Sono passati ormai quasi venti mesi dall’ultima apparizione di J.R. Smith su un campo NBA: cinque dimenticabili minuti contro i Detroit Pistons con un solo canestro su quattro tentativi, il 19 novembre del 2018. Era la tredicesima sconfitta dei Cleveland Cavaliers nelle prime quindici partite stagionali, dopo la quale Smith tornò a lamentarsi con i giornalisti di quanto volesse essere scambiato per andare in un contesto vincente, cosa che i Cavs non potevano più essere dall’esatto momento in cui LeBron aveva deciso di portare i propri talenti a Venice Beach.
Da quel momento Smith non è più sceso in campo con la maglia dei Cavs ma neanche è stato spedito in un’altra squadra, come ad esempio successe qualche giorno dopo a George Hill, un altro dei reduci dell’ultima cavalcata alle Finals. Il resto della stagione di J.R. scivolò via in silenzio, concludendo il triennale da 53 milioni di dollari firmato dopo l’impresa delle Finals del 2016 e chiudendo con il basket giocato. In verità la carriera di Smith si era congelata qualche mese prima sullo sguardo incredulo di LeBron James, in una delle istantanee più kafkiane della storia NBA.
Con 4.7 secondi sul cronometro e i Cavs sotto di un punto in Gara -1 delle Finals 2018 in casa dei Golden State Warriors, George Hill si presenta in lunetta per due tiri liberi. Segna il primo e spedisce il secondo corto sul primo ferro: il pallone cade sul lato di J.R., che batte il tagliafuori pigro di Kevin Durant e con un grande salto fa suo il pallone vagante. Quello che succede nei successivi secondi di gioco è ancora oggi oggetto di pubblico ludibrio: Smith scappa via palleggiando verso la metà campo dove staziona LeBron, che gli urla di tentare un ultimo tiro per vincere la partita. A quel punto J.R. realizza che il punteggio è in perfetta parità, ma è ormai troppo tardi. Il suo passaggio in direzione di George Hill arriva quando la sirena è già suonata e nei supplementari gli Warriors prevarranno come nelle successive tre partite, vincendo il loro terzo titolo in quattro anni con un netto sweep.
Quegli ultimi 4 secondi e spicci per molti rappresentano la sineddoche dell’intera carriera di Smith, incapace di crescere per davvero e costretto a rimanere inchiodato al suo stereotipo da eterno Peter Pan. Una etichetta che J.R. era riuscito finalmente a togliersi di dosso insieme alla maglietta, un paio di anni prima, quando contribuì in modo fondamentale al primo titolo della storia dei Cavs. I giorni passati senza mai coprire con un indumento i suoi tatuaggi durante la parata tra le strade di Cleveland e le feste in giro per le discoteche dovevano rimanere l’ultimo atto della storia di redenzione di J.R., una parabola morbida come una delle sue triple impossibili, una fiaba con la morale.
Ricordiamo sempre che qualcuno ne fece un videogame 8 bit.
Invece gli occhi sgranati di LeBron, la sua camminata disgustata per tornare in panchina senza rivolgere un ulteriore sguardo a J.R. sono il giudizio greve verso chi ci ha nuovamente tradito, pugnalandoci alle spalle quando pensavamo di poterci finalmente fidare.
Essere J.R. Smith
Come diceva Pirandello, la differenza tra il comico e il tragico spesso è definita dalle informazioni che abbiamo riguardo una data situazione, un principio che si applica perfettamente anche alla sequenza di J.R. Smith in Gara -1.
A prima vista sembra una scena slapstick da trasformare in un meme, ma conoscendo un minimo il contesto dietro però cambia rapidamente tonalità. Per prima cosa cancella una delle più incredibili prestazioni individuali di tutti i tempi durante le Finali NBA, i 51 punti con 8 assist e 8 rimbalzi con i quali LeBron James stava vincendo da solo in casa dei campioni in carica.
Se i Cavs in quel momento erano in perfetta parità molto lo dovevano ad una sovrumana partita di LeBron.
E inoltre rompe quel rapporto di fiducia e fratellanza che si era creato tra LeBron e Smith, rafforzato dalle battaglie nelle quali avevano combattuto fianco a fianco, playoff del 2018 compresi. È stato proprio LeBron in persona ad aver voluto J.R. a Cleveland, convincendo David Griffin che avrebbe badato lui alle intemperanze del Miglior Sesto Uomo della stagione 2012-13. Era il gennaio della stagione 2014-15 e all’epoca i Cavs cercavano degli esterni da affiancare a LeBron e Kyrie Irving per spaziare meglio il campo: il primo nome sul loro taccuino era quello di Iman Shumpert, un difensore versatile e un competente tiratore da fuori. I Knicks però non volevano privarsene a zero, e volevano liberarsi a tutti i costi del contratto di Smith.
Smith era arrivato a New York dopo aver passato il lockout giocando in Cina per i Zhejiang Golden Bulls, segnando oltre 37 punti a partita e facendosi multare per oltre un milione di dollari perché accompagnava la sorella Stephanie a fare shopping invece di presentarsi agli allenamenti della squadra. A un certo punto i dirigenti, stanchi del suo comportamento, cominciarono a mandargli a casa l’auto di rappresentanza, come da contratto, ma senza autista, con J.R. che impazziva per orientarsi nelle caotiche megalopoli cinesi leggendo le indicazioni stradali in mandarino.
Quando a febbraio ebbe la possibilità di firmare per il resto della stagione con New York, ritrovando il suo vecchio amico Carmelo Anthony, non ci pensò due volte. Arrivò in città in piena Linsanity e inizialmente molti non si accorsero del suo ritorno in NBA, ma diventò in poco tempo uno dei pezzi fondamentali dei sorprendenti Knicks di Mike Woodson. Sembrava essere una bella storia di redenzione, con J.R. che finalmente aveva trovato il suo ruolo in uscita dalla panchina e con la luce sempre verde per sparare ogni pallone che passava tra le sue mani. Invece dopo un paio di annate di alto livello, la esperienza di J.R. nella Grande Mela peggiorò rapidamente una volta firmato un triennale da 18 milioni di dollari nell’estate del 2013.
Già durante la serie di playoff contro gli Indiana Pacers era più intento nel frequentare i club fino a tarda notte piuttosto che presentarsi in condizioni accettabili in campo. Una scelta di vita che esplose in un litigio sui social con Rihanna, uno dei feud più surreali a cui il mondo abbia mai assistito e che allo stesso tempo definisce perfettamente la concentrazione felina di J.R.. Esattamente come un gatto, J.R. Smith può perdere interesse verso la palla con la quale sta giocando in ogni momento, facendo andare su tutte le furie i suoi allenatori.
Rimane storica la risposta che diede l’allora allenatore dei Denver Nuggets, George Karl, ad una domanda riguardo la selezione di tiro di Smith dopo Gara-4 di playoff 2007 contro i San Antonio Spurs: «Amo veder insultata la dignità dello sport proprio davanti ai miei occhi».
Suonala ancora J.R.
D’altronde la carriera di J.R. Smith è come una scatola di cioccolatini: non puoi mai sapere se segnerà la tripla decisiva o se regalerà due punti agli avversari per andare a salutare un amico a bordocampo. Per molto tempo è stato più facile pescare un cioccolatino uno vistoso e calorico, con il suo personaggio che veniva definito più per quello che succedeva fuori campo piuttosto che dentro.
L’intercessione di LeBron, quindi, non ha solamente salvato la sua carriera, ma anche la sua immagine pubblica. Gli ha consentito di giocare ai massimi livelli, scendendo in campo per quattro Finali consecutive, e di vincere un titolo NBA, la validazione ufficiale per ogni giocatore. Non più un fenomeno da baraccone ma solo un tipo eccentrico, non più un talento sgretolato dalla sregolatezza ma un pretoriano del miglior giocatore al mondo. J.R. è passato da essere il ragazzino dispettoso che slegava i lacci delle scarpe dei suoi avversari durante i tiri liberi al prendersi responsabilità di peso nei momenti chiave della stagione, come quando aveva tenuto in piedi i Cavs con due triple cruciali a inizio secondo tempo di Gara-7 nel 2016. Il tutto con un lavoro sottovalutato in difesa su Klay Thompson, specialmente nelle Finals del 2015.
In lui LeBron aveva trovato un compagno fedele oltre che ad un perfetto complemento sul campo. Non solo un tiratore di alto livello sugli scarichi (38.3% da tre durante il suo periodo con James), capace di “rilocarsi” velocemente e di capire con anticipo dove gli sarebbe arrivata la palla, ma soprattutto uno che non ha mai avuto problemi nello spezzare il polso verso il ferro avversario.
J.R. rimane il nono giocatore per triple segnate nei playoff con 288, a sole quattro da Kobe Bryant.
Paradossalmente ai Lakers manca un profilo di questo tipo - salvo forse l’altro New Jersey Gangsta Danny Green - capace di prendere fuoco in un attimo e incendiare le difese avversarie da dietro l’arco. Ora è difficile pensare che Smith troverà spazio nelle rotazioni di coach Frank Vogel, anche perché la ruggine da togliere è molta ed è difficile immaginare che in questi due anni di inattività abbia trattato il proprio corpo come un tempio buddista (o forse si è allenato rincorrendo per strada chi gli ha ammaccato la macchina). Ma se mai metterà piede sul parquet della bolla di Orlando sappiamo già quale sarà la prima cosa che farà. Come una volta gli spiegò suo padre Earl - dal quale ha ereditato il nome e una certa propensione per il gioco del basket - appena ti arriva il pallone tra le mani tira. È il fondamentale che il padre gli ha ossessivamente insegnato fin dalla più tenera età, «perché la difesa non serve, si può giocare in NBA anche senza difendere».
Per questo J.R. ha vissuto senza mai rinunciare a un tiro, non importa quanto questo fosse aperto o meno, tenendo fede a quanto scritto accanto alla sua foto dell’annuario del Saint Benedict Prep School ovvero “Get chicks or die tryin’”. Ed è paradossale che l’azione che ha marchiato la sua legacy sia un atto contro la sua natura, un tiro non preso. Ora finalmente, oltre due anni dopo, avrà la possibilità di redimersi e di aiutare il suo amico LeBron a vincere un altro titolo, per chiudere nuovamente una parabola che può concludersi solo con il rumore della retina. Suonala ancora J.R., anche se non ci sarà nessun pubblico ad ascoltarti.