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Dario Vismara

L’ultimo passo è il più difficile anche per Doncic

Le NBA Finals hanno mostrato cosa gli manca per vincere il titolo.

Le NBA Finals hanno un modo tutto loro di mettere ogni giocatore davanti ai propri limiti, come fossero il boss finale di un videogioco particolarmente punitivo. Sarà per la pressione che arriva dall’esterno, per le maggiori attenzioni che l’ultima serie dell’anno comporta anche in termini mediatici (visto che gli occhi sono puntati solo su una serie), o perché il traguardo in grado di definire un’intera carriera sportiva è a un passo, ma inevitabilmente i difetti più grandi di ogni giocatore vengono esposti al mondo intero sul palcoscenico più importante. E succede anche se ti chiami Luka Doncic e sei uno dei migliori esseri umani sul pianeta Terra a giocare a pallacanestro.

 

Doncic ha due difetti a fronte di innumerevoli e innegabili pregi: la difesa e il controllo dei nervi, che spesso si sfoga nel rapporto con gli arbitri. Purtroppo per lui e per i Dallas Mavericks, entrambi i problemi sono state esposti in maniera evidente nel peggior momento possibile, ovverosia in gara-3 della serie contro i Boston Celtics nella quale dovevano necessariamente vincere per riaprire i giochi dopo aver perso le prime due gare al TD Garden. Nella partita più importante della sua carriera fino a quel momento, Doncic ha mostrato la peggior versione di se stesso sia in termini difensivi che nel controllo delle sue emozioni, che molto spesso finiscono per andare di pari passo.

 

Già in gara-2 i suoi problemi nel contenere le penetrazioni degli avversari erano diventati argomento di discussione sulla TV nazionale, ma in gara-3 hanno raggiunto un livello preoccupante perché sono diventati altro, cioè mancanza di impegno. Sin dal primo tempo l’atteggiamento di Doncic è stato stranamente svagato e disinteressato per una partita da affrontare invece con la disperazione di chi deve evitare di finire sotto 0-3 nelle NBA Finals. Non appena un paio di fischi non sono andati in suo favore, ha completamente perso il contatto emotivo con la situazione, andando alla ricerca di fischi e di conseguenti lamentele invece di rientrare in difesa.

 

 

 

I Mavs erano partiti forte in gara-3 toccando anche il +13, ma hanno visto evaporare tutto il vantaggio dopo che questi due tentativi di Doncic di prendere fallo cadendo per terra sono valsi 5 punti dall’altra parte per i Celtics, che hanno potuto così superare la prima mareggiata della partita.

 

Doncic non è mai stato né mai sarà un grande difensore: non ne ha i mezzi atletici né, a dirla tutta, è quello che gli viene richiesto in campo. Ma ci sono delle gradazioni di grigio tra non essere un grande difensore e rimanere piantato a terra quando ti stai giocando il primo titolo NBA della tua carriera. Nei due quarti centrali di gara-3 ci sono state almeno sei occasioni in cui i Celtics hanno segnato e Doncic non ha dato assolutamente nulla in campo, rimanendo completamente fermo: se ci fosse stata una persona qualsiasi che sta leggendo questo articolo sarebbe stata esattamente la stessa cosa.

 

 

 

Col senno di poi, il terzo quarto di gara-3 è stato il momento in cui i Celtics hanno vinto il titolo, creandosi un cuscinetto di 21 punti che ha permesso loro di resistere anche alla furiosa rimonta dei Mavs nel quarto periodo. Una rimonta alla quale Doncic non ha potuto partecipare compiutamente perché a 4 minuti dalla fine ha commesso il sesto fallo della sua partita, andando a sedersi in panchina. Non è questa la sede per decretare se fosse o non fosse fallo il sesto su Brown, ma che Doncic si sia ritrovato in quella situazione è figlio del fatto di non aver difeso per tutta la partita. E se non difendi sei maggiormente suscettibile ai falli, specie quando vieni puntato senza pietà dagli avversari a ogni occasione possibile.

 

Nell’immediato post-partita della terza gara il giornalista di ESPN Brian Windhorst si è fatto esplodere in diretta televisiva criticando Doncic come probabilmente nessuno aveva mai fatto così esplicitamente, quasi sfidandolo ad avere un atteggiamento vincente e di usare l’umiliazione di gara-3 come momento per imparare dai suoi errori.

 

Il rant di Windhorst ha dato il via a 48 ore in cui l’intero dibattito sulle Finals si è concentrato sulla difesa di Doncic, forse il primo momento in cui i media hanno davvero messo nel mirino lo sloveno, fino a quel momento trattato mediamente coi guanti dai network televisivi.

 

La mancanza di impegno difensivo e di sforzo mentale di Doncic ha anche l’effetto collaterale di sgonfiare emotivamente i suoi compagni di squadra, che in quel terzo quarto in particolare sono andati di pari passo con il loro leader facendosi sotterrare dai Celtics. Ogni squadra in un modo o nell’altro finisce per assomigliare al suo miglior giocatore, ma per i Mavs questo assunto vale un po’ di più visto che Doncic è alfa e omega di tutto quello che vogliono fare, con una delle strutture più “eliocentriche” dell’intera NBA. Quando va bene, come è successo spesso in questi playoff, la presenza di Doncic è galvanizzante; quando va male, come in gara-3, è deprimente per tutti.

 

Ne è una riprova la prestazione che invece i Mavs hanno fornito due giorni dopo in gara-4. Punto sull’orgoglio dopo essere stato criticato aspramente da mezzo mondo, Doncic si è presentato in campo con tutt’altro atteggiamento fin dal primo possesso, e il resto dei compagni gli è andato dietro. Non che si sia trasformato improvvisamente in Gary Payton, ma è bastato muovere i piedi e rimanere davanti agli avversari in un paio di occasioni per dare altro spessore alla sua partita e a quella dei compagni, dando il via a un +38 senza storia — permettendogli oltretutto di rimanere a lungo in panchina a riposarsi a gara ormai decisa.

 

 

Si fa fatica a credere che sia lo stesso giocatore che in gara-3 non si muoveva.

 

Spesso per giustificare il mancato sforzo difensivo di Doncic sono state utilizzate come scusanti le sue condizioni fisiche non perfette, dovendo fare i conti con una caviglia e un ginocchio in disordine oltre a ricevere un’iniezione di antidolorifico per un colpo al costato subito in gara-1. Un’altra giustificazione è il “carico” offensivo che lo sloveno deve sostenere per dare una chance ai Mavs, ed è indiscutibile che senza di lui e le prestazioni mostruose che ha disseminato lungo questi playoff Dallas non si sarebbe neanche avvicinata alle prime Finals dal 2011 a questa parte, visto che la squadra è stata costruita per circondare lui e Kyrie Irving di atleti, tiratori e giocatori di sbattimento in grado anche di coprirne le mancanze, ma non autosufficienti nella metà campo offensiva.

 

Ma contro una squadra come questi Boston Celtics non può bastare uno sforzo “mezzo-e-mezzo” in difesa, e con ogni probabilità non basterà contro nessun avversario che Doncic affronterà se e quando avrà la possibilità di giocarsi un’altra finale in futuro. La speranza, per lui e per i Mavericks, è che questa sconfitta maturata in gara-5 — nella quale Doncic è tornato a “non difendere”, per quanto in maniera non imbarazzante come nella terza partita, ma comunque senza dare mai la sensazione di poter prendere in mano la partita come ci si aspetterebbe dal miglior giocatore in campo, senza quel tipo di atteggiamento del tipo: “Questa partita io non la perdo” — ripercorra le orme di chi lo ha preceduto, come ad esempio LeBron James che ha dovuto aspettare i 27 anni (con due cocenti sconfitte alle Finals e un altro paio ai playoff a Est) prima di vincere finalmente il primo titolo della sua carriera.

 

Non è il valore generale di Doncic a essere messo in discussione in questa serie: i playoff del 2024 hanno dimostrato, se mai ce ne fosse bisogno, che è uno dei migliori giocatori al mondo e che è in grado di portare una squadra a giocarsi il titolo da prima opzione offensiva. Ma ha anche evidenziato chiaramente quali sono gli step tecnici, fisici e mentali che deve fare per poter raggiungere il suo massimo potenziale. Ora sta a lui farci capire se è quello che davvero gli interessa o no.

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).