Nelle foto del trionfo cileno alla Copa América Centenario, dietro la coppa dorata alzata al cielo e i lustrini sparati in aria o sotto l’arco dei Campioni, Juan Antonio Pizzi compare raramente, e quando si intravede la sua figura ha sempre un non so che di ritroso, schivo, recalcitrante. Pochi, dopo le prime partite dirette dal nuovo tecnico, credevano che sotto la sua guida la Roja potesse ripetersi ad alti livelli, che potesse avere ancora la fame che ne aveva determinato l’exploit casalingo nella rassegna continentale del 2015. Ancora meno, forse, che il suo Cile potesse arrivare a giocarsi la finale al Met Life Stadium. Nessuno, o quasi, che potesse anche vincerla. Neppure lui in persona, forse.
Luis Miguel Afonso Fernandez è un calciatore portoghese. Nonostante una buona stagione con il Benfica, in cui ha giocato da ala destra con una discreta continuità ed efficacia anche realizzativa, non è finito nella lista dei 23 portoghesi convocati da Fernando Santos per l’Europeo di Francia: in quel ruolo il Portogallo ha effettivamente l’imbarazzo della scelta, ma Luis Miguel si sarebbe accontentato anche di una partecipazione da comprimario. Da bambino era una grande fan del Barcellona: erano gli anni della moda lusitana, vestivano blaugrana Figo, Fernando Couto e il portiere Vitor Bahia. Ciononostante, l’idolo incontrastato di Luis Miguel - quel tipo di idolo del quale ti compri la maglia, la indossi anche per dormire e nel quartiere cominciano tutti a chiamarti col suo nome; a me è successo con un amico d’infanzia che abbiamo ribattezzato Rizzitelli fino a perdere memoria del suo nome reale - era un centravanti spagnolo, per meglio dire argentino ma naturalizzato spagnolo, che tra i culé era arrivato dopo una manciata di stagioni in Liga con gli isolani del Tenerife, culminate nell’highest-peak del 1996, quando aveva conquistato il titolo di Pichichi segnando 31 gol in 41 partite. Quel centravanti era Juan Antonio Pizzi, e parlare della sua parentesi barcelonista, per certi versi anonima e per certi altri entusiasmante, mi sembra un punto di partenza perfetto per cercare di capire chi fosse e chi sia, da calciatore ieri, da allenatore oggi, da uomo sempre, el Macanudo.
Alzare coppe sconfiggendo pregiudizi e haters: ✔. Anche in questa foto, con la Coppa delle Coppe 1997, tra Ronaldo Figo e Vitor Bahia Pizzi sembra un imbucato.
Macanudo, per l'appunto
Il significato di macanudo, secondo il DRAE, è magnifico, straordinario, eccellente, in senso materiale e morale. Viene da macana, una voce originaria dell’America Latina che designa, paradossalmente, un fatto che produce disagio o disgusto. Quel soprannome, a Pizzi, l’ha praticamente cucito addosso Joaquim Maria Puyal, radiocronista di comprovata fede culé, durante una gara di quarti di finale di Copa del Rey, giocata nel marzo del 1997, contro l’Atletico Madrid.
Pizzi, nonostante l’attacco del Barcellona di quell’anno potesse contare su Ronaldo e Stoichkov, era già un mezzo feticcio del buon tifoso barcelonista, essenzialmente per luce riflessa, visto che nelle due stagioni precedenti il suo Tenerife aveva stracciato, all’ultima giornata, le velleità di scudetto del Real Madrid, sconfiggendolo e permettendo al Barcellona di mettere la freccia sul rettilineo finale.
Quel 12 Marzo del 1997 il Barça è sotto di tre reti in casa: l’Atleti è una furia indomabile, e a metà del secondo tempo Bobby Robson decide di togliere due centrali difensivi, Blanc e Popescu, per inserire due centravanti, Hristo Stoichkov e Pizzi. La partita imbocca i binari della follia, segnano Ronaldo e Figo, e sul 4-4 che avrebbe comunque premiato l’Atleti, a 8 minuti dalla fine, Guardiola pennella un cross per la testa di Abelardo: la palla viene respinta dal portiere colchonero e sulla ribattuta si avventa Juan Antonio, che la spinge sotto la traversa facendo implodere il Camp Nou.
In questa storia, centrale nella mitopoiesi di Pizzi, mi sono fatto idea che l’elemento macana, quello che provoca disagio e quasi schifo, sia che per avere la meglio dei colchoneros il Barça si sia dovuto aggrappare a un personaggio minore, una riserva neppure di lusso, a qualcuno di livello troppo inferiore rispetto ai fenomeni a disposizione di Robson. Nessuno vorrebbe affidare il destino della propria gioia a qualcuno di cui non si fida del tutto. Però poi di contro l’ammirevolezza, la macadunità di Pizzi è stata tutta nel suo accogliere il fardello della responsabilità senza poi per questo trovarsi nella condizione di reclamare spazi che non gli sarebbero dovuti, addirittura potuti, appartenere. Un’umiltà quasi dimessa che l’ha accompagnato per tutta la sua carriera, segnandone le tappe fondamentali, da calciatore prima e da allenatore poi. Il legame con il Rosario Central, il club di cui è sempre stato tifoso e per tornare al quale, chiudendo il cerchio delle maglie indossate, ha rifiutato la possibilità di continuare a marcare il segno in Europa; la discrezione con cui ha assunto il timone di un Cile campione d’America in carica, trascinandolo fuori dalle acque turbolente di una partenza non del tutto brillante fino a condurlo alla vittoria; e poi, nel mezzo, la scelta - onesta perché piena di consapevolezza dei propri limiti - di rinunciare a inseguire la maglia albiceleste per onorare la chiamata della Spagna, orfana di Kiko e Julio Salinas e ancora troppo in anticipo per l’esplosione del fenomeno Fernando Torres.
Specialista in dispiaceri since 1995. Juan Antonio Pizzi è uno dei due calciatori di nazionalità argentina (l'altro è il naturalizzato paraguagio Acuña) ad aver segnato un gol contro la Nazione che gli ha dato i natali.
Oltre all’affetto che si tributa ai protagonisti di una bella storia-dagherrotipo da tirar fuori quando ci si sente in vena di sentimentalismi, quel che a Pizzi è rimasto dell’esperienza in blaugrana è la maturazione della convinzione che terminato il tempo in area di rigore, il suo destino sarebbe stato in panchina.
«Avevo parlato spesso in passato, a Rosario e a Tenerife, con el Patón Bauza (suo compagno al Rosario Central e oggi tecnico del São Paulo) e con Jorge Valdano di come sarebbe stata la transizione dall’essere un calciatore al non fare nulla», ha confessato in una profonda intervista a Diego Borisky de El Gráfico. «Mi preoccupava, credevo che l’unica maniera di conservare l’idolatria, nel calcio come in qualsiasi attività, fosse finirla lì e non tornare a mettersi in mostra. Come si dice, non uscire dal poster».
Da una Roja all'altra
Appese le scarpe al chiodo, però, Pizzi torna a Barcellona. Frequenta un corso speciale per allenatori, riservato a ex calciatori della Roja: con lui ci sono anche Pep Guardiola e Luis Enrique, che sarebbero diventati due degli allenatori più importanti della storia blaugrana. Quel corso serve a Pizzi per somatizzare, inconsciamente, input accumulati durante la sua esperienza da calciatore e compagno. Da una parte ci sono gli insegnamenti di Bobby Robson e, marginali ma più incisivi, quelli del suo aiutante-traduttore José Mourinho: «Ricordo che Robson ci convocava per uno speech tecnico di qualche minuto: più o meno tutti avevamo idea di quello che ci avesse voluto dire, poi guardavamo Mou aspettando la traduzione: Bisogna correre di più, traduceva lui. Così, sintetico. Semplificava tutto in un concetto breve e semplice». Dall’altra le idee fresche dell’ex compagno Pep: «Lo ascoltavo ed era come guardare un film di quelli che già conosci il finale».
L’apprendistato da tecnico lo svolge ne La Masia. «C’erano i tecnici delle giovanili che mi dicevano abbiamo questo compatriota tuo, rosarino, dovresti vederlo come gioca». Quel quindicenne era Leo Messi. «Era il migliore della sua categoria, impressionante. Vincevano ogni partita 7-0, 9-1, Messi ne segnava 4 o 5 a partita. La gente si aspettava quello da lui, e lui lo faceva». In quel momento, Pizzi non immaginava che avrebbe contribuito ad alimentare il più grande paradosso calcistico dell’ultimo decennio, procrastinando la lontananza forzata tra il più grande Diez del calcio moderno apparso in maglia albiceleste, il massimo goleador nella storia della Seleccion, e un trofeo.
«Uno può pianificare in ogni aspetto la sua carriera, ma il calcio ha questo: finisce per portarti dove vuole lui», ripete spesso.
L'ingrato ruolo del «sostituto»
Una delle ragioni per cui Pizzi è così amato (e le sue quote-cuore sono assolutamente destinate a crescere soprattutto in Cile) credo risieda nella capacità che ha avuto di saper accettare di buon grado l’ingrato compito del sostituto. Meglio se di personalità ingombranti. Al Barça lo era di Ronaldo. Sulla panchina del Cile lo è stato di Sampaoli, a sua volta erede di Bielsa.
Pizzi e Sampaoli hanno molto in comune, più di quanto si possa o voglia immaginare. Entrambi sono originari della provincia di Santa Fe. La carriera da calciatori di entrambi è stata segnata da un infortunio subito in gioventù, che ne ha determinato i destini. Sampaoli, dopo la frattura esposta di tibia e perone, ha smesso l’attività agonistica, dedicandosi da subito alla carriera da allenatore. Pizzi, invece, ed è un qualcosa che ne testimonia per certi versi la caparbietà, è riuscito a superare il trauma d’aver perso un rene in seguito a uno scontro di gioco. Aveva diciotto anni, lo seguiva un club tedesco: dopo l’operazione decisero che non se ne sarebbe fatto più nulla.
Quel minus sarebbe finito per diventare un tratto distintivo, una specie di costante nella sua vita, il simbolo di un’assurda specie di discriminazione al contrario. Il primo trasferimento importante, all’estero, fu per passare al Toluca: durante la conferenza stampa scoprì che anche a uno dei figli del presidente del club messicano avevano asportato un rene. E quando sbarcò in Europa, a Tenerife, il presiente Javier Pérez lo abbracciò lungamente: solo in seguito Pizzi avrebbe appreso che anche lui aveva un solo rene, e che il suo tesseramento, oltre a un gesto d’amore nei confronti dell’Argentina (per il Tenerife sono passati anche Dertycia, Valdano, Latorre, Redondo) voleva essere più o meno una cartolina al mondo contro la disabilità.
Ai tempi del Tenerife.
La carriera vera da tecnico di Pizzi ha avuto inizio in Perù. In realtà ci sarebbero da contare tre partite guidate dalla panchina del Colón de Santa Fé, sulla quale si era seduto come assistente del peruviano José del Solar, suo compagno al Tenerife: un’esperienza amara, durata duecentosettanta minuti, dopo la quale pensò che forse quello di coach non fosse un ruolo alla sua portata. Ci ha messo tre anni per fare punto e a capo, e iniziare una nuova vita al di là della Cordigliera delle Ande.
La prima partita di Liga Peruana, come tecnico del San Martín de Porres, lo mette di fronte a un allenatore suo connazionale, rampante e ambizioso, che guida il Coronel Bolognesi: guarda il caso, sempre Sampaoli.
Tra i due si dipanano fili che li legano a doppia mandata, parallelismi, simili ma distinti retroterra: Sampaoli viene dalla scuola Newell’s, adora ai limiti dell’idolatria Bielsa, finirà a guidare, in Cile, la U, portandola a successi insperati che gli lastricheranno la strada per la conduzione de La Roja; Pizzi è cresciuto al Gigante de Arroyito, sponda opposta di Rosario, quella coi colori auriazul del Central, e in Cile, dopo aver condotto i Santiago Morning, società capitolina dal palmares assai magro, a un’insperata semifinale del Clausura 2009, prenderà le redini della Universidad Católica, rivale storica de La U, portandoli alla vittoria del Torneo Bicentenario del 2010.
In entrambe le squadre guidate dai due tecnici argentini, riflesso e anticipazione dei dettami tattici che entrambi avrebbero abbracciato una volta alla guida della Nazionale cilena, c’è abbastanza Loco: possesso di palla, movimenti senza la sfera, generazione continua e costante di una grossa mole di opportunità da rete, senza però per questo disdegnare precauzioni difensive.
Ai tempi della Universidad Católica Pizzi incontra Manuel Suárez, il suo braccio destro naturale, la persona con la quale scambiare idee e dividersi il compito di gestire uno spogliatoio da sempre ricco di personalità strabordanti, prime donne, casi di umana ingestibilità.
A Manolo tocca il compito di relazionarsi con gli uomini - a Pizzi piace marcare la distanza dai suoi giocatori - nella quotidianità. Oggi è l’unico cileno a far parte dello staff tecnico della Roja, l’uomo che sta a Pizzi come Beccacece stava a Sampaoli.
Forse proprio in virtù del suo passato da calciatore Pizzi ha preferito che fosse qualcun altro ad assecondare - o rifiutare con autorevolezza - i desiderata e le esigenze degli uomini scelti a far parte della Nazionale. Manolo è la mente dietro ad alcune delle scelte che hanno segnato un cambio radicale di abitudini dopo il passaggio di consegne dello staff tecnico. Con Sampaoli l’imperativo era non perdere tempo: i convocati, una volta atterrati in Cile, erano subito internati al Pinto Durán, la Coverciano andina. Il nuovo corso, invece, tende a lasciare ai giocatori almeno un giorno libero per incontrare parenti e amici, ambientarsi. Con questa filosofia di bastone e di carota el Macanudo ha forgiato una squadra serena ma cinica, tonica e convinta dei propri mezzi, sebbene conservi una sfumatura che sembra più appartenere al carattere del suo allenatore: il Cile vince le partite come se fossero un compito da portare al termine il prima possibile, quasi di nascosto, prima che le divinità del pallone possano ripensarci, svegliarsi, detronizzarti dal ruolo di protagonista.
Una morbida radicalità, nel segno del bielsismo
La serenità porta fiducia, in sé stessi e nel lavoro degli altri. Quando era ancora calciatore, in un’intervista, Pizzi ha detto «Non c’è niente di meglio che fare gol per un centravanti, perché ti regala serenità e fiducia. Quando non la butti dentro devi rimanere tranquillo, pensare che il punto di svolta potrebbe arrivare in qualsiasi momento e farti trovare preparato. Il problema di quando uno è sfiduciato è che in allenamento o in partita ci mette meno impeto, e allora le cose si complicano». Il Cile, dopo aver perso la gara d’esordio contro l’Argentina, sembrava avesse perso fiducia: la qualificazione l’ha acciuffata per i capelli, al 98’ di una sfida interminabile contro la Bolivia. Però poi ha guadagnato, con il passare delle giornate, fiducia: si è fatta trovare pronta. E contro il Messico, o la Colombia, ha sfruttato l’impeto di fiammate durate dieci, venti minuti, in cui ha travolto le idee prima che gli uomini avversari.
Per questo i calciatori ai quali Pizzi ha scelto di affidare il suo progetto calcistico si somigliano un po’ tutti per caratteristiche biotipiche: proni al sacrificio, rispettosi, responsabili.
«Confesso che cerco di sistemare le mie squadre in campo come se io ne fossi il centravanti: perché quando giocavo facevo essenzialmente questo, davo indicazioni alla squadra affinché giocassero in una maniera che favorisse me».
Nella visione di Pizzi, la distinzione precisa tra i ruoli e il costante oliare gli ingranaggi di automatismi che devono sapersi ripetere mossi dalla meccanica prima che dal genio sono concetti imprescindibili. «In questo ho imparato molto da Van Gaal: spiegava tutto sempre con estrema chiarezza e dava indicazioni specifiche ad ognuno di noi. Ci obbligava ad agire con la struttura di una squadra, anche se ognuno doveva seguire certi meccanismi di coordinamento; e poi ti dava sempre indicazioni su cosa fare di fronte a ogni potenziale situazione che si verifica in partita».
È per questo che ogni uomo de La Roja ha dato l’impressione, in ogni singolo minuto della Copa América, di sapere esattamente cosa fare, prima che come farlo. E in una maniera o nell’altra, l’impronta del bielsismo sul calcio andino è parsa netta, indimenticata, ormai assorbita a livello endemico: «Ciò che esigo dai miei giocatori è che si sentano protagonisti sempre: per essere protagonisti bisogna tenere il possesso più che possiamo, e la prima cosa da fare se vuoi mantenere il pallone è recuperarlo quando lo perdi. Per questo bisogna correre di più, per generare spazi e per chiuderli: per essere pericolosi».
Artefice della maledizione
Nel breve periodo in cui ha guidato il Rosario Central, nel 2011, cercando senza successo di riportarlo in Primera Argentina, Pizzi era convinto che il calcio argentino fosse senza dubbio il migliore che si giocasse in America Latina. «Tutti lavorano con grande sapienza, hanno fatto passi da gigante ma per quanto abbiano copiato e tentino di avvicinarsi saremo sempre noi lo standard del calcio sudamericano». È un’affermazione più da argentino che da uomo di calcio: una verità antistorica, interessante soprattutto perché la dichiarazione è immediatamente successiva al suo passaggio cileno, ai successi, alla possibilità di testare di persona - e nelle persone - quanto l’asticella del confronto si fosse alzata. «Lo è soprattutto perché abbiamo alcune caratteristiche che rimarranno per sempre nostre: la pressione costante, la voglia di vincere insaziabile, il sacrificio al quale ci votiamo per non perdere: giochiamo con una passione che non si vede da nessuna altra parte, e che genera questa grande intensità».
Si tratta esattamente delle armi con le quali il suo Cile, underdog più per auto-imposizione che per ruolo assegnatole ai nastri di partenza, ha fatto sua la Copa América del Centenario.
Anche se il costo di questo tradimento è forse troppo grande - sterminato - anche per lui: l’Argentina abbandona il palcoscenico di una finale da sconfitta per la terza volta in quattro anni, e Lionel Messi, in conferenza stampa, ha anche dichiarato che il suo ciclo con l’Albiceleste è terminato: «Forse non fa per me».
Un ruolo per il quale sembra invece esistere una naturale predisposizione è quello degli allenatori argentini che portano il Cile a cingersi il capo d’alloro anche a costo, e nonostante, un fratricidio necessario.
Impossibile valutarne, a caldo e con gli ultimi coriandoli dei bagordi che devono ancora toccare terra, le implicazioni nel futuro prossimo.
«Credo che il Cile sarebbe lo stesso paese, anche se non avesse il calcio», aveva dichiarato subito dopo il suo addio alla Universidad Católica. «Mentre l’Argentina, senza fútbol, non potrebbe mai essere la stessa cosa».
E forse l’addio di Messi produce una voragine che somiglia, più d’ogni altra cosa, a quell’idea di vacuità.