Nel film dedicato a Federer uscito pochi giorni fa su Prime Video Tony Godsick, storico manager di Roger, dice che «Gli sportivi muoiono due volte». Prima della morte naturale c’è quella sportiva, e cioè il momento del ritiro. Il più delle volte sono gli sportivi a decidere quando è il momento di ritirarsi; lo fanno cercando di mettersi in ascolto dei segnali del proprio corpo.
Nello sport contemporaneo sembra sempre più difficile, per uno sportivo, ascoltare questi segnali e non rimanere sordo. Certi campioni, ultimamente, vogliono credere nell’illusione di una specie di immortalità sportiva. Credono che la loro fiamma competitiva possa, davvero, bruciare in eterno, incurante del declino fisico, come se in fondo lo sport ad alti livelli fosse una mera questione di volontà; che la classe possa sopravvivere a qualsiasi deperimento materiale.
Quando tornano dagli infortuni, a un’età in cui il loro corpo gli chiederebbe di fermarsi, cercano di replicare un trucco di negromanzia su sé stessi, provando a restituirsi al mondo dei vivi. Rafael Nadal, di questi trucchi, è un maestro. Per anni la rianimazione di sé stesso gli è riuscita, almeno fino a oggi. Quello che si è presentato ai Giochi Olimpici era un Nadal in versione zombie, che si aggirava sul Philippe Chartrier - il campo su cui ha costruito la sua gloria - irriconoscibile. Era lui, ma non era più lui.
Per quasi un’ora abbiamo dovuto guardare la partita coprendoci gli occhi, come si fa davanti a un film horror nei momenti più cruenti. Per quasi un’ora è stato uno spettacolo insostenibile: non vorremmo mai vedere i nostri idoli sportivi ridotti così.
È stato uno spettacolo violento e difficile da descrivere. Rafael Nadal che lotta per annullare la palla break che avrebbe portato Djokovic sul 4-0. Nadal che lotta come un disperato per fare almeno un game, e avere la sensazione che non ce la potrà mai fare. Nadal che si prende tutto il tempo tra un servizio e l’altro, raccoglie le ultime energie rimaste. Poi corre, senza riuscire mai a comandare, e allora corre perché non ha scelta. Rincorre la palla verso il lato sinistro, e poi quello destro, e poi di nuovo quello sinistro. E poi scatta in avanti per recuperare una palla corta con la punta della racchetta. Colpisce sempre fuori equilibrio, solo per sopravvivere dentro lo scambio, senza mai poter alzare lo sguardo; colpisce alla cieca, sperando di prendere il campo in un modo o nell'altro. E poi colpisce un dritto frustrato, fuori di cinque metri, come se tutta la potenza rimasta nel suo braccio fosse esprimibile solo fuori dal campo da tennis.
Era l’evento della quarta giornata dei Giochi Olimpici: la sessantesima sfida tra Rafael Nadal e Novak Djokovic. Il sorteggio crudele li aveva messi di fronte l’uno con l’altro al secondo turno e c’era una grande attesa per la loro partita. Chi ha seguito il tennis recente, però, ha mescolato questa attesa con un certo timore. Nadal era nelle condizioni di giocare una partita tanto difficile? C’era la sensazione di infilare una creatura infinitamente debole nella gabbia di un leone affamato.
Per quasi un’ora è stato così, e forse anche peggio. Dopo aver tirato quel dritto frustrato, verso la fine del primo set, il pubblico ha mormorato. Nadal non aveva ancora fatto un game; la telecamera lo ha inquadrato e nel suo sguardo si leggeva paura e sconcerto. Un'icona di forza e resistenza stava provando paura e forse il desiderio di non voler essere lì, di scomparire, mentre tutti gli occhi erano puntati su di lui, tutti i cuori allineati in quella sensazione di sconforto e imbarazzo.
Il ritorno di Nadal dall’infortunio - quale? Abbiamo perso il conto - era tutto teso a questo evento finale: i Giochi Olimpici. E in quel momento pensavamo tutti la stessa cosa, e forse lo pensava anche lui: potevamo risparmiarcelo. Fino al giorno prima non era nemmeno sicuro di poter giocare, a causa dell’ennesimo infortunio di cui non vale la pena nemmeno dare troppe specifiche - il corpo di Nadal è quasi completamente infortunato ormai.
La versione di Nadal che è scesa in scampo sul Philippe Chartrier non era troppo dissimile da quella vista di recente, per esempio a Bastad. Un tennista con evidenti problemi di mobilità, spesso in ritardo negli spostamenti laterali, e con una velocità di palla troppo bassa per poter competere ad alti livelli - tanto nei colpi da fondo quanto al servizio. Non ci sarebbe niente di strano, se questo tennista non fosse stato uno dei più eccezionali della storia del gioco. È uno spettacolo grandioso e imbarazzante allo stesso tempo: vedere Nadal compiere gli stessi movimenti, usare la stessa peculiare meccanica dei colpi, per produrre un tennis così debole. Restituisce un’angoscia singolare, che forse non appartiene allo sport. La versione sportiva del memento: «polvere sei e in polvere ritornerai». In un vecchio pezzo Fabio Severo scriveva della sensazione di guardare il dritto di Nadal non funzionare: «Il movimento a lazo del dritto che gira attorno alla testa e la rotazione folle che dà al colpo diventano inutile dispendio di energia, con la palla che muore a rete o carambola fuori, ricordando la sensazione che si prova lanciando con tutta la forza un pezzo di carta appallottolato».
Quando lo scambio si allungava i colpi di Nadal cominciavano a perdere progressivamente velocità, fino a non riuscire più a superare la rete. Un ritmo regressivo insolito da vedere nel tennis di oggi. Certi dritti di Nadal, certi suoi servizi, sembravano galleggiare in aria, fare più attrito, non arrivare nel campo altrui per stanchezza. In una delle ultime interviste ai microfoni Nadal si era detto scontento del suo livello, dopo invece aver ostentato ottimismo negli allenamenti. Persino per campioni del genere, che conoscono a fondo sé stessi e il tennis, è complicato avere un’esatta percezione del proprio livello. L’unico termometro affidabile è il campo, che a Nadal di recente ha offerto solo risposte severe.
Djokovic gli è saltato sopra senza pietà. Per un set e mezzo lo ha sbranato, giocando a un ritmo altissimo che sapeva che sarebbe stato insostenibile per Rafa. All’inizio del secondo set Nadal era fermo, di fronte alle accelerazioni o alle palle corte del suo avversario. Sembrava essersi arreso. Anche quella era una sensazione nuova: Nadal che depone le armi, smette di crederci. Forse stava assecondando l’istinto di perdere in fretta per sottrarsi prima da quel supplizio.
Guardavamo quello spettacolo augurandoci un guizzo improbabile. Una speranza fondata sull’idea, probabilmente sbagliata, che c’è un fondo irriducibile in un campione sportivo. Ci sarà pur stata una parte, nell’essenza di Nadal, che era ancora in grado di competere contro Djokovic. A metà del secondo set quel guizzo, incredibilmente, è arrivato. I colpi di Nadal sono sembrati scrollarsi la polvere di dosso, hanno recuperato velocità, hanno assunto una fisionomia più normale e meno malata. L'ultimo slancio di lucidità del morente che dice qualcosa di profondo e toccante in mezzo al deliquio. Nadal, finalmente, aveva energia. Djokovic, che ha solo un anno meno di lui, e che è in generale anche lui un tennista in declino fisico, si è appannato. Si è visto qualche gran punto, che magari ha attivato la nostra memoria automatica. Ci ha ricordato quel tempo in cui Nadal e Djokovic facevano il fuoco in campo e noi eravamo persone diverse, e il tennis era una cosa diversa.
Nadal è riuscito a recuperare due break, e per un momento ci siamo di ritrovati dentro una bolla di pensiero magico in cui, ancora, abbiamo pensato che il fuoco competitivo di Nadal non potesse morire. Abbiamo di nuovo pensato a una forza e a un’energia infinite. Abbiamo pensato che la partita potesse persino trascinarsi al terzo set. Ma è stata l’ultima illusione. Possiamo attaccarci a questa se abbiamo bisogno di un ricordo positivo di questa esperienza. L’ultima grandiosa fiammata competitiva di Rafa Nadal.
Dopo aver riportato la partita in equilibrio, però, Nadal si è schiantato di nuovo, senza punti diretti dal servizio, e con un Djokovic che è rimasto calmo e concentrato, e ha poi ritrovato il suo tennis. Potrà dire la sua per questa medaglia, che è una delle poche ossessioni rimaste in una carriera a cui non avrebbe più niente da chiedere.
Dopo il sorteggio Djokovic aveva definito una specie di “ultimo ballo” quello tra lui e Nadal. Lo aveva detto senza spirito di provocazione, sorridendo. «Chi ha detto che sarà l’ultimo ballo?!» ha risposto aggressivo ai microfoni Nadal, che ci tiene sempre a sottolineare che non si sta ritirando, mentre tutto attorno le persone lo salutano come fosse l’ultima volta. Una situazione paradossale e anche un po’ patetica. Al torneo di Roma, per esempio, gli è stata tributata una passerella d’onore meravigliosa, attorno a un bagno di folla. Lui non poteva sottrarsi, ma è rimasto un po’ interdetto, come se tutti attorno a lui fossero matti a parlare di ritiro: «Non posso dire che sarà l’ultima volta se non sono sicuro». Questa incertezza contribuisce a dare a questo finale di carriera di Nadal dei contorni incerti, in cui non possiamo essere sicuri nemmeno dei nostri sentimenti. Con quale spirito dovevamo vedere questa partita?
Il risultato di 6-1, 6-4 racconta molto parzialmente il divario che si è visto tra i due giocatori. A un certo punto della partita il telecronista Jacopo Lo Monaco ha fatto notare che Nadal era riuscito a vincere appena 2 dei 24 punti giocati contro la prima di Djokovic; e che lo spagnolo con la prima di servizio aveva fatto meno punti del serbo con la seconda. Dentro un contesto così sbilanciato era difficile anche pesare la prestazione di Djokovic. Chissà come si sarà sentito, a fare a pezzi il suo rivale di sempre, a non sentire dall’altra parte nessuna opposizione competitiva temibile. Chissà come si sarà sentito a giocare contro Rafa Nadal sul Philippe Chartrier e avere la netta sensazione fosse completamente impotente.
Allora che ultimo ballo è stato, questo tra Djokovic e Nadal? Una danza dai contorni un po’ spettrali e malaticci, da certi film di Visconti in cui l’aristocrazia danza in grandi saloni per celebrare la fine del proprio mondo.
Per fortuna c'è ancora il torneo di doppio che, in coppia col suo erede Alcaraz, Rafa può davvero aspirare a vincere. Nelle vesti diverse, quelle della spalla nobile, dell'antico maestro, Nadal brilla ancora di una luce gloriosa. Quella che vorremmo vedergli ancora addosso.