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Marco D'Ottavi

L’ultimo terribile, tremendo, difficilissimo mese di Lunin

From hero to zero.

Il 17 aprile Andrij Lunin è un uomo felice, risolto. L’uomo più felice del mondo come si è autodefinito. È il protagonista di una di quelle storie che, semplicemente, non esistono e che per questo chiamiamo favole, con poca fantasia. Era arrivato al Real Madrid nel 2018 ma non aveva mai fatto il portiere del Real Madrid. Leganés, Real Valladolid, Real Oviedo, poi tanta panchina. Quando in estate Courtois si era rotto i legamenti del ginocchio, nel giro di pochi giorni gli avevano messo davanti Kepa: che considerazione avevano di lui? Pochissima. 

 

Poi, però, la sua fortuna era girata: Kepa si era mostrato insicuro tra i pali, lui no. A novembre si era preso il posto da titolare e non l’aveva più lasciato. Già negli ottavi della Champions League, contro il Lipsia, era stato decisivo per il passaggio del turno. Lunin sembrava essersi imbevuto in quel fiume sacro in cui si imbevono i giocatori del Real prima di una partita in Europa. Ancelotti, che poi era quello che non lo aveva considerato un primo portiere affidabile, aveva dovuto ammettere che «Lunin ha giocato una grande partita, la miglior partita della carriera. Giocare gli sta dando fiducia». 

 

Lunin su Instagram aveva fatto uno di quei post istituzionali da calciatore: una sua foto esultante e il messaggio “grande lavoro di squadra, bravi tutti”, il cui significato implicito era, però, che a essere stato il più bravo era lui. Tra i commenti, Toni Kroos e Jude Bellingham si erano sentiti in dovere di fargli i complimenti. 

 

 

La prestazione contro il City ai quarti, poi, era stata ovviamente il picco della sua carriera, della sua vita forse. Non solo nei 210 minuti di gioco era stato autore di grandi parate qui e lì, ma dopo i supplementari aveva fermato il rigore di Bernando Silva, rimanendo centrale come i portieri non fanno mai, e subito dopo quello di Kovacić, risultando decisivo per il passaggio in semifinale. Lunin, che si è presentato al suo matrimonio in tuta e scarpe da ginnastica, che per quel poco che potevamo conoscerlo sembra di quei calciatori a cui il calcio interessa in maniera veramente relativa, o che in generale rispecchia perfettamente, anche per quegli occhi azzurri e glaciali, l’idea dell’uomo freddo e insensibile venuto dall’est, aveva provato a sfuggire ai riflettori, ma la sua contentezza era troppo evidente per passare inosservata, anche quando ha finto di non esultare. 

 

Se gente come Kroos e Vinicius Jr è nata per essere lì, di Lunin non lo pensava davvero nessuno. Era diventato però così naturale vedercelo, così Real Madrid, che anche quando Courtois era tornato a disposizione non ci eravamo neanche posti il dubbio su chi dovesse essere il titolare. Il portiere belga aveva giocato qualche partita in Liga, già vinta, ma più per prendere il ritmo, per ricordarsi come si fa. Quando le cose si erano fatte serie, in semifinale col Bayern Monaco, Lunin aveva tenuto il suo posto, ormai svezzato come i grandi campioni che aveva intorno, nonostante di partite in Champions ne avesse giocate appena otto, mostrando grande sicurezza. Il Real Madrid aveva passato il turno con un’altra di quelle incredibili rimonte che costruiscono la sua storia recente e Lunin aveva fatto il suo. Ormai sembrava pronto a compiere il proprio destino, il lieto fine della favola. 

 

Poi, però, appena prima della finale il dubbio si è insinuato. Lunin è Lunin, ma Courtois è Courtois, il portiere più decisivo nella storia, almeno recente, della Champions League. Per l’opinione pubblica era sembrata più una questione morale che non pratica: Lunin si è guadagnato il diritto di giocare sul campo, Courtois no. Per un allenatore, però, ogni scelta è pratica. Anche noi ci eravamo chiesti se avesse senso cambiare un portiere per la finale, provando a trovare una risposta fuori dalla retorica. Ancelotti, a precisa domanda a una decina di giorni dalla finale, era stato fintamente democristiano: «È una decisione molto difficile perché entrambi meritano di giocare la finale. Lunin perché ha fatto una stagione fantastica, Courtois perché è rientrato dall’infortunio ed è il miglior portiere del mondo». Il messaggio implicito era che, se uno è il miglior portiere al mondo, l’altro non lo è. Una frase sibillina che, forse, deve aver scombussolato il sistema immunitario di Lunin. 

 

Una settimana prima della finale infatti, con la decisione ancora in bilico, almeno fuori dalla testa di Ancelotti, Lunin si era beccato un’influenza di tipo B. Siamo a fine maggio, a Madrid: è obiettivamente strano. Se questa è davvero una favola, potrebbe esserci allora lo zampino di una pozione magica. Lunin lamenta febbre e dolori muscolari, soprattutto è contagioso, per questo non gli viene concesso di allenarsi con i compagni. Lui rimedia allenandosi da solo, in giardino, come scopriamo da una storia Instagram della moglie, che lo riprende dalla finestra. Sotto la scritta “Quando la febbre non è un ostacolo all’allenamento. Orgogliosa di te”. 

 

Mentre a Valdebebas i giocatori del Real Madrid preparano la partita più importante dell’anno insieme a Courtois, Lunin è solo, chiuso in casa tra i deliri della febbre. Cosa avrà pensato in quei giorni? Allontanato dai compagni nel momento più importante della sua vita, impossibilitato a realizzare il suo sogno. La sua parabola fa pensare a Raskol’nikov, il personaggio di Delitto e Castigo. Lunin però non può rivendicare per sé un ruolo da Napoleone, deve accontentarsi di esprimere la sua pena su Instagram: «Sono molto triste di non poter preparare la partita più importante della stagione e della mia vita insieme alla squadra». Una frase che stride con l’immagine serena di lui che tiene due palloni tra le mani. 

 

 

Ancelotti comunica la scelta al resto del mondo solo il 31 maggio, il giorno prima della finale. Lo fa con una freddezza che è un pugno allo stomaco, in appena sei parole: «Gioca Courtois, Lunin viene in panchina». L’allenatore del Real viene definito il miglior “gestore” al mondo, ma qui non è sembrato brillare per tatto. Come avrà parlato invece a Lunin? Esiste un modo per comunicare una scelta del genere senza buttare chi la riceve sotto un treno? Credo di no, neanche se hai costruito la tua carriera, almeno per il pubblico, sul potere dell’amicizia e il sopracciglio alzato come massima espressione di rabbia.


Non conosciamo la reazione privata di Lunin, che avrà pianto tutta la sua pena tra le mura domestiche, ma abbiamo qualche immagine della sua finale, e sono immagini surreali. 

 

Lunin raggiunge la squadra solo il giorno della partita, a più di una settimana dal suo allontanamento. Sull’aereo che lo porta da Madrid a Londra, un aereo di linea, il pilota apre il microfono di bordo e lo saluta: «Abbiamo a bordo un passeggero molto speciale, Andriy Lunin. È grazie a lui se il Real Madrid è in finale, quindi chiedo a tutti voi di fargli un grande applauso, a tutti quelli che sostengono il nostro Madrid». A quel punto era partito un timido applauso, come se Lunin fosse già il passato, parte di una storia che si preferisce dimenticare. 

 

Arrivato nell’hotel in cui risiede il Real Madrid, trova un piccolo comitato di accoglienza. C’è una foto che ritrae questo momento, ed è abbastanza indicativa. Lunin è in borghese, vestito bene, troppo bene forse, con un completo nero lucido, la camicia bianca e uno zainetto sufficiente per il suo breve viaggio. Incontra Bellingham nella hall al ritorno dall’allenamento. L’inglese lo guarda come si guarderebbe a un fantasma, un vecchio problema che non si vorrebbe affrontare. 

 

 


Il Real Madrid poi, lo sappiamo, vince la finale contro il Borussia Dortmund. Courtois non deve fare miracoli, ma quando dopo 20 minuti Adeyemi si è allargato troppo per provare a saltarlo, è stato difficile non pensare che fosse un errore causato dal portiere belga, dalla sua lunghezza in relazione alla sua rapidità. Con Lunin sarebbe successo lo stesso? Un gol in quel momento avrebbe cambiato la finale. Sembra che, subito dopo l’infortunio al crociato, Courtois avesse detto a un amico: «vincerò la Champions League; c’è ancora tempo». Le gerarchie si sono ristabilite: Courtois è Courtois, Lunin è Lunin.

 

La partita di Lunin si esaurisce allora in un paio di foto: Ancelotti che gli dice qualcosa all’orecchio mentre il portiere non lo guarda, e poi la sfilata davanti al trofeo che tocca ma che, ancora una volta, non guarda. Secondo Relevo, Lunin avrebbe fatto di tutto per evitare di congratularsi con Courtois sul campo di Wembley, rimanendo il più distante possibile dal portiere belga. È un atteggiamento comprensibile, ma che stride con l’idea del rapporto che si instaura tra i portieri di una squadra, che passano la stagione ad allenarsi insieme. Kepa, che avrebbe i suoi motivi per non essere contento, è stato il primo a congratularsi e festeggiare sia con Lunin che con Courtois.  


Non è però solo contro il suo rivale che Lunin ha mostrato indifferenza. Per dire, non ci sono, o almeno non ho trovato, foto di lui che alza il trofeo (ci sono di tutti gli altri). Anche in quelle pubblicate sui suoi profili, in cui usa la Champions per ringraziare la moglie per il sostegno, tocca il trofeo il meno possibile e sembra piuttosto uno che sta per andare a cena dalla cognata. Della felicità naturale post-City non c’è più nulla. 

 

 

 

Un paio di giorni dopo, appena arrivato nel ritiro dell’Ucraina, Lunin viene accolto da un lungo applauso da parte dei compagni. «Mi sono sentito piacevolmente a disagio» ha raccontato il portiere, nella stessa intervista in cui ha sostenuto «di avere tutto quello che serve per essere il numero uno del Real Madrid». Se è una frase intrinsecamente non corretta, come dimostrato dalla scelta di Ancelotti di preferirgli Courtois, il vero numero uno del Real Madrid, le prestazioni con il club spagnolo avevano almeno avuto un risvolto totalmente positivo per Lunin: quello di diventare il numero uno dell’Ucraina, superando Trubin nelle gerarchie. 

 

Si dice che la vita ti dia sempre l’occasione di riscattarti e Lunin aveva la sua: portiere titolare di una Nazionale di talento, e che soprattutto gioca per un Paese costretto a una guerra di difesa. Un torneo in cui, inoltre, Courtois non c’è. La prima partita del girone contro la Romania era il perfetto inizio per mettere in discesa il girone. La partita dell’Ucraina però è stata un disastro, e Lunin il primo colpevole. Dopo 29 minuti, su un pressing neanche troppo irruento di Marin, Lunin si è liberato del pallone in maniera goffa, passandolo a Man sulla trequarti. Man aveva controllato e servito al centro Stanciu, che a questo punto si era inventato un gol, calciando forte e arcuato d’interno destro, col pallone infilato all’incrocio. Dieci minuti dopo aveva letto male il calcio d’angolo calciato sempre da Stanciu, perdendo l’orientamento in un bagno di sole e venendo salvato dalla traversa. 


La sua pessima giornata era però ancora lontana dal dirsi conclusa. Al 52’,una Romania spiritata era arrivata a spron battuto sulla trequarti e su un pallone sputato da un contrasto si era avventato Marin. Il suo destro a incrociare, per quanto velenoso, non era particolarmente angolato, ma si era infilato sotto le mani del portiere come se fossero bucate, per il 2-0.  

 

 

La Romania alla fine avrebbe vinto 3-0, schiacciando l’Ucraina con una prestazione sorprendente per tecnica e intensità. È difficile dire che con un altro portiere sarebbe andata poi molto diversamente, magari il passivo sarebbe stato diverso, ma non il risultato. Inoltre Lunin non è stato fortunato nel primo errore, con Stanciu che si è inventato il tiro della vita, e nel secondo la sua è più una sbavatura. Eppure è stato lui a prendersi la croce ancor prima di uscire dal campo, presentandosi sotto lo spicchio di tifosi ucraini con le mani giunte a chiedere perdono per i suoi errori.

 

Come se non bastasse essersi scusato con il pubblico allo stadio, in un gesto ricco di empatia verso tutti gli ucraini, Lunin si è preso tutte le colpe anche davanti ai microfoni: «Il mio primo errore ha cambiato la partita, il problema è che quando il portiere sbaglia è sempre un gol». Lunin, raccontano le cronache e lui stesso, si è presentato distrutto negli spogliatoi, scusandosi con i compagni che «hanno fatto un grande sforzo lavorando duro, prima che i miei errori complicassero la partita». Qualcosa che, in campo contro la Romania, onestamente non si è visto. 

 

Contro la Slovacchia, il CT Rebrov ha scelto di lasciare Lunin in panchina, preferendogli Trubin. In un torneo tra Nazionali è veramente raro veder cambiare il portiere titolare in corsa, anche dopo una partita disgraziata. Con il suo atteggiamento e le sue parole, Lunin sembra essersi messo in panchina da solo. Trubin è un portiere di 22 anni in rapida ascesa: è anche possibile, probabile, che da questo momento per Lunin la carriera in Nazionale sia finita, almeno per quanto riguarda la titolarità. Lo stesso Rebrov dopo la partita, vinta dall’Ucraina in rimonta, ha praticamente ammesso di essersi sbagliato a schierare Lunin: «Trubin meritava di giocare dopo la prestazione contro la Germania del 3 giugno. Era molto calmo e avrebbe dovuto giocare già prima di questa partita».

 

Eppure, dopo la vittoria con la Slovenia Lunin ha risposto come risponderebbe un santo. A chi gli chiedeva del suo stato d’animo per essere finito in panchina, ha detto che: «Lo capisco perfettamente, è tutta colpa mia. Qui siamo una squadra, un gruppo. Non conta l’individuo ma il risultato della squadra […] Spiegazioni? Non sono necessarie». Difficile dire quanto sia una persona incredibilmente capace a tenersi dentro il proprio disappunto e quanto l’ultimo mese lo abbia affossato psicologicamente, a tal punto da conferirgli questo stoicismo ai limiti dell’eroico, se non fosse controproducente per il suo mestiere. Tra tutti i ruoli, infatti, quello del portiere è forse il più legato alla fiducia in se stessi, un lavoro in cui il narcisismo è indubbiamente una qualità. Ma che fiducia può avere Lunin in se stesso? È impossibile non trovare nel suo ultimo mese scorie della scelta di Ancelotti, del sogno perso di una finale di Champions, del vedergli prima Courtois e poi Trubin rubargli il posto.

 

Per Lunin il futuro difficilmente sarà come quello che immaginava. Non sarà più il numero uno del Real Madrid e neanche della Nazionale. Se proprio vorrà, potrà cercare una sua dimensione in un ruolo minore, primo portiere chissà dove. Funziona così: è il calcio. Alla fine di tutto, rimane una storia con una sola lezione, ovvero che le favole non esistono e, se esistono, non ditelo ad Ancelotti.

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.