
L’ultimo tocco, quello prima dell'epifania, è di Angelito Correa.
È un passaggio in orizzontale, che sembra una frase masticata: potenzialmente brillante, ma pronunciata al momento sbagliato, disturbata da un rumore, da un attimo di disattenzione dell’interlocutore. In quell’istante Luis Suárez ha un metro di svantaggio su Diakhaby, ma è sempre, nel profondo, in fin dei conti, Luis Suárez. E l’abbozzo di invettiva si sta per trasformare in punchline. Il tocco di esterno destro è una carezza, e al contempo una scudisciata tagliente: il 9 dell’Atleti ha già preso un metro al centrale avversario, ora gli serve solo un altro tocco, leggero, per addomesticare il pallone, prima di infilare Cillessen.

Foto di David Bustamante / Getty
Il gol del momentaneo 1-0 dell’Atleti al Mestalla, contro il Valencia (in una partita che finirà rocambolescamente 3-3) è il settimo stagionale, in 12 partite finora giocate. Il 172esimo, complessivamente, in Liga, e l’ennesimo dei 162 segnati da dentro l’area di rigore. È un manifesto, ma anche l’ulteriore smentita a una vulgata - più acrimoniosa che realmente convinta - che lo vorrebbe invecchiato, svanito, non-già-più-lui. I tre quarti dei gol segnati in Spagna, Suárez, li ha messi a segno di prima. Un solo tocco, per ribadire l’essenzialità scarna, minimalista, bahausiana dell’Essere Un Nueve. Questo con il Valencia no, nel microcosmo intimo delle reti di Luis Suárez rientra nel 25% dei gol che hanno avuto bisogno di un aggiustamento, di un attimo di calma, il suo personalissimo modo di domare un’esprit de l’escalier che non gli appartiene, o non gli appartiene più.
Luis Suárez riflessivo? Ponderato? Lo avreste mai detto? È questa, quindi, la sua nuova vita?
In un articolo per El Mundo, Carlos Guisaola ha scritto «Il Padrino pt II è molto meglio della pt I. George Clooney è più affascinante ora di quando aveva la metà degli anni. Julio Iglesias è diventato padre a 89 anni». Il sottotesto, ovviamente, era: Luis Suárez non può vivere una seconda giovinezza - o meglio, un periodo di raggiante splendore, encore?
Poco più di un mese fa, il 2 Ottobre, l’Atletico ha ospitato al Wanda Metropolitano un Barcellona in versione Speed, con Koeman senza patente come Sandra Bullock e pericolosamente vicino allo scendere sotto le 50 miglia orarie.
Al 43’ l’Atleti recupera un pallone sulla sua fascia sinistra, poco fuori dalla propria area di rigore. Lemar avvia una transizione fulminante, box-to-box: dopo uno scambio illuminante con Joao Félix serve, sulla parte opposta del campo, Luis Suárez che arpiona il pallone con il destro, due passi, lo accarezza col sinistro, due passi ancora, e giustizia Ter Stegen.
Uso il termine giustizia, un po’ tra i denti, masticandone tutto l’amaro della retorica, certo però di restituire al gesto del Pistolero l’esatta posizione nel mondo. È pacifico che il novanta per cento delle motivazioni, Luis Suárez, l’abbia sempre cercato - e trovato - nella vendetta. A Liverpool, dove ha speso l’ultima stagione - dopo aver chiaramente detto di volersene andare - a dimostrare che fosse meglio dell’intero club che rappresentava. A Barcellona, dove nella gerarchia del talento partiva - nella migliore delle ipotesi - dai tornelli in cui cominciava la fila per salire sul podio. E dove le scorie delle dinamiche che ne hanno determinato l’addio, sei anni più tardi, in qualche modo, gli sono ancora rimaste in circolo nel sangue.
Dopo la rete congiunge le mani sopra la testa. Chiede scusa. Luis Suárez caritatevole? Mortificato? Lo avreste mai detto?
Poi però mima una chiamata al telefono. Le telecamere inquadrano Koeman, in tribuna, impegnato in una telefonata che lo rende visibilmente alterato.
È una perfetta coincidenza scenica, che sembra chiudere il cerchio. A pensarci bene, tutto ciò che c’è di bello, e di brutto, nell’ultimo anno di Luis Suárez ha a che vedere con un telefono. Qualcosa di poco più grande di un pacchetto di sigarette, che appena hai un momento libero lo accendi. Qualcosa che può farti stare infinitamente bene, o infinitamente male.
La luce è quella di un crepuscolo maggiolino, vallisoletano. Luis Suárez se ne sta seduto, sul prato verde, al centro di uno stadio deserto. In mano tiene uno smartphone, la cover tempestata di foto (di parenti, immagino, di bambini: foto che fanno stare bene, come quelle sui pacchetti di sigarette preannunciano, al contrario, quanto potresti stare male). Guarda lo schermo e piange: ma non sono lacrime di delusione, perché quel giorno si sta compiendo, ancora una volta, la sua espiazione.

Foto di Josè Breton / Getty Images.
Ha appena vinto La Liga 2020/21, alla prima stagione all’Atletico, dopo l’abbandono di Barcellona, anche se in realtà la vittoria vera potrebbe essere arrivata una settimana prima, in casa, contro l’Osasuna. A tre minuti dal termine il “Pistolero” ha segnato la rete del 2-1, in rimonta. I compagni lo hanno rincorso, trascinato a terra, sommerso. Poter contare sull’aiuto, sulla stima, sull’appoggio di qualcuno, per Suárez, è stato sempre - per metà - superare i propri, di problemi.
Quando a fine partita gli hanno chiesto se si aspettava che potesse essere così sofferto, il successo finale di una Liga a lunghi tratti dominata, ha risposto «lo dicono tutti, quando si parla di Atlético Madrid. Ma non pensavo così tanto». In realtà si stava solo beando, perché in quella sofferenza, in quel sacrificio, in quella brodaglia malmostosa di senso di rivalsa, Suárez naviga senza bisogno neppure di consultare le mappe.
O chissà che il sigillo non fosse già arrivato, in nuce, come una promessa impossibile da disattendere, scritto con inchiostro simpatico che si sarebbe disvelato alla lunga, già alla prima giornata, quando neppure quarantotto ore dopo aver firmato è sceso in campo per gli ultimi 23 minuti della partita contro il Granada. Oddio, sceso in campo: abbattuto con la furia devastatrice di un Dio scontroso e piccato, verrebbe più da dire.
Dopo neppure un minuto aveva già servito un assist a Llorente. Nei rimanenti 22 aveva colpito un palo, segnato due reti, fornito un altro assist. Guadagnato un rigore annullato poi dall’intervento del VAR.
A fine partite era uscito calpestando lo stemma dell’Atleti, e Vitolo lo aveva sgridato. Più che una disattenzione dettata dallo straniamento dei primi giorni, metaforicamente, quel gesto sembrava dire che il Pistolero avrebbe fatto morti e feriti, avrebbe calpestato tutto e tutti.
Che disfarsene, per il Barça, potesse essere stato uno dei più grandi errori di sempre - per il posto di più grande in assoluto non c’è competizione - non è stata comunque una rivelazione tardiva.
I giornalisti spagnoli non hanno fatto che rinfacciarlo, a Koeman, per tutta la stagione scorsa. «Me lo chiedete sempre, quando segna», si schermiva l’allenatore culé. Il problema, però, è che ogni settimana, o quasi, era la settimana buona affinché il dubbio riaffiorasse.
Il problema non è tanto che il Barça se lo sia fatto sfuggire, perché ogni era ha un compimento naturale, le storie d’amore finiscono, non è mai - necessariamente - per sempre. Il problema: è dove hanno lasciato che andasse. E come.
«Sono felice qua», ha detto Suárez, a fine stagione scorsa, «perché mi sento apprezzato. La gente pensava che fosse facile, giocare a Barcellona e segnare 20 gol. Beh, non è facile. E sono felice di aver dimostrato che c’è merito, in quello che ho fatto. Che posso giocare ancora nell’élite. Non solo con i migliori giocatori del mondo al mio fianco».
Cronaca di un addio annunciato, ma i modi Dio mio.
L’Uruguay ha tre milioni e mezzo di abitanti. Eppure è il terzo Paese, nella storia della Liga, per giocatori apportati al campionato, dopo Argentina e Brasile. Uno di questi è stato, nell’ultima decade, tra i cinque migliori attaccanti al mondo. E una delle punte di diamante di uno dei club più prestigiosi al mondo.
Nel 2014, poco dopo i Mondiali e l’approdo di Suárez al Barça, scrissi un longform su di lui che si intitolava “Espiazione”. Mi chiedevo: «cosa ci fa, oggi, Suárez al Barcellona? Quella culé è la squadra dei buoni per eccellenza. Di Messi. Di Xavi e di Iniesta. I bravi ragazzi. C’è spazio per il peccato, incastrato tra le righe blaugrana?».
Di certo ci sono state 4 Liga, 4 coppe, una Champions League. E poi: una telefonata di un minuto, dopo sei anni. Un minuto. In un minuto puoi:
- segnare come lette tutte le mail arrivate nell’ultima settimana che già sai non essere importanti
- caricare il telefono del 5%
- lavare i piatti in cui hai fatto colazione
- caricare una lavatrice
- guardarti allo specchio e sorridere
- chiamare qualcun* e dire «ti stavo pensando, mi manchi, ti amo»
- oppure chiamare Luis Suárez e dirgli «ciao, sono il coach, non fai più parte dei nostri piani, adios».
Tre giorni prima che Ronald Koeman liquidasse al telefono Suárez, Bartomeu lo aveva definito intoccabile. Dopotutto stiamo sempre parlando del terzo miglior marcatore nella storia dei culé. Del secondo giocatore più pagato della rosa. Dell’uomo che più di ogni altro ha stretto un legame, dentro e fuori dal campo, con Lionel Messi. Appunto.
I cali di rendimento, il ginocchio malandato, la débacle di Lisbona contro il Bayern: tutti pretesti. Il contratto di Suárez prevedeva un’estensione automatica nel caso in cui avesse giocato il 60% delle gare stagionali del Barça. E Bartomeu non aveva la minima intenzione di vederlo ancora in blaugrana. Si era convinto che i mal di pancia di Messi, i burofax, i tentennamenti sulla sua permanenza, dipendessero anche dalla presenza di Suárez.
Quindi: Ronald Koeman alza il telefono. Non è il mandante delle volontà, ma il mero esecutore materiale, quello sì. Gli impedisce di allenarsi con il resto della squadra, ma allo stesso tempo di rimanere a disposizione. Gli fa capire che anche lui sarebbe contento se trovassero una soluzione per separarsi senza troppo spargimento di sangue, ma anche che nel caso in cui non fosse possibile, beh, per l’esordio con il Villareal lo convocherebbe. Lasciandolo marcire in panchina.
In mezzo ci sono le trattative frenetiche tra gli avvocati di Luis e quelli della società, un viaggio a Perugia, un esame all’Università per ottenere una cittadinanza italiana che lo avrebbe aiutato a scappare da Barcellona, magari verso Torino. E le lacrime, poi. «Piangevo per quello che mi toccava passare», dice oggi. «Non credevo troppo al club quando mi diceva che stava cercando di trovare una soluzione perfetta per entrambi». «Mi facevano allenare al campo 3, come se avessi 15 anni. Mi dava fastidio». «Mi ha fatto male la maniera in cui hanno fatto le cose. Uno deve accettarlo, i cicli finiscono». Il fatto è che il Pistolero si è sentito dimenticato troppo in fretta. Ma - soprattutto - disprezzato.
Perché quello che c’è stato tra Suárez e il Barça, nell’estate del 2020, non è stata una separazione: è stato un rifiuto. «Avresti meritato di andartene come uno dei più importanti giocatori nella storia del club, non cacciato a calci in culo come hanno fatto», avrebbe scritto Messi, su Instagram, a trasferimento concluso. Definendo la mossa della sua società, già meno sua, una locura, una pazzia. «Ma la verità è che, a questo punto, non c’è più niente che mi sorprenda».
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Suárez ha lasciato Barcellona nell’estate in cui se Messi non lo ha fatto è stato solo per evitare un contenzioso legale.
Alla conferenza stampa d’addio, indossando un abito discutibile, Suárez ha pianto. Ma non era commozione, non del tutto. Era rabbia. A un certo punto dice: «Non se ne va solo un giocatore, ma un essere umano, che ha sentimenti», lasciando intendere che in quel momento, forse, gli ultimi ad aver chiaro che Suárez avesse uno stato d’animo lacerato potessero essere proprio i dirigenti del Barcellona.
A Simeone, di poterlo accogliere all’Atleti, non sembrava neppure vero. Lo aveva definito «magnifico, tremendo, straordinario, forte, aggressivo, intenso». «Il miglior numero nove in purezza che una squadra possa desiderare». Andrea Berta - e l’inettitudine della dirigenza blaugrana, va detto - glielo stavano consegnando tirato a lucido, impacchettato, rovente di vendetta. Nelle clausole contrattuali per la rescissione c’erano indicate un paio di destinazioni che gli erano precluse: Real Madrid, Manchester City, PSG. Non c’era l’Atletico. A nutrire senso di rivalsa, ora, erano in due.
Sempre in Espiazione scrivevo: «se in Suárez non fosse affiorata, nel corso degli anni, quella particolare predisposizione a dare svolte sempre drammatiche alla sua carriera, forse quella che oggi mi troverei a raccontare sarebbe una storia fatta di successi, di passi avanti, di realizzazioni sportive e personali».
Stavolta, la svolta narrativa necessaria, però, l’ha impressa qualcuno al di fuori di lui. E non intendo dire che sia per forza un male. Il risultato non cambia.
«Cosa ho da rimproverarmi?», risponde a una delle domande in conferenza stampa, con gli occhi lucidi. «A me?...», e ammicca a Bartomeu. L’elefante in quella stanza aveva scritto, inchiostro rosso sull’epidermide rugosa: io non ho niente da rimproverarmi, io.
Suárez è un po’ il Larsen di Raccattacadaveri di Juan Carlos Onetti: quando il sogno di aprire finalmente il bordello a Santa Maria si sta realizzando, l’ambizione massima della sua vita sta trovando un compimento, ecco sopraggiungere un’opposizione strenue, puritana, conservatrice. Nessun uomo è più importante della morale. Deve averlo pensato anche Bartomeu. In quel momento Larsen - e il Pistolero - vengono nuovamente respinti ai margini, in quella che Elias Canetti chiamava «la provincia dell’uomo».
Gravissimo è l’errore di non sapere - o fingere di non sapere - che in quelle lande, Suárez, come il gaucho nell’isolamento della pampa, affila la lama del suo Facón nelle notti di luna piena.
Rivoluzione, evoluzione
Che la prima stagione di Suárez lontano da quella che era diventata una zona di comfort potesse iniziare così bene - il miglior inizio, nelle prime dieci partite con l’Atleti, della sua carriera - trascende anche ogni più roseo desiderio di Luisito stesso. E la stagione in corso non smentisce il senso di rinnovato vigore.
In fin dei conti, per quanto appesantito dalle lune che compiono i loro cicli, Suárez non è così cambiato: l’istinto, che nel corso degli anni è diventato meccanica, acquisisce nuove sfumature, nuove realizzazioni. Cambia la sua maniera di farsi trovare all’appuntamento con la finalizzazione, i suoi movimenti. Ma l’istinto: quello è innato.
La maniera in cui si è sbarazzato di Diakhaby nell’ultimo gol - al momento - in Liga ne è testimonianza. Ed è lo stesso topoi in cui lo abbiamo visto eccellere per tutta la stagione scorsa: qua con Albiol, oppure qua con Mitrovic (in entrambe le reti) fa esattamente la stessa cosa. Cioè afferma la propria presenza, tangibile: si rivela ai suoi marcatori. Ma poi svanisce. Li sfiora, come il tocco freddo di un fantasma, e quando ti volti, un po’ spaventato, beh, lui non c’è già più. Perché ha preso le distanze. La misura. Il suo posto al mondo. Quello in cui fa più male.
Ha perso mobilità, ma raffinato i posizionamenti. Ogni passo, in campo, sembra calibrato in virtù della capacità - e volontà - di esserci. E se sembra che non stia facendo nulla, a parte aggirarsi per il campo come fosse zoppo: ecco, invece sta facendo ciò che è più importante.
Luis Suárez, in questa fase della sua carriera, sta sintetizzando le sue prestazioni. Le sta portando a quel livello di minimalismo in cui si stabilisce un rapporto inversamente proporzionale tra spettacolarità ed efficienza. Al termine del girone d’andata della Liga 2020/21 aveva collezionato 16 gol, giocando da titolare 17 partite. Le 16 reti erano il frutto di 22 tiri in porta, un capolavoro di capacità di conversione, un manifesto di semi-infallibilità.
A fine stagione, i 21 gol complessivi erano frutto di 98 tiri, un tasso di concretizzazione del 42%. Numeri sui quali Suárez si è assestato anche questa stagione, in cui ha segnato già 7 reti con 11 tiri in porta.

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Simeone, probabilmente, non si aspettava questi risultati. Sapeva che avrebbe potuto contare su un giocatore capace di portare scompiglio nel roster offensivo colchonero, un giocatore che avrebbe alzato l’asticella della competitività, non solo con il suo status quo ma anche con la sua motivazione, la capacità di resistere agli acciacchi dell’età, la sua, in una parola, attitude. Credo non si aspettasse, soprattutto, di trovarsi nella posizione di ingegnare un impianto di gioco che potesse assecondare la resilienza di Suárez, e in Suárez stesso trovare un coadiuvante alla propria resilienza.
L’Atleti ha cambiato, non radicalmente ma in maniera piuttosto percepibile, il suo stile di gioco. Ha cominciato a puntare di più sul possesso di palla, a pressare più alto, ad alzare le linee per creare uno humus di gioco che potesse concorrere alla deflagrazione delle potenzialità offensive del Pistolero.
E Suárez, finalmente intabarrato nell’affetto, nella considerazione, finalmente capace di sentirsi caudillo, ha ricambiato prendendo per mano i compagni, guidandoli, presentandosi in quelle porzioni di campo in cui la presenza di un pallone pronto a insaccarsi nella rete è un’urgenza, un grido disperato, acuto.
Per spiegarmi meglio, andiamoci a vedere il gol dell’1-0 contro l’Elche, a una settimana dal Natale 2020.
Quando Carrasco passa il pallone a Lemar, Suárez e in linea con i tre difensori avversari. Corre con la testa rivolta al compagno, verrebbe quasi da dire che lo telecomanda, lo guida con la voce. Lemar appoggia a Llorente, che è proprio alla sua destra, e il movimento che Suárez compie, quasi di disillusione, facendo basculare le braccia contro il busto, in realtà è il segnale convenzionale: sa che ha fatto scattare il trigger, ha imboccato la manovra che infatti scorrerà velocemente verso la fascia destra, dove Trippier, di prima, appoggerà al centro dell’area. Ora, con quei trenta centimetri di vantaggio sui tre difensori, Suárez è esattamente dove ci si aspetta che sia, cioè a pettinare il pallone, di prima, con la suola destra, per vederlo scivolare in rete.
Simeone non ha mai avuto bisogno di reinventarlo, di per sé. È molto più facile goderselo, così com’è. Suárez, oggi più che mai, appartiene a quella specie - in via d’estinzione, e forse per questo più meritevole di salvaguardia - di giocatori la cui narrativa si svolge esclusivamente dentro le quattro linee di gesso che delimitano l’area di rigore. È diventato, ancor più che precedentemente, un elemento estraneo, alieno al di fuori della manovra offensiva, addirittura al di fuori della trequarti avversaria.
Ma dentro al suo piccolo mondo, beh, Suárez non c’è gesto che non sia capace di compiere: tirare, in prima istanza. Di destro, di sinistro. Concludere. Di testa. Ma anche farsi largo con l’uso del corpo, addomesticare palloni, smistarli.
Il suo gioco, però, quello sì che Simeone ha dovuto rimodellarlo. I contrattacchi bruschi, gli strappi in transizione offensiva, sono diminuiti. Ha disegnato una squadra più focalizzata sul controllo di palla, sulla difesa alta, sull’assembramento nella metà campo avversaria. «Lo accompagnano e sostengono, i compagni, affinché possa essere la miglior versione di se stesso», ha detto Simeone.
Il beneficio, dopotutto, è stato non solo mutuo, nella relazione Simeone-Suárez, ma si è esteso a tutti gli uomini d’attacco, si è fatto diffuso. Questo perché giocare costantemente nella metà campo avversaria ha fatto sì che Griezmann, Correa, Lemar, lo stesso Carrasco, potessero combinare, vedersi accompagnare dal resto della squadra, senza sentirsi abbandonati a loro stessi. E Koke, il capitano, ora impegnato da centrale insieme a Llorente, ha trovato una nuova chiave al suo gioco, più indirizzato sulla fluidità.

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Anche se non siamo mai stati abituati a prendere in considerazione le sue sfumature tattiche - probabilmente, neppure Suárez stesso lo ha mai fatto - dobbiamo scendere a patti con il fatto che il suo stile di gioco, oggi, è molto più intelligente. Sottile, semplice, se vogliamo, ma massimamente efficace.
Dopo un ottimo mese di Ottobre è rimasto a secco per una manciata di giorni. In due partite in Liga, ma anche e soprattutto nella doppia sfida con il suo passato, il Liverpool, in Champions League. Come se si trattasse di un blocco emotivo, Suárez ha fronteggiato - e forse pagato, un po’ in ritardo - un calo di tensione dopo un anno intero giocato a livelli stratosferici. Forse si è esaurito anche un po’ il combustibile della rivalsa.
Ma è stato un periodo transitorio, e molto breve: è subito tornato in rete, una doppietta che ha permesso all’Atleti di rimontare la capolista Real Sociedad. E poi a Valencia, dando il là a una gara che sembrava chiusa e che è invece poi finirà in parità.
In Espiazione mi dicevo che «scrivere di Suárez è una trappola». Credo lo sia ancora. «Nella sua storia non c’è niente di edificante: ad ogni brutto episodio ha sempre fatto da contraltare un miglioramento nella sua carriera. Più il fardello della sua cattiva considerazione, delle accuse, dell’odio, della condanna si appesantiva, più Suárez - come se si trovasse all’altro estremo della corda che passa intorno alla carrucola - si elevava».
La narrativa di Suárez, in fin dei conti, passa sempre da questo snodo fondamentale. E il fatto che riesca a uscire elevato da ogni situazione pregna di disprezzo, in qualche modo, non ne fa di certo un martire, ma l’epitome di una forza di volontà capace non tanto di trascendere, quanto di sublimarne, il talento.