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Emanuele Mongiardo

L’epifania di Luka Modrić a Euro 2008

Racconto della partita di Euro 2008 in cui Modrić fece capire per la prima volta…

Se siete nostalgici della Nazionale tedesca dei vostri padri, quella di Euro 2008 può essere considerata l’ultima grande Germania, in senso tradizionale. Una selezione fedele allo stereotipo della Mannschaft come squadra solida e con pochi fronzoli. Niente trequartisti leggeri e sguscianti, niente falsi nove, niente 3-2-5, ma un 4-4-2 classico con un centrocampo composto da due colossi come Ballack e Frings e una coppia d’attacco con due centravanti purissimi, uno di movimento, Klose, e uno di peso, Mario Gómez. Il contrario, insomma, rispetto alla Nazionale di Nagelsmann, Musiala e Wirtz.

 

La Germania del 2008 arrivava agli Europei come una delle favorite, forte del terzo posto ottenuto ai mondiali in casa due anni prima, di uno dei centrocampisti migliori al mondo – Ballack – e di una serie di potenziali fuoriclasse come Lahm, Podolski e Schweinsteiger. Alla partita d’esordio la squadra di Löw aveva confermato le impressioni positive, sbarazzandosi facilmente della Polonia. Alla seconda gara, però, ad attenderla c’era la concorrente più insidiosa del girone, la Croazia di Slaven Bilić.

 

La Nazionale balcanica era un avversario infido non solo per il livello generale della rosa, ma anche perché la maggior parte dei calciatori conosceva la Bundesliga. I due centrali, Simunić e l’ex juventino Robert Kovać, giocavano rispettivamente nell’Hertha Berlino e nel Borussia Dortmund. Il fratello di Robert, Nico, capitano e regista della Nazionale, aveva vestito le maglie di Hertha Berlino, Bayer Leverkusen, Ambrugo e Bayern Monaco. Sulla fascia sinistra Rakitić aveva appena concluso la sua prima stagione da grande promessa dello Schalke 04. In avanti l’attacco ruotava intorno a Iviča Olić, autore di 14 reti in campionato con l’Amburgo e futuro attaccante del Bayern di van Gaal.

 

Modrić, il “Cruijff dei Balcani”

Oltre a conoscere i propri avversari, la Croazia arriva alla sfida con la Germania con una formazione consolidata, con poche sorprese tranne una. Poco più di sessanta chili, gioca da interno di centrocampo e arrivava in Austria e Svizzera come una delle possibili rivelazioni del torneo. Luka Modrić non vestiva ancora la maglia numero dieci, né, ovviamente, la fascia di capitano. Aveva scelto la quattordici, numero che, insieme ai capelli lunghi e al naso adunco, aveva portato molti addetti ai lavori a presentarlo come il “Cruijff dei Balcani”. Modrić si schermiva di fronte al paragone: diceva di ammirare Cruijff, ma che se proprio doveva assomigliare a qualcuno avrebbe voluto essere Deco del Barcellona. La quattordici, per sua bocca, l’aveva presa per caso: «Non sapevo che Cruijff avesse indossato questo numero».

 

Eppure, nonostante la giovane età, il numero dietro la schiena e compagni più esperti di lui, già allora è Modric a guidare la Croazia. Era stato lo stesso CT a investirlo di tutte le responsabilità possibili, senza alcun tipo di remora. Di solito gli allenatori, soprattutto quelli delle Nazionali, cercano di proteggere i talenti più giovani dalle attese dell’opinione pubblica. Bilić invece lo presenta alla stampa come il salvatore della patria: sapeva di trovarsi di fronte a un giocatore di portata storica. «È il nostro miglior elemento. Senza di lui saremmo forti la metà di quanto valiamo. Gli ho detto che mi aspetto che diventi il miglior giocatore del torneo, non per mettere ulteriore pressione sulle sue spalle, ma perché lo penso davvero».

 

Di questo prodigioso centrocampista nato a Zara si sentiva parlare già da qualche tempo, ma forse c’erano talenti più attesi di lui alla vigilia di quell’Europeo: Fábregas, David Silva e Fernando Torres della Spagna, Nasri e Benzema della Francia, Nani del Portogallo. Erano nomi che il grande pubblico aveva visto giocare più volte in Champions e nei principali campionati europei. In Croazia, però, erano già sicuri che Modrić fosse meglio di tutti loro.

 

I primi ad esserne certi erano i tifosi della Dinamo Zagabria, la squadra in cui militava in quel momento. A maggio, qualche giorno prima di Euro 2008, era diventato ufficiale il suo acquisto da parte del Tottenham per 26 milioni di euro, incasso record per il calcio croato dell’epoca. Nel giorno della sua partita d’addio, gli ultras della Dinamo Zagabria, che non sono soliti dedicare tributi ai singoli giocatori, decisero in via del tutto eccezionale di cantare dei cori in suo nome. Milan Rapajć, vecchia conoscenza della Serie A, nonostante in Nazionale avesse giocato con Boban e Prosinečky non aveva timore di dire che «la Croazia non ha mai avuto un centrocampista così completo».

 

C’era grande attesa di scoprire Modrić ai livelli più alti. Euro 2008, però, non era il primo grande torneo a cui prendeva parte. Era rientrato nella lista dei convocati per i Mondiali di Germania del 2006, dove il CT dell’epoca, Zlatko Kranjčar, gli aveva concesso solo una manciata di minuti nella terza gara del girone, contro l’Australia, che aveva decretato l’eliminazione della Croazia.

 

Terminato il Mondiale, Kranjčar era stato esonerato e al suo posto la Federazione aveva scelto come CT Bilić, fino a quel momento in U21. Era lì che aveva avuto modo di conoscere Modrić, ed è per questo che fin dall’inizio non ha avuto dubbi: la Croazia andava costruita intorno a lui.

 

Con il nuovo allenatore, Modrić non solo si era guadagnato un posto da titolare, ma aveva trovato anche il suo primo gol, in amichevole. Qualcuno di voi forse lo ricorderà, perché si trattava di una partita contro l’Italia giocata a Livorno, passata alla storia soprattutto per la coreografia dei tifosi croati, che nel bel mezzo della gara si disposero nel settore ospiti in modo da formare una svastica. Modrić aveva segnato a fine primo tempo, dopo una ribattuta di Amelia.

 

Nei mesi successivi, la fiducia di Bilić era stata ripagata. La Croazia non solo si era guadagnata gli Europei da prima del suo girone, ma a qualificazione ottenuta, nell’ultima gara, si era tolta lo sfizio di decretare l’estromissione dell’Inghilterra a Wembley. Per la Nazionale guidata allora da Steve McLaren si trattava della partita decisiva, ma Modrić aveva deciso di prendersi la scena di fronte a due dei migliori centrocampisti dell’epoca come Gerrard e Lampard. La Croazia aveva vinto 2-3, eliminando gli inglesi. Quella era stata la prima grande esibizione di Modrić agli occhi del grande pubblico.

 

 

In Europa, a parte qualche presenza nella fase a gironi della Coppa UEFA e un paio di preliminari di Champions, praticamente non ci aveva ancora giocato. Fino all’inizio degli Europei, difatti, aveva conosciuto solo il campionato bosniaco e quello croato, perciò in pochi avevano potute vedere le sue partite.

 

Così, Euro 2008 era la prima grande occasione della carriera di Luka Modrić. Visto il percorso nelle qualificazioni, la Croazia arrivava al torneo come possibile dark horse. Era una squadra di alto livello, con una difesa rocciosa, esterni di gran piede come Srna e Pranjić, un regista esperto come Kovać e attaccanti di alta classifica in Bundesliga come Olić, Petrić e Klasnić. A riempire di speranza i tifosi, però, era la nuova nidiata di talenti: Ćorluka dietro, Kranjčar sulla trequarti e, soprattutto, Ivan Rakitić e Luka Modrić a centrocampo. Insomma, l’ossatura della squadra che 10 anni dopo avrebbe raggiunto la finale dei Mondiali in Russia.

 

Nonostante le premesse, qualche timore per la spedizione in Austria e Svizzera c’era. Le amichevoli prima dell’Europeo non avevano convinto ma, soprattutto, Bilić doveva fare a meno del suo miglior attaccante, Eduardo Da Silva, il brasiliano naturalizzato croato acquistato dall’Arsenal dopo due stagioni in cui aveva avuto più gol che presenze con la Dinamo Zagabria. A febbraio 2008, un infortunio scabroso subito contro l’Everton – avrete di sicuro capito a quale infortunio mi stia riferendo – lo aveva costretto a saltare gli Europei. Forse per questo Bilić, prima di volare in Austria, aveva deciso di condurre la squadra da Padre Zlatko Sudac, santone di Medjugorie al quale sarebbe comparsa sulla fronte una croce, proprio come quella che si è tatuato 21 Savage.

 

In effetti, l’esordio della Croazia aveva lasciato più di qualche dubbio sulla reale consistenza della squadra. L’avversario era stato l’Austria padrona di casa, una squadra di livello davvero modesto. La Croazia aveva vinto 1-0 grazie a un rigore trasformato proprio da Modrić, ma aveva rischiato spesso di concedere il pari a un avversario ben più debole. Quella contro la Germania, allora, diventava la partita della verità per misurare il valore della Nazionale di Bilić.

 

La partita

Modrić parte da mediano di sinistra del 4-4-2 croato e la prima azione degna di nota della sua partita arriva dopo cinque minuti. Prende palla a centrocampo e, come gli avremmo visto fare tante volte nel corso della carriera, parte in conduzione prendendo controtempo l’avversario che lo pressa, Ballack in quel caso. Poi, giunto nella metà campo avversaria, prova in maniera velleitaria il filtrante in profondità per Olić.

 

Non sarebbe stata l’unica verticalizzazione sbagliata del suo pomeriggio. Germania-Croazia, infatti, si rivela una partita divertente per la volontà delle due squadre di attaccare in maniera diretta. Entrambe si sistemano con un 4-4-2 a presidio del centrocampo. Chi ha la palla, però, non ha paura di rischiare la giocata in verticale, senza pensare troppo alle conseguenze. Non ci sono grosse occasioni, ma in questo modo i ritmi si alzano. Ne nasce una gara piena di scambi di colpi, di duelli e di perdite, con poco controllo tecnico.

 

È così che il talento di Modrić, per contrasto, emerge in maniera ancor più luminosa.

 

Un contesto del genere, pieno di scontri rudi e senza grande precisione, non sarebbe l’ideale per un centrocampista gracile come lui. A dire il vero, nemmeno la Croazia gioca un calcio che lo assecondi. Se quella di oggi è una Nazionale che si muove al ritmo del palleggio di Modrić e che punta a tenere la palla per far accadere meno cose possibili nei 90’, la Croazia di Euro 2008 cerca sempre di colpire per prima, e infatti i più stimolati non sono i centrocampisti ma le coppie di esterni del 4-4-2, Ćorluka e Srna a destra, Pranjić e Rakitić a sinistra: tutti giocatori di gamba e grandi crossatori, il cui compito è recapitare più palloni possibili alle due punte Kranjčar e Olić.

 

Così, col centro del campo usato come check-point per passare da una fascia all’altra, quando riceve Modrić non ha mai vita facile, perché non c’è nessuno che lo sostenga. Ogni volta deve inventarsi un controllo orientato, un dribbling o una conduzione per scrollarsi di dosso Ballack, Frings e chiunque lo pressi.

 

Una situazione complicata, perché i centrocampisti tedeschi sono grossi il doppio e Frings è uno degli specialisti difensivi migliori al mondo in quel momento. Eppure, adattarsi per Modrić non è un problema e non lo era mai stato. Lo aveva dimostrato già a diciotto anni, sui prati brulli del campionato bosniaco, dove la Dinamo Zagabria lo aveva mandato a farsi le ossa con la maglia dello Zrinjski Mostar. A vedere certe foto di Modrić in Bosnia viene da ridere a pensare che oggi tanti giocatori si lamentino dello stato dei terreni di gioco, mentre uno dei centrocampisti più tecnici della storia ha dovuto formarsi su campi pieni di buche. «Se riesci a giocare in Bosnia, allora puoi giocare ovunque», aveva dichiarato Modrić anni dopo riguardo quell’esperienza.

 

Una foto di Modrić nel campionato bosniaco.

 

Così Modrić si rimbocca le maniche, accetta di trascorrere un pomeriggio dove Frings e Ballack non faranno troppi complimenti quando si tratterà di usare le maniere forti e decide di sfidarli con il suo talento. L’unico modo per imporsi è volgere la differenza di statura a proprio vantaggio.

 

Il corpo di Modrić, le pieghe in cui si insinua insieme al pallone, raggiungono angolature che i legnosi centrocampisti tedeschi non possono prendere. Per loro su certi movimenti non esiste possibilità d’intervento.

 

In una partita che è una centrifuga, allora, la sua tecnica diventa il solo elemento in grado di ripulire i palloni e di mettere ordine.

 

Al 23’, dopo l’ennesimo contrasto aereo, un pallone spiove nella sua zona. Con la stessa grazia di sempre – certe doti sono innate e non mutano con l’età – mette a terra la sfera con un controllo orientato che Frings, a pochi passi da lui, non riesce a seguire. Dopo il primo tocco, Modrić aggiusta la conduzione per evitare l’arrivo di Podolski. Mentre porta palla in orizzontale, però, non trova sbocchi e, per la prima volta nella gara, tempera il gioco tornando indietro da Srna con un colpo di tacco.

 

 

 

 

La sua capacità di non perdere mai la palla ha assestato finalmente il possesso per la Croazia, che così avvia una lunga circolazione. La palla viaggia da un lato all’altro fino a raggiungere Pranjić sulla sinistra. Rakitić e Olić si sfilano su quella fascia per dialogare con lui e portargli via gli uomini. Pranjić, così, ha spazio per crossare. Si trattava di un laterale dotato di un grande mancino, e infatti pesca l’inserimento di Srna sul secondo palo, che in spaccata anticipa Jansen e segna.

 

La Croazia passa in vantaggio e capisce di essere la squadra migliore in campo. La Germania non riesce a produrre occasioni e, anzi, alla mezz’ora Kranjčar avrebbe la palla per raddoppiare ma spreca da dentro l’area. Modrić, nel frattempo, continua a fare la sua partita: i portieri rinviano, ne nascono contrasti aerei, le seconde palla finiscono sui suoi piedi e a quel punto gioca a passare attraverso i centrocampisti avversari. Non scarica mai subito la palla, e quando oscilla col corpo a copertura della sfera tamponarlo diventa difficile. È incredibile pensare che fosse solo il 2008, perché alcuni dettagli del suo gioco sono identici ancora oggi.

 

Il controllo orientato spalle alla porta, con cui si gira e allontana i centrocampisti tedeschi, è lo stesso che ammiriamo ormai da oltre un decennio col Real Madrid. Il segreto è che il calcio di Modrić è pura spontaneità, talento innato che lui ha saputo plasmare secondo il proprio gusto, sviluppandone così anche la dimensione estetica. «Ciò che la gente non capisce di Luka è che lui è largamente autodidatta», ha raccontato Tomislav Basić, allenatore di Modrić in tenera età che il genio di Zara considera suo padre calcistico. «Ha trascorso giorni e poi mesi a giocare da solo nel parcheggio dell’hotel che ospitava il campo profughi (in cui era stato costretto a trasferirsi a causa delle guerre jugoslave nda), calciando il pallone contro il muro e poi controllandolo con quella mezza giravolta che sarebbe diventata un suo tratto distintivo».

 

Rispetto a oggi è uguale persino il portamento. A inizio secondo tempo, ad esempio, riceve a centrocampo libero di condurre. Parte palla al piede con la stessa postura di sempre, con il braccio che si allarga a enfatizzare ogni tocco e i lunghi capelli che gli cadono sulle spalle e ne accompagnano la corsa come il cappello di un polmone di mare che si apre e si chiude mentre nuota. Avanza per qualche metro fino alla trequarti tedesca, poi, con gli avversari che sono rientrati, decide di calciare dai trentacinque metri. L’Europass, il pallone di quel torneo, è uno strumento ingannevole, e infatti a Lehmann scappa dalle mani e quasi si fa autogol.

 

Resterà l’unico tiro della sua partita, ma Modrić non ha bisogno di occasioni vistose per mostrare la sua trascendenza. Ad esempio, al 55’ si produce in un’azione senza risvolti particolari, ma che sposta improvvisamente il calendario in avanti nel 2016, nel 2017, o in uno qualsiasi degli anni in cui abbiamo assodato di essere davanti al miglior centrocampista del mondo. Con la palla tra i piedi di Simunić, Modrić si smarca alle spalle di Ballack e detta il passaggio al difensore. Simunić lo serve, ma da fuori l’inquadratura arriva Frings a stringere su di lui. Modrić non si scompone, il suo talento ha sempre la soluzione adeguata. Orienta il primo controllo d’interno destro per portare il pallone fuori dalla linea di corsa di Frings. Poi, con un secondo micro tocco, lo taglia completamente fuori, nonostante Frings, che gli passa una quindicina di centimetri e almeno altrettanti chili, provi ad aggrapparsi alla sua maglietta. A quel punto inizia a condurre in verticale e per non rallentare troppo e servire Ćorluka sulla corsa, invece di usare il piatto piega il piede e colpisce il pallone con l’esterno.

 

 

 

 

È un semplice appoggio, un antipasto di ciò a cui avremmo assistito nei sedici anni successivi. In quella partita Modrić usa l’esterno soprattutto per dei passaggi corti e rasoterra, si vede che sta ancora affinando la tecnica. Il Modrić di Euro 2008 sperimenta a ogni pallone che riceve. Ciò implica che il suo calcio contenesse non solo i pregi che lo hanno reso un fuoriclasse, ma anche gli spigoli che ha dovuto smussare negli anni.

 

Ad esempio, abituato a giocare da trequartista nella Dinamo Zagabria, il Modrić di questa partita è un giocatore verticale, spesso anche in maniera eccessiva. Nel tentativo di raggiungere la porta nel più breve tempo possibile, gli capita magari di cercare passaggi su cui i compagni non possono arrivare. A inizio primo tempo, da dietro la sua metà campo aveva tentato un filtrante d’esterno di cinquanta metri per il taglio di Olić. Non c’era lo spazio per recapitargli il pallone, e oltretutto l’esterno di Modrić non aveva saputo imprimere l’altezza e la rotazione giuste al pallone.

 

I difetti di gioventù, però, contribuiscono a riempire di fascino le vecchie partite di Modrić. Reperti come Croazia-Germania ci restituiscono l’immagine di un centrocampista che giocava ancora alla periferia d’Europa ma che aveva momenti di grandezza degni dei migliori al mondo. Il fatto che lo stesse facendo in una partita del 2008, dove si giocava un calcio radicalmente diverso da quello in cui si sarebbe affermato, rende il tutto ancora più speciale. Il talento di Modrić agli albori è come le more di rovo che spuntano ai lati di una ferrovia. Un frutto dolce, delicato e al tempo stesso selvatico, che non ha bisogno di troppa acqua e resiste alla calura estiva nello stesso modo in cui il calcio di Modrić non aveva bisogno di condizioni particolari per attecchire, perché il suo talento era più grande di qualsiasi fattore contestuale.

 

Nel frattempo la partita va avanti e la Croazia trova anche il 2-0. Il gol arriva in maniera piuttosto casuale, con Rakitić che crossa e Podolski che devia in maniera impercettibile. Lehmann si lascia ingannare dalla traiettoria di questa specie di Super Tele in cuoio che era l’Europass e non riesce a mettere le mani sul pallone, che sbatte sul primo palo e torna in area. Ad aspettarlo c’è Iviča Olić, più svelto dei centraloni Mertesacker e Metzelder nel ribadire in porta.

 

In una situazione del genere, ovviamente la Germania adotta un atteggiamento più aggressivo. Quando riceve, Modrić continua a giocare come aveva sempre fatto, ma i tackle dei tedeschi diventano quasi intimidatori. È una peculiarità dei grandi giocatori quella di saper incassare, di ricevere colpi che manderebbero a terra chiunque e di riuscire lo stesso a mantenere stabile il proprio centro di gravità. È un discorso portato alle sue estreme conseguenze da Messi e Maradona e in cui si inserisce anche Modrić, impossibile da disarcionare palla al piede nel 2024 come nel 2008.

 

Frings, Ballack, le punte che rientrano, tutti loro picchiano forte, ma il croato non si tira certo indietro. Il luogo comune riguardo i talenti balcanici li vorrebbe tanto dotati quanto pigri e indolenti. Modrić, invece, è sempre stato un centrocampista volenteroso, dinamico. Jonathan Wilson, in un articolo di maggio 2008 scritto in vista del suo trasferimento al Tottenham, confrontava il suo modo di interpretare il calcio rispetto a quello di Riquelme e sosteneva che Modrić, proprio per il suo agonismo, poteva rappresentare una nuova frontiera per i numeri dieci. Il croato, in realtà, sarebbe diventato qualcosa di diverso, una mezzala impossibile da decifrare, ma il giornalista inglese aveva centrato perfettamente il punto già allora quando aveva scritto che “c’è qualcosa, per usare una parola cara a Sacchi e Lobanovsky, di “universale” in lui che lo contraddistingue come un giocatore assolutamente moderno”. Il talento, in Modrić, è sempre stato sorretto da un grande spirito competitivo.

 

È per questo che dopo il gol del 2-1 di Podolski che poteva riaprire la partita, si incarica lui di allontanare il pericolo. Podolski segna all’82’. Da quel momento, per i suoi compagni, Modrić diventa il giocatore a cui affidare il pallone per alleggerire la pressione offensiva dei tedeschi.

 

All’86’, con la Germania riversata in attacco, Robert Kovać intercetta un pallone sul limite dell’area. Ballack e Frings cercano con forza la riconquista e Kovać, per trarsi d’impaccio, appoggia a Modrić. Frings allora, scala su di lui con tutto l’impeto di cui dispone. Modrić lo porta con sé a ballare dei passi che le gambone del tedesco non possono seguire: prima controlla con l’interno sinistro, poi aspetta un millesimo di secondo per farselo venire addosso; appena Frings si avvicina, con il destro parte in conduzione per evitarlo e metterglisi davanti. Frings, però, non demorde e Modrić allora rallenta, piega leggermente la conduzione all’indietro, disegna una curva col pallone che confonde le idee di Frings, il quale alla fine si allontana definitivamente. Poi, ovviamente con l’esterno, apre per l’accorrente Pranjić. La Croazia, così, può alzarsi e respirare. Modrić, nel proseguimento dell’azione, si fa ridare palla, si lascia tamponare da Kurany e poi chiede un altro scambio per infilarsi tra tre avversari e guadagnare un fallo laterale.

 

 

 

 

Grazie a quella sortita la Croazia trascorre un po’ di tempo nella metà campo tedesca, fino a guadagnare un’altra rimessa nei pressi del calcio d’angolo. È l’88’. Modrić si rende disponibile. Dopo aver controllato, si sistema il pallone con l’interno così da invitare Ballack ad aggredirlo. Ballack in quel momento era uno dei migliori centrocampisti al mondo, appena un mese prima aveva disputato una finale di Champions League. In maniera irrisoria, quando il capitano della Germania gli si fa sotto, con l’esterno del destro Modrić gli fa passare il pallone in mezzo alle gambe e si smaterializza per riprenderlo. Che dietro quel tunnel vi fosse della malizia? Da una parte una stella del Chelsea, già capitano del Bayern Monaco e principale testimonial dell’Adidas in Germania. Dall’altra, un ragazzo poco più che ventenne che non aveva mai messo il muso fuori dai Balcani: che si trattasse di una dichiarazione d’intenti per dimostrare, come aveva affermato Bilić, che era già lui il miglior giocatore dell’Europeo? A quel punto arrivano i due metri di Mertesacker a mettergli pressione alle spalle. Modrić, sulla bandierina, lo tiene lontano con il braccio, poi quando sopraggiunge Ballack in raddoppio prova di nuovo a fargli tunnel, stavolta con la suola. Il tedesco però non si fa prendere in giro una seconda volta e manda la palla fuori. L’arbitro, però, decide di assegnare la rimessa laterale alla Germania.

 

Poco male, perché l’obiettivo di Modrić era solo allontanarsi il più possibile dalla porta di Pletikosa. La Germania non sarebbe più riuscita ad avvicinarsi all’area, anche perché l’arbitro avrebbe espulso Schweinsteiger per un alterco con un calciatore croato.

 

Prima dei minuti finali Modrić aveva regalato spezzoni di grande calcio, ma la partita non era passata dai suoi piedi: come detto, per la Croazia il centrocampo era solo un punto di passaggio. È solo nel momento in cui si assume la responsabilità di congelare il tempo col pallone per impedire ai tedeschi di attaccare che Modrić assurge davvero al ruolo di protagonista. Diventa chiaro, in quel momento, che già allora il centrocampista della Dinamo Zagabria stava giocando come ciò che sarebbe diventato: uno dei migliori calciatori mai visti, forse il più grande centrocampista di tutti i tempi. La storia si stava compiendo davanti ai nostri occhi in quel pomeriggio di giugno del 2008 e chissà se qualcuno, all’epoca, avrà avuto la lucidità di accorgersene.

 

 

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Emanuele Mongiardo nasce a Catanzaro nel 1997. Scrive di calcio su "Fuori dagli schemi" e di rap su "Four Domino".