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L'uomo nascosto
02 mar 2015
Freddo, elusivo, sempre attento a controllare le proprie emozioni: chi è davvero Vincenzo Montella?
(articolo)
20 min
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Prima ancora del talento c’è l’indole, e fin quando non si è messo al servizio del primo, Montella ha scelto seguendo la seconda, che lo ha sempre portato a schermarsi, a eludere, a parare: «Non è facile essere totalmente sé stessi quando sai che sarai giudicato. È la cosa che mi pesa di più dell’essere diventato famoso. Sono costantemente in difesa». Così Vincenzo Montella, uno dei più bravi attaccanti del calcio italiano, ha iniziato a giocare da portiere, tra i pali dell’USD San Nicola di Castello di Cisterna, area metropolitana di Napoli. Gli piaceva impedire alla palla di finire in rete. Finché un giorno, racconta la favola, i suoi compagni proprio non riuscivano a far gol e allora Vincenzino abbandona la sua area, sale in attacco e trova la soluzione. Che cosa ci facesse in porta un bambino in grado di segnare da solo è il nodo della storia che nessuno sciolse, occupati com’erano a guardare quanto Montella fosse forte come centravanti. Pochi mesi e in provincia già tutti parlano di lui.

Quando ha appena dodici anni lo contatta l’Empoli, uno dei migliori settori giovanili d’Italia, e Montella decide cosa vuol fare da grande: il calciatore. Lascia la famiglia e la provincia di Napoli, all’epoca in piena locura maradoniana. Vincenzo è mancino, tecnico, piccolo, svelto, eppure il suo idolo non è Diego, ma Marco van Basten, un centravanti di quasi un metro e novanta che sa segnare in tutti i modi, e che arriverà a Milano di lì a poco.

I ragazzi del settore giovanile dell'Empoli vengono seguiti da vicino, affidati a persone di fiducia della società. A Vincenzo pensano Ernestina, una vedova grande tifosa empolese, e un po’ anche Nicola Caccia, compaesano e oggi suo collaboratore tecnico alla Fiorentina, che è di quattro anni più grande e sta già affacciandosi in prima squadra. Non è facile per Vincenzo: «I genitori sono un grande problema. Troppe aspettative, troppa pressione sui ragazzi: sono tutti convinti di essere i papà di Totti», dichiara Montella circa trent’anni dopo, da allenatore dei Giovanissimi della Roma. «La prima domanda non deve essere come portare i giovani in Serie A, ma come non creare degli infelici. Il calcio in Italia ha soprattutto un ruolo sociale. Delle migliaia di ragazzi che affollano i settori giovanili, arriva al professionismo una percentuale che sfiora l'1%. Di quelli che giocano nelle squadre Primavera, ad un passo dal professionismo, il 5% arriva in Serie A e solo il 40% continua a giocare a calcio. Troppi giovani delusi, frustrati e senza titolo di studio. Una fabbrica di falliti».

Vincenzo esordisce in prima squadra in C1, nella stagione 1990/91. Le prime vere occasioni gliele dà l’anno successivo Francesco Guidolin, che lo schiera nelle ultime sette partite, nelle quali fa quattro gol, dando probabilmente ragione all’allora neopresidente Fabrizio Corsi, che avrebbe voluto vederlo in campo prima e di più. È giovane, c’è tempo, e invece forse no, perché si rompe il perone dopo poche partite della stagione successiva e poi un’infezione al cuore (miocardite) lo lascia per mesi nel timore di non poter giocare mai più. L’idoneità all’attività sportiva agonistica gliela restituisce il professor Zeppilli, un cardiologo di Roma dal quale lo aveva portato il presidente Corsi.

L’Empoli va male, intanto, e a salvarlo ci sta provando una coppia di allenatori formata da Giuseppe Palazzese e Luciano Spalletti. Montella torna in campo per lo spareggio salvezza, il 5 giugno del 1994, a pochi giorni dai suoi 20 anni: è fuori da quasi due stagioni. Non segna, però gioca bene e l’Empoli se la cava. Sarà ancora C1, ma per Vincenzo è l’ultima volta. 17 gol in 30 partite (inclusa una rovesciata, in terra campana, contro la Juve Stabia) convincono il Genoa a reclutarlo per scalare la Serie B. Marassi a Vincenzo era sempre piaciuto. Ne fa 28 in 40 partite: 21 in campionato, 2 in Coppa Italia e 5, in 5 partite, nell’ultima edizione di sempre della Coppa Anglo-Italiana, una di quelle cose che succedevano nel Novecento.

La formula del torneo è mutevole e spesso cervellotica, l’albo d’oro un sogno hipster, il naufragio della competizione dovuto al disinteresse del pubblico, dei media e delle stesse squadre partecipanti, eppure la finale si gioca a Wembley e di fronte c’è il volenteroso Port Vale, del quale il Genoa dispone a piacimento. Gennaro Ruotolo con una tripletta si porta a casa il pallone. Fabio Galante incorna da calcio d’angolo. Marco Nappi frulla su tutto il fronte offensivo. Vincenzo Montella segna in rovesciata e fa l’aeroplanino, idea venutagli in quella stagione. Finisce 5-2.

Parziale di 5-0, un allenamento.

Quel Genoa non riesce ad andare in Serie A, ma Vincenzo sì, senza neppure cambiare città. A comprarlo, per 8.5 miliardi di lire, è la Sampdoria e la transizione è dolorosa ma non drammatica. I tifosi del Genoa sono delusi, ma Montella è rimasto con loro solo un anno e poi la Samp, in quella fase storica, è chiaramente di un altro livello: ci sono Roberto Mancini, Christian Karembeu, Sinisa Mihajlovic e Juan Sebastián Verón, allenati dal “Rettore di Torsby” Sven-Göran Eriksson. Montella è trasportato in un’altra dimensione tecnica, alla quale si adegua senza quasi faticare. Nel posticipo della terza giornata segna una doppietta contro la Roma all’Olimpico, su doppio assist di Mancini: dopo quella serata noi impariamo il suo nome e la sua esultanza apparentemente scanzonata; lui non riesce a prendere sonno per l’emozione, unica volta in carriera.

In questa foto il linguaggio del corpo e l’espressione del viso non vanno d’accordo.

In 28 partite segna 22 gol, che sono tuttora il record per un italiano esordiente in Serie A. Tra la 13.esima e la 16.esima giornata realizza quattro doppiette consecutive, record anche questo. In classifica cannonieri finisce secondo dietro Filippo Inzaghi, un altro giovane emergente, che ne fa 24 pur dando l’impressione di essere lontanissimo dalla qualità e dalla completezza calcistica di Vincenzo. Perché Montella sa dribblare, giocare di sponda, proteggere palla, prendere fallo, servire i compagni e fare tutti i gol: da 30 metri e da 30 centimetri, unico esemplare italiano assieme a Christian Vieri. E non sa semplicemente fare i gol. Spesso sembra conoscere come si fanno i gol, quasi sapesse come calcolare la soluzione al complesso caos improduttivo di cui è composto il 99% di una partita di calcio.

Ce n’è uno fatto a Siena in cui Montella trotterella palla al piede sulla trequarti, accentrandosi da destra, perfettamente orizzontale. Sembra in perlustrazione. Ha ormai 33 anni, è appena tornato alla Samp in ricerca di un buon finale per la sua carriera. La difesa del Siena è schierata. Lui trotta, osserva, respira, attende. Poi risolve l’equazione, cambia direzione, cambia ritmo, passa e scatta nello spazio che si è creato per via della forza di attrazione che la palla (aka l’esca, in questo caso) esercita sui difensori. Gli viene sporcato il passaggio ma lui procede, ricalcola senza esitare. Detta il pallone di ritorno (“detta” nel senso di “ordina”, non di “suggerisce”) per il quale servono solo un po’ di tecnica e nessuna fantasia, poi piazza un destro al volo incontestabile come un tiro a canestro. La soluzione, facile solo dopo averla trovata.

Assist di Sergio Volpi, l’eterna metà di una figurina introvabile.

Questo gol è inusuale perché Vincenzo inizia l’azione. Molto più spesso gli basta lasciare ai compagni la fase di costruzione e muoversi nello spazio col tempo giusto e tanta naturalezza da rendere i suoi gol, per quanto belli, mai veramente eclatanti, velatamente modesti.

Il 5 giugno del 1999, a 5 anni esatti dal suo ritorno dopo la miocardite, fa il suo esordio in Nazionale. Quella è l’estate in cui passa alla Roma per circa 40 miliardi di lire, tuttora la cessione più remunerativa della storia della Sampdoria, che nel frattempo è retrocessa, con Spalletti in panchina, dopo aver perso tutti i suoi big nel giro di due anni. Nella sua terza e ultima stagione in blucerchiato, dopo 42 gol nelle prime due, Montella ha sofferto di pubalgia, senza riuscire a giocare con continuità. Fa una vana, fantastica partita a Bologna, nella penultima giornata, quando alla Sampdoria serviva una vittoria e invece subisce il pareggio su rigore al 94' e finisce in Serie B.

Dopo il secondo gol Vincenzo è costretto a sospendere brevemente l’esultanza per calmare Palmieri, che lo sta agitando come fosse spumante.

Quello che arriva a Roma è indubbiamente un grande attaccante. Dal punto di vista tecnico è il più forte centravanti italiano, uno dei migliori di sempre. In Nazionale ha davanti Vieri e Inzaghi, che paiono leggermente più avanti nella loro evoluzione, sono già in grandi squadre, hanno già vinto, ma forse Montella può raggiungerli. La sua prima doppietta in giallorosso la realizza nel derby, vinto 4-1. Finisce la stagione con 18 gol.

Il gol più importante della sua carriera è anche il più decisivo della stagione 2000/01, quella dell'unico scudetto della Roma nell’era moderna, l’unico di Totti, l’unico di Batistuta, l’unico che i romanisti sotto i quaranta possono sentire loro. È il novantesimo, la Juve è avanti 2-1 e noi abbiamo gli occhi altrove, fuori area, su Nakata che carica il destro. È in quel momento che Montella scatta verso la porta, gli altri tredici giocatori in area sono fermi, come noi, ad aspettare il tiro. Il secondo a reagire è Montero, giusto un attimo prima della parata difettosa di van der Sar, ed è troppo tardi perché a quel punto Montella si sta già coordinando, al solito in modo eccezionale, per mettere in porta una palla difficile, rimasta a mezz’aria precisamente in quello spazio ridotto verso il quale si era diretto. Né fiuto, né senso della posizione, ma una forma di speciale perspicacia calcistica. Non è il pallone che va da lui, ma il contrario. Guardare Vincenzo Montella giocare a calcio dava l’impressione che trovarsi nel posto giusto al momento giusto fosse un evento ordinario.

Caressa già ci avvisava che il calcio è strano.

Dei suoi 13 gol in quel campionato, ben 6 li fa mettendo in rete una respinta del portiere: quella squadra è uno spadaccino che sa ferire anche con i colpi che l'avversario riesce a parare. Ma se in campo attacca, fuori Montella cerca quotidianamente di difendersi, preoccupato dell’aspetto pubblico del calcio di alto livello, dell’attenzione dei media, dell’indiscreta passione della città: «A Roma ti fanno sentire un pezzo della famiglia di ognuno, ed è una cosa che nella quotidianità mi ha dato una grandissima carica. Però essere figlio, fratello, amico di tutti può anche pesare, è difficoltoso».

Non indossa maschere particolari, non si è creato un personaggio: il suo modo di sfuggirci è passare inosservato. Se potesse scegliere, probabilmente Montella giocherebbe a calcio con un profilo anonimo. Pure la sua esultanza, vista da questa prospettiva, ha una funzione protettiva. Gli consente di controllarsi nei momenti di maggiore gioia, sua e collettiva, nei quali spesso c’è il rischio di lasciarsi andare. Montella gestisce la sua emozione, tiene a distanza quella dei compagni, allargando le braccia e ondeggiando, simulando il volo di un velivolo meccanico. Anche dopo i sui gol più importanti, c’è come una patina protettiva tra lui e il delirio che gli scoppia intorno. Gli piace giocare a calcio, fare il centravanti, e che lo debba fare davanti a milioni di occhi non è una buona ragione per concedersi ogni volta.

Vincenzo Montella è l’uomo del gol più importante dell’ultimo scudetto, quello che ha segnato 11 volte nelle ultime 15 tiratissime partite di quella stagione, l’unico uomo ad aver mai fatto quattro gol in un derby di Roma. Eppure il legame con la tifoseria romanista non è forte e intenso come questi presupposti vorrebbero. Ed è così per tutte le sue piazze: dal Castellani alle due anime di Marassi fino all’Olimpico, Montella si è preso sempre la responsabilità delle sue giocate, tenendosi a distanza dalle emozioni che producevano. Occupandosi del tifo intorno come di un mostro benevolo da assecondare quel tanto che basta per non indispettirlo.

Per vedere Montella fuori controllo bisogna minare la ragione stessa del suo essere lì: non farlo giocare. Nel momento in cui aveva accettato il trasferimento alla Roma l’allenatore era Zdenek Zeman, ma al suo arrivo a Trigoria Vincenzo trova Fabio Capello, che per tutta la stagione dello scudetto lo tiene spesso in panchina, inclusa la potenzialmente definitiva trasferta di Napoli, dove la Roma, in caso di vittoria, è campione d’Italia.

All’inizio del secondo tempo Capello manda Vincenzo a scaldarsi, per poi chiedergli di entrare a soli 7 minuti dal novantesimo, subito dopo il pareggio del Napoli. Nonostante la delicatezza del momento Montella non riesce a trattenersi, sbotta, insulta l’allenatore, ricambiato, e gli scaglia contro una bottiglia di plastica. Il giorno dopo si scusa dalle pagine del suo sito (che oggi non ha più: il vecchio dominio è in vendita, per chi fosse interessato): «Chi mi conosce sa che non sono così (...)», « (...) Adesso dobbiamo pensare unicamente alla partita decisiva contro il Parma (...)», « (...) Non importa chi giocherà (...)». Contro il Parma Vincenzo partirà titolare e segnerà il secondo gol, su respinta del portiere. Tredici anni dopo dirà che da Capello ha imparato la gestione del gruppo, e lo dirà da un palco, in piedi accanto a Capello stesso.

Il compiaciuto stupore sul volto di Don Fabio.

Molta più panchina che alla Roma, anche se senza lamentarsi, Vincenzo la fa in Nazionale, dove benché sia ormai stabilmente tra i convocati, non riesce quasi mai a partire titolare, sempre chiuso da Vieri e Inzaghi. Il suo primo gol lo segna in amichevole contro il Sudafrica, un pallonetto dolcissimo; il secondo e il terzo a Leeds contro l’Inghilterra: un meraviglioso sinistro a giro sotto l’incrocio, praticamente da fermo, col difensore davanti; poi un rigore procurato da "Big Mac" Maccarone, scattato in area su filtrante di Vincenzo. Sono i soli tre gol di Montella con la maglia azzurra.

Inzaghi in quel momento ne ha già messi dentro 15, a fine carriera saranno 25. Montella non sa bene come spiegarselo: «Chi era più forte come centravanti? Via, non scherziamo. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come facesse a segnare tanti gol. Se scomponi il centravanti Inzaghi trovi ben poco di interessante. Non aveva dribbling, non aveva tiro da fuori. Era più scarso rispetto a tanti bomber che hanno avuto la metà del suo successo. Però lui nel suo lavoro ci ha messo tenacia, convinzione, rabbia. La grinta ha pagato più del talento». Questa dichiarazione è di pochi mesi fa, prima dell’ultimo Milan-Fiorentina, e ci dice forse più di Montella stesso che non di Inzaghi.

Per prima cosa, le caratteristiche a cui Vincenzo riconduce il successo del poco talentuoso Pippo (tenacia, convinzione, rabbia, grinta) sono esclusivamente mentali, legate alla volontà, alla voglia di arrivare. Non menziona niente di ciò che meglio spiega Inzaghi, quella sorta di ossessione per il gol, istintiva e trascendente, alla quale riusciva ad abbandonare sé stesso, una volta in campo, assieme a ogni ambizione estetica, vergogna, senso della misura. Tant’è che Inzaghi gli risponde senza citare qualità specifiche, ma limitandosi a ricordare il numero dei suoi gol, l’unica cifra del suo successo: «Montella dice che non ero forte tecnicamente? Se mi trova uno che fa 316 gol mi fa un piacere...».

In secondo luogo, c’è l’espressione “nel suo lavoro”, riferita alla carriera di calciatore di Inzaghi, che davvero suona distante da ciò che sembravano essere per Pippo il calcio e il gol, molto più una necessità che non un lavoro. È per Montella che il calcio era un lavoro, bellissimo, appassionante, ma pur sempre un qualcosa a cui porre dei paletti, a cui dare il corpo e la mente, ma non necessariamente l’anima. Montella osservava i compagni, capiva il gioco, sceglieva il tempo e il luogo dei suoi movimenti così bene da trovarsi spesso prima di tutti nella posizione migliore per segnare. Inzaghi era dinamismo frenetico in connessione con il suo istinto, in attesa di una rivelazione: «Mi faccio paura: quando parte la palla, so già dove arriverà». Montella trovava soluzioni, Inzaghi le sapeva già.

Anche in occasione del suo unico Mondiale, Montella finisce in panchina a guardare due punte sgraziate come Vieri e Inzaghi. È il 2002, Bobo in quella fase è di un altro livello, Pippo invece non fa che accumulare e fallire occasioni da gol (e quando le segna gliele annullano). Siamo sotto contro il Messico a causa del diabolico gol di Jared Borgetti, Montella entra al 56' al posto di Inzaghi, e sarà la sua sola apparizione in una Coppa del Mondo. Dopo 5 minuti ha già segnato, scavalcando il portiere in uscita su lancio di Totti, ma è in fuorigioco di pochissimo e il gol non viene convalidato. Poi arriva col sinistro su una palla che rimbalza comoda all’altezza del dischetto e la scaraventa di qualche metro sopra la traversa. Il minuto successivo trova la soluzione: un cross tanto improvviso quanto lento che rimbalza indisturbato dentro l’area e incoccia a sei metri dalla porta la testa di Del Piero, che aveva capito.

Non perdetevi il brutale ma devoto triplice fischio del signor Simon, al minuto 9:17.

«Palla eccezionale, palla istintiva», esclama il commentatore del video, ma sul secondo punto si sbaglia. Mentre il pallone gli rimbalzava davanti, proveniente dalla rimessa laterale di Tommasi, Montella ha guardato in area e visualizzato quella linea di passaggio. Anche nella giocata più decisiva della sua storia azzurra, Vincenzo crea l’equivoco di far passare per istinto ciò che in realtà era stato calcolo.

Quando Capello se ne va da Roma, nell’estate del 2004, Montella ha 30 anni e sono in molti a pensare che abbia ormai i suoi giorni migliori alle spalle. Negli anni successivi allo scudetto, in assenza di integrità fisica, serenità, continuità, Vincenzo non è riuscito a esprimersi completamente e la sua carriera ha rallentato proprio nella fase in cui avrebbe dovuto trovare piena stabilità ad alto livello, idealmente con due o tre stagioni in fila attorno ai venti gol. Ma una volta andatosene Capello, e nonostante la Roma cambi cinque allenatori e finisca ottava, Montella sfodera un’annata da 21 gol in campionato, tre in meno del capocannoniere Cristiano Lucarelli.

Lui ricorda con piacere il primo, un tocco in uscita a scavalcare il portiere nella prima giornata, in casa contro la Fiorentina: «Mi davano per finito». Non era finito, ma quasi. L’anno dopo l’allenatore di Montella sarà Luciano Spalletti, per la terza volta in carriera, in tre squadre diverse. Per la Roma inizia una nuova fase nella quale Vincenzo non sa entrare. Gioca poco e neppure tanto bene, segna un solo gol in 13 presenze e a metà dell’anno successivo preferisce andarsene in Erasmus a Londra, accettando un’offerta del Fulham per farsi sei mesi di prestito in Premier League. Esordisce in FA Cup con una doppietta che riacchiappa il Leicester, avanti 3-1. Il Fulham vincerà poi al 94' con un gol geniale di Wayne Routledge.

Due di quelli da 30 centimetri.

In quel periodo, un attaccante italiano a fine carriera poteva ancora andare a sfiorire in Inghilterra trovando considerazione e affetto (il coro dei tifosi del Fulham per Vincenzo: «Oh oh oh, Montella, he comes from Italy, he fucking hates Chelsea, Montella, Oh oh oh»). E benché poco rilevanti dal punto di vista calcistico (anche se in 12 presenze totali fa 6 gol), quei sei mesi di vita a Londra potrebbero rivelarsi significativi nel caso Vincenzo decidesse, a un certo punto, di provare ad allenare all’estero.

Dopo la parentesi londinese, Montella torna alla Sampdoria, sempre in prestito, ed è lì che inizia a pensare e preparare seriamente il suo futuro da allenatore, durante quaranta giorni in cui è costretto a non allenarsi per un infortunio. Non è più un grande attaccante ed è chiaro che non tornerà mai a esserlo, si tratta solo di decidere quando smettere, come, dove. Lascia la Samp e torna a Roma per la sua ultima stagione da calciatore, quella del 2008/09. È anche la penultima in giallorosso per Luciano Spalletti e con lui Montella cerca spesso un confronto, soprattutto riguardo al lavoro sul campo: «È maniacale nel preparare l’allenamento, sta attento a ogni situazione. Sicuramente Spalletti è stato uno spunto per creare il mio metodo di lavoro. Tra gli allenatori che ho avuto, lui in campo è il numero uno».

Inizia dai Giovanissimi della Roma, d’accordo con Daniele Pradè e Bruno Conti, che lo hanno instradato al mestiere. Dopo un anno e mezzo sostituisce Claudio Ranieri sulla panchina della prima squadra, a neanche 37 anni. Sceglie un 4-2-3-1 in cui la regia è affidata a David Pizarro, rigettato nella mischia quando sembrava sul piede di partenza: nelle squadre di Montella c'è sempre un playmaker coi piedi buoni a dettare il ritmo. Vince la prima, a Bologna, lasciando Totti fuori dalla formazione titolare. Vince anche il derby («Una partita diversa, in cui chi riesce a gestire meglio le emozioni, l’emotività, riesce poi anche a esprimersi meglio sul campo») perde in casa con la Juve e col Palermo. Finisce sesto, rimontando due posizioni e qualificandosi per l’Europa League. La stagione successiva la Roma punta su Luis Enrique e Vincenzo succede a Diego Simeone alla guida del Catania. In Sicilia può disporre di buoni esterni, "el Papu" Gómez e Barrientos, e allora passa al 4-3-3, stavolta con Lodi in regia. Il piano è attaccare lo spazio con transizioni veloci, il risultato sono 48 punti, all’epoca record degli etnei in Serie A.

Quando Vincenzo arriva a Firenze, sulla panchina della Viola, è praticamente un ritorno. L’aveva conosciuta da bambino: come tutta la Toscana centrale, anche Empoli gravita intorno a Firenze, che attrae ma non trattiene. Montella è cresciuto considerandola la città, «un sogno da raggiungere e un’evasione», andandoci di nascosto a ballare qualche sera, quando ormai era maggiorenne, consapevole che a Empoli si sarebbe comunque venuto a sapere.

Oggi vive in centro, ogni tanto passeggia di notte, allena la Fiorentina per il terzo anno di fila. L’ha presa dopo un’annata catastrofica, 13° posto, salvezza raggiunta alla penultima giornata, con l’ex compagno Mihajlovic sostituito in corsa da Delio Rossi, allontanato a sua volta dopo i pugni ad Adem Ljajic; l’ha portata subito molto più in alto, due volte quarta (in attesa di vedere come finirà stavolta). Montella e la Fiorentina stanno bene insieme perché restano entrambi serenamente a un passo dalla compiutezza. Il primo anno ha sfiorato il terzo posto, giocando un calcio coraggioso, aggressivo, spesso divertente, portando alto il pressing per recuperare presto il possesso e darlo in gestione a un centrocampo raro, di pura impostazione, dove accanto al fido Pizarro operano Borja Valero, Aquilani o Mati Fernández, tutti uomini con ottimi piedi e anche evidenti lacune atletiche: «Più i tuoi migliori giocatori hanno la palla, più possibilità hai di vincere. Se qualcuno mi convincesse che è meglio lasciare il possesso ai nostri avversari, non avrei nessun problema a farlo». La difesa è spesso a 3, anche se Montella sa variare in base al materiale che ha, senza dogmatismi. Davanti c’è Toni, costeggiato da Jovetic.

Nella sua breve carriera in panchina Vincenzo ha sempre preferito schierare centravanti che lavorano per la squadra: Totti a Roma (più di Borriello), Bergessio a Catania (più di Maxi López). Fosse stato l’allenatore di sé stesso, probabilmente si sarebbe fatto giocare poco. E la chiave del suo periodo fiorentino è proprio là davanti dove, dopo la quasi qualificazione per la Champions del 2012/13, si è cercato, e mancato, il salto di qualità con Giuseppe Rossi e Mario Gómez, entrambi assenti per motivi e in modi diversi. Questa è insieme la sventura e l’alibi dell’allenatore Vincenzo Montella, sul quale è ancora complicato dare un giudizio definito. Montella è difficile da misurare, perché non ha un obiettivo quantificabile: «Quando sono arrivato, mi è stato chiesto di fare bene ma anche di divertire e riempire lo stadio».

Questo potrebbe essere il suo ultimo anno a Firenze e fin qui ha tutta l’aria di una mera stagione di transizione, gestita per non lasciare né rimpianti né nostalgia (anche se l’arrivo di Diamanti e Salah potrebbe vivacizzarla). Per Vincenzo si parla già di piazze più grandi e non è in questi mesi che capiremo il suo vero valore, né che direzione voglia dare alla sua carriera, anche se una valutazione complessiva del Montella allenatore a un certo punto, inevitabilmente, dovrà arrivare. Ciò che forse non capiremo mai è invece chi sia lui, che di sé parla poco e con imbarazzo, ha chiuso il suo sito e non ha account sui social network: «Non è facile stare vicino a me, sembro perfetto ma nascondo tanti difetti». Uomo nascosto di fronte a tutti, calcolatore senza essere freddo e perciò costretto a controllare ogni gesto, ogni parola, perché sa che lo stiamo facendo anche noi, l’unica cosa che Vincenzo ha davvero comunicato durante tutta la sua vita pubblica è che vuole essere giudicato solo per quello che ha fatto sul prato verde, e per quello che sul prato verde fanno e faranno le sue squadre. Per il suo lavoro, insomma, e il resto non siamo tenuti a saperlo: secondo lui, chi sia fuori dall’ufficio Vincenzo Montella è una faccenda che non ci riguarda.

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