella meravigliosa città di Portland, Oregon. Nel solito prepartita calciava i palloni sorridendo, senza fatica, e ha passato i primi sei minuti di gioco a riscaldarsi su un antico macchinario detto bicicletta. Quello che accadde quella sera fu l’inizio della fine. Fino ad allora si viveva come sospesi in un idillio senza termine e Lui, proprio quel giorno, decise di fare la sua prima, vera, uscita. Non che durante quel maledetto 2016 non si potesse capire che qualcosa non andasse. La saggezza del vecchio ottantenne che vi parla è frutto di errori, di scelte sbagliate, di una guerra maledetta. La scambierei volentieri con una sola, singola, opportunità di cambiare le cose. Il nostro amato pianeta aveva tanti problemi al tempo: che la minaccia principale alla nostra sicurezza arrivasse da un campo da basket era un pensiero folle e assurdo.
Quando prese quel rimbalzo offensivo quasi calamitandolo alle sue mani, di spalle, alla cieca, io ero insonne da un pezzo nel salotto della mia casa ad Akron. Stavo vedendo la Storia, si disse dopo, come tanti altri in quel momento. Ma quale storia ci aspettava davvero? Mentre vivevo quella partita intensa, una delle più belle che io abbia mai visto, il commentatore fece un’osservazione che mi lasciò di pietra: “È normale. Ti sembra semplicemente che... Stephen Curry stia facendo una cosa normale”. Tremendamente vero. Era solo un altro dei record che Lui stava per battere, con la facilità con cui voi prendete le Zed-Pills la mattina.
Certa gente impazziva. Altra si disperava. La gamma di emozioni era sconfinata, ma con una grande caratteristica comune: lo sgomento. L’impossibilità di agire in qualche modo per arginare l’inevitabile. E quando questa peculiarità si trasferì dal lasciare di stucco il Moda Center - così si chiamava quell’arena - al distruggere metropoli con il solo movimento di un dito, tutti volemmo cullarci nell’illusione che non si poteva prevedere. Ma la verità è che pure dopo quella prestazione disumana ne tessemmo le lodi. Ne parlammo agli amici. Divorammo i frammenti di quella pazzia con ingordigia. Sembrava non bastasse mai.
Perché non bastava più. Era la nostra droga. L’irreale era divenuto possibile. Le potenzialità di ciò che si poteva fare si ampliavano a dismisura come in un ventaglio di superomismo.
Sono tornato, Lui lo urlava alla gente impietrita. “Sono tornato”. Se solo avessimo capito che il suo ritorno riguardava una prospettiva più ampia... Dopo circa quaranta giorni Lui batté sonoramente anche la mia squadra. Durante l’ultima partita, la Quicken Loans Arena era semi-deserta. La gente non se la sentiva di affrontare il rischio della pioggia di asteroidi imminente. Se ne stavano tappati in casa, pregando che i governi del mondo trovassero una soluzione. Chi era presente quella sera ebbe di fronte la Realtà, senza filtri. Non era tornato. Era appena arrivato”.
Un rumore tremendo rimbombò in quel momento tra le pareti rocciose. Qualche urla soffocata dava l’allarme dalla piazza principale e si mischiava penosamente con le urla di dolore di quelle reclute che non erano morte nel crollo. Stretto nella morsa dei detriti, LeBron chiuse gli occhi e pianse, per la prima volta, le lacrime che si teneva dentro.
Era così dolce il lasciarsi andare.