
Se la vita fosse una storia americana, le cose belle accadrebbero a chi se le merita. Almeno nel climax conclusivo.
Quando Madison Keys ha sconfitto in semifinale la numero due del mondo Iga Świątek, il pubblico del tennis ha detto addio alla prima finale Slam tra la polacca e la numero uno Aryna Sabalenka. Le due da qualche anno sono le tenniste più forti in assoluto, staccate dalle altre da un gradino di eccellenza. La finale del WTA Master 1000 di Madrid dell’anno scorso, premiata come la partita più bella dell’anno, non ha fatto altro che rendere l’attesa ancora più insopportabile.
Świątek sui campi di Melbourne fino a quel momento era stata opprimente: in cinque partite aveva perso quattordici game in tutto. Alla vigilia della sesta partita, la penultima del torneo, ci si aspettava che non sarebbe potuto succedere nulla di diverso da quello che pareva scritto. Tutto era pronto per la finale più attesa.
Madison Keys dal canto suo di game, e di set, ne aveva persi. Tutte le sue partite erano state combattute, quasi tutte erano finite al terzo set. Si presentava all’incontro con la polacca con più fatica nelle gambe e meno abitudine alle grandi occasioni.
Non che non ci fossero state, le grandi occasioni. La prima della sua carriera era stata proprio a Melbourne, dieci anni fa. Allora Keys aveva diciannove anni, ma era già la futura stella del tennis statunitense. Tanto che quando aveva raggiunto la semifinale, il New York Times aveva titolato l’articolo Long anticipated, Madison Keys’s big moment is here, il suo momento tanto atteso. Da quanto, in una vita così breve?
Keys a soli quattordici anni aveva vinto il suo primo match nel circuito maggiore, la più giovane da Martina Hingis. Poi a sedici aveva vinto il primo round agli Us Open e a diciassette era arrivata al terzo turno agli Open di Australia. A diciotto anni, dopo la sconfitta al secondo turno al Roland Garros era scoppiata in lacrime e le avevano chiesto quanto dovesse essere difficile essere pazienti quando si sa di avere il potenziale. Molto, molto difficile.
In semifinale a Melbourne nel 2015 la aspettava Serena Williams. La stella più grande del tennis femminile aveva detto alla vigilia del match che era «grandioso per me e Venus, perché sappiamo che finalmente ci sono altre americane che stanno costantemente giocando bene e meglio, dimostrando che vogliono essere le più forti al mondo». Keys uscì sconfitta dalla battaglia generazionale contro Williams, ma il suo momento sarebbe arrivato, le ripetevano. Anche Serena dopo la vittoria dichiarò: «È stato un onore per me giocare con qualcuno che sarà numero uno in futuro».
Dieci anni dopo, a meno di un mese dal compiere trent’anni – senza essere mai stata ancora numero uno – la statunitense si è ritrovata di nuovo in semifinale a Melbourne, stavolta contro una Iga Świątek ispirata e apparentemente inarrestabile. La sconfitta sarebbe comunque sembrata un successo, per l’ennesima volta la statunitense avrebbe dimostrato di avere il talento per giocarsela con le migliori, quasi. E invece ha sconfitto Świątek: in rimonta, annullando match point, cogliendo l’opportunità nel momento stesso in cui si è presentata (5-7, 6-1, 7-6). L’ennesima e penultima fatica di un torneo infinito, in cui ha battuto in fila Danielle Collins (testa di serie numero dieci), Elena Rybakina (numero sei), Elina Svitolina (ventotto) prima della polacca. Così è arrivata la seconda finale Slam della sua carriera.
Fino a questo momento, la semifinale era sempre stata il termine naturale delle avventure positive di Keys negli Slam: ne aveva giocate sei in totale fino all’inizio degli Australian Open di quest’anno. Solo in un’occasione aveva raggiunto anche la finale: gli Us Open del 2017. Keys aveva ormai ventidue anni, era la testa di serie numero quindici e la grande favorita contro la connazionale Sloane Stephens (che veniva da un infortunio ed era la 957 della classifica WTA all’inizio dell’estate). Però si fece schiacciare dal momento, dall’ansia, dal favore delle stelle e dalle promesse lontane. In quarantanove minuti la partita era scivolata via (6-0, 6-3). Intanto ogni anno emergevano adolescenti nuove da riempire di promesse, mentre Keys restava nei dintorni della top ten della classifica. A volte poco sopra, o poco sotto, comunque lontana dalla gloria predetta e dalla prima posizione del ranking.
Nel 2023, non appena suo marito Bjorn Fratangelo si è ritirato dal tennis giocato, Keys lo ha ingaggiato come coach. Fratangelo, che si chiama Bjorn come Borg, condivide con la compagna la tragedia di essere un enfant prodige: campione Slam e numero due del mondo da junior, si è fermato alla novantanovesima posizione del ranking ATP.
Insieme, i due hanno sviluppato il nuovo gioco di Keys, più maturo e consapevole anche dei limiti del suo corpo: «La velocità è sempre più alta, avevo la sensazione di invecchiare mentre mi sembrava che le altre ringiovanissero. Dovevo cambiare per restare competitiva».
Ha modificato il movimento del servizio e – cosa particolarmente insolita per età e fase della carriera – ha sostituito la sua Wilson, un po’ old school, per una Yonex: «Bjorn è "malato" per queste cose, le racchette, le corde… Ho lasciato che fosse lui a scegliere. Mi sono innamorata abbastanza velocemente della racchetta che sto usando. Sento di poter spingere di più e allo stesso tempo di avere più controllo».
La nuova versione di Keys si è subito dimostrata competitiva e affamata con la vittoria al WTA 500 di Adelaide. Jessica Pegula, che è stata l’avversaria in finale, ha detto a tutti alla vigilia degli Australian Open «se Madison gioca bene la metà di quanto ha fatto contro di me nel terzo set, vincerà il titolo».
Ma si sa che gli Slam sono un’altra faccenda, un exploit non basta, soprattutto con un tabellone come quello che ha dovuto affrontare l’americana. In perfetto ordine climatico, l’ultimo ostacolo al compimento di questa storia è anche il più terrificante. La numero uno del mondo, la giocatrice in assoluto più forte del circuito sul cemento, lanciata verso il terzo titolo consecutivo a Melbourne: Aryna Sabalenka.
Keys, per almeno la quarta volta nel torneo, comincia con sfavore nei pronostici e nulla da perdere.
La bielorussa parte subito malissimo: è contratta, i servizi e i tentativi di aggressione volano fuori. Tutti i fantasmi della Sabalenka passata tornano ad annebbiarle la mente. È un monologo dell’americana che sfoggia tutte le sue novità, come lo slice di rovescio che manda fuori giri la favorita. Strappa il servizio all’avversaria tre volte e vince il primo set facilmente per 6-3.
La numero uno del mondo però trova nel secondo parziale continuità e strategia. Capisce che la chiave è quella di far valere le battaglie precedenti di Keys: la fa correre dietro palle corte crudeli e la statunitense sembra aver terminato tutte le energie fisiche e nervose. La partita è bella, di quella bellezza particolare che hanno le finali importanti, carica di tensione, terrore, nervi, euforia, di nuovo terrore, stanchezza, lucidità. Poi gioia e dolore, contemporanee che sono costrette a guardarsi.
Eccoci al terzo set, la resa dei conti finale. Non poteva non essere così: tutti gli eroi dell’epica devono soffrire e soprattutto devono affrontare il nemico al meglio delle possibilità. La vittoria non può essere il frutto della fortuna e infatti non lo è. L’americana ha il vantaggio psicologico di servire per prima e non trema, come aveva fatto tante volte in passato: «Ci sono stati dei match in cui mi sono sentita che nei momenti importanti non sono stata coraggiosa come avrei voluto e diventavo un po’ passiva. Restavo sempre con un bel po’ di rimpianti perché non è così che voglio giocare a tennis», ha confessato a Bluezone dopo la vittoria. Il game per salire sul 6-5 si complica, ogni punto interlocutorio la telecamera inquadra Keys che si ripete ossessiva c’mon c’mon c’mon. L’underdog si ritrova 30 pari e seconda di servizio, il terreno preferito delle più forti per intimidire fino all’errore. Ora è il momento di essere coraggiosa, di essere forte e reattiva. L’americana spinge fin dalla battuta, profonda e veloce, e poi tira un vincente di dritto sulla riga: 40-30. Poi servizio e dritto in contropiede: game. I due punti perfetti, il manifesto della poetica ritrovata del suo tennis.
Ora tocca a Sabalenka. La favorita va a servire per raggiungere l’avversaria sul 6 pari: ecco l’occasione. «Nell’ultimo game mi sono detta “provaci e basta”, cioè nel caso peggiore c’è il match tie break», ha raccontato ai microfoni di Espn dopo la partita. Keys mette subito le cose in chiaro, aggredisce la prima di servizio e provoca la stecca della bielorussa: 0-15. Risposta fulminante di rovescio lungolinea: 0-30. Prova la terza aggressione di rovescio, troppo lunga: 15-30. Sabalenka inizia bene lo scambio, mette in difficoltà l’avversaria, però manca di lucidità e cambia direzione con un colpo di ritardo, palla in rete: 15-40. Larga la risposta: 30-40. Keys aggredisce di nuovo dalla risposta, prende in mano lo scambio e si costruisce l’opportunità per il dritto a sventaglio vincente. Finisce così: 6-3, 2-6, 7-5.
Sabalenka grida qualcosa al suo box, distrugge la racchetta prima di concedere l’abbraccio convenevole, poi piange nascosta male dall’asciugamano prima di uscire direttamente dal campo – un momento di umanità raro in uno sport in cui ogni gesto è ultra analizzato e tutto è maleducazione. Qualche volta la bielorussa mi ricorda un po’ un giovane Djokovic, nell’ansia di essere amata. Un’ansia che al serbo è passata con gli anni: sono sparite le imitazioni e ormai ha accettato il suo ruolo di cattivo. Lei dal canto suo è più solare e spontanea e le sue battute non la rendono un personaggio altrettanto tragico. Quando sorride il suo viso non sembra una maschera di dolore come quello di Nole, che è più bello quando urla di rabbia e voglia.
Questa volta la numero uno non cerca di accontentare il pubblico e manifesta il suo dolore: crolla al tappeto e svolge alla perfezione la parte di Ivan Drago – che alla fine faceva anche lui un po’ compassione, come tutte le persone gonfie di botte. Dopo, in conferenza stampa dirà «avevo bisogno di tirare fuori quelle emozioni negative alla fine per essere in grado di fare un discorso».
Come da protocollo, tocca alla perdente parlare per prima e fare tanti complimenti e ringraziamenti vari: «Madison wow che torneo! Hai lottato tantissimo per questo trofeo con un tennis incredibile. Stasera hai spaccato. Goditi i festeggiamenti e la parte divertente. Dovrei dire qualcosa al mio team? Come al solito è colpa vostra, non vi voglio vedere per una settimana, vi odio. No davvero, grazie per tutto quello che fate per me e bla bla bla. No comunque abbiamo fatto del nostro meglio e non avrei potuto fare di più contro Madison». Sabalenka da vera veterana lascia il giusto spazio per le risate del pubblico, le hanno fatto bene i venti secondi di furia.
Poi parla Keys: «Ok, abbiate pazienza, perché piangerò di sicuro». Guarda Sabalenka negli occhi e le dice «Innanzitutto Aryna, gioco incredibile. Sono contenta di essermi finalmente vendicata». Anche qui si lascia lo spazio alle risate del pubblico. La vincitrice si riferisce all’ultima semifinale Slam, a New York nel 2023, persa proprio contro la bielorussa. In quell’occasione Keys aveva vinto il primo set 6-0, era andata a servire per il match nel secondo, per poi essere rimontata e sconfitta senza pietà davanti al pubblico di casa. Aveva ventotto anni e per molti, soprattutto per lei, sembrava improbabile ottenere un’altra occasione del genere. Invece eccola qui: «Grazie a tutti quelli che hanno fatto il tifo per me, mi sento a casa. Ho fatto la mia prima semifinale qui a Melbourne e ora ho vinto il mio primo Slam nello stesso posto, significa tutto per me». Gli occhi si fanno lucidi, come previsto: «L’ho voluto per così tanto. Ho fatto un’altra finale e non è andata come volevo e non sapevo se sarei mai stata in grado di tornare in questa posizione e cercare di vincere di nuovo un trofeo. Il mio team ha creduto in me in ogni momento quindi grazie davvero». Ogni singola persona inquadrata piange. È la conclusione del climax.
Una storia talmente bella, una trama di un feel good movie pieno di insegnamenti importanti già praticamente scritta: la tennista americana ex promessa che non riusciva a esprimere il suo potenziale a pieno; l’allenatore marito a sua volta ex enfant prodige; l’avversaria, fortissima, enorme e pure bielorussa. Una rivincita che parte da lontano, dalla voglia e dalla capacità di rinascita della coppia di sposi. Una storia talmente bella da salvare il mito del sogno a stelle e strisce ancora per qualche mese.
Il viaggio dell’eroina che testimonia che il talento e il lavoro e la capacità di adattamento portano un successo inevitabile. Un canto di epica americana, in cui le cose belle sono accadute a chi se le è meritate e nel momento più giusto.