Nel corso della mia carriera universitaria, spesso mi sono ritrovato a leggere e studiare saggi simil-accademici che cercassero di innalzare il discorso attorno alla telecronaca sportiva. Immancabilmente si passava dai Nicolò Carosio ai Bruno Pizzul, dai Rino Tommasi ai Nando Martellini, fino ad arrivare a Caressa e Bergomi. Io, dentro di me, pensavo: ma com’è possibile che vi siate persi Flavio Tranquillo e Federico Buffa?
Per anni, Flavio & Fede hanno rappresentato il punto di riferimento per “Noi Del Basket”, la killer-move da sfoderare quando sostenevamo—immaturamente come tutti gli adolescenti—che il nostro non era solo lo sport più figo della Terra, ma anche quello raccontato meglio, che noi avevamo qualcosa che gli altri non potevano neanche immaginare. Oggi Flavio e Fede non sono più insieme dietro a un microfono, anche se verranno riuniti a Natale per uno speciale che andrà in onda su SKY Sport. E se Buffa è passato a fare altre cose (di cui parleremo un’altra volta) con enorme successo, Flavio è rimasto al suo posto a capo della redazione basket, che mai come negli ultimi anni è diventato uno dei prodotti “di punta” dello sport in Italia. È paradossale che per avere successo con un pubblico più “mainstream” i due si siano dovuti separare, ma adesso tutti si sono accorti di che cosa sono sempre stati.
Meglio tardi che mai, mi verrebbe da dire.
Dario Vismara: Torniamo indietro di un paio di mesi. Nei giorni degli Europei, le mie timeline di Facebook e Twitter erano sommerse dai video non solo degli Azzurri, ma degli Azzurri con il tuo commento, come se fossero emozionanti tanto quanto i canestri del Beli o del Gallo, come se fossi una sorta di sesto uomo in campo. Hai avuto la sensazione di avere un’esposizione maggiore in quei giorni?
Flavio Tranquillo: Un po’ è buffo, perché io sono andato là con l’obiettivo di evitare di essere associato alle vittorie dell’Italia come una festa e alle sconfitte come un qualcosa di depressivo. È ancora più buffo il fatto che penso e spero di esserci riuscito, nel senso che non mi sembra di aver dato in escandescenze urlando nudo sulla tribuna stampa e sventolando la camicia o il tricolore quando l’Italia vinceva. Detto questo, la risposta tecnica e corretta è sì. In passato il sismografo del telefonino e dei social si è mosso tante volte, ma un uragano così non si era mai visto, specialmente dopo la partita con la Spagna. Però non credo sia da associare a me in quanto persona o in quanto telecronista: è che l’Europeo, per quando c’è stato—a settembre senza altra concorrenza di pallacanestro e relativa di altre cose—e per come è stato promosso—bene durante l’estate, quando comunque tutti hanno un po’ più tempo—abbia catalizzato in qualche maniera una voglia di pallacanestro che era latente nell’aria già da un po’. E lì si è catalizzata in quel secondo tempo da 63 punti che ha fatto venir fuori tutta questa roba.
Un tuffo nei ricordi con il video di Giovanni Serio per SKY Sport.
Nel tuo libro Altro tiro, Altro giro, Altro regalo (Baldini & Castoldi), c’è una parte molto importante, che personalmente è quella che mi è piaciuta di più, ovvero quella della mentalità “Result over Process”. Dopo gli Europei hai anche scritto un post sul tuo sito a riguardo e secondo me in molti di quelli che hanno definito come un “fallimento” questa spedizione fanno parte della schiera di quelli che fanno dipendere l’analisi dal risultato finale, ignorando il processo che sta dietro al raggiungimento dello stesso. Come si combatte questa mentalità che definirei, purtroppo, molto “italiana”—quella per cui se vinci sei un genio e se perdi è un fallimento? Perché c’è stato un processo di crescita di quella squadra che secondo me non è stato approfondito.
È impressionante come ancora adesso il 95% del dibattito sia attorno al fatto che il quinto/sesto posto sia un fallimento, un capolavoro o la normalità. Io capisco che questa sia una parte dell’analisi, ma quando diventa tutta l’analisi, fa veramente scappar da ridere. Ci sono dei motivi molto precisi per cui succede questo e hanno a che fare con dinamiche—legittime e rispettabili, per carità—che appartengono agli attori del discorso Nazionale. Il punto non è tanto mettersi a discutere se il sesto posto sia un capolavoro o un fallimento, non mi interessa. Il punto secondo me è capire come noi veniamo portati a parlare di una cosa perché ci viene “imposta” dai protagonisti che parlano effettivamente di quello. Cioè, secondo me questa è la discussione che dietro le quinte c’è stata a lungo in vari punti dell’albergo della Nazionale. Non dai giocatori, che giustamente giocano, ma dai vari crocchi di allenatori/dirigenti/presidenti che parlavano proprio di questo. Non è obbligatorio che la critica parli di questo però.
Mi piacerebbe che la critica parlasse dell’evoluzione del gruppo, e anche qui: se l’evoluzione del gruppo è solo: “Sono dei mocciosi viziati” versus “We Are Family”, fa un po’ ridere. Perché lì dentro—e non è un caso che non se ne parli—ci sono dinamiche molto interessanti. Che non possono essere solo di “We Are Family” e nemmeno sono tutte di conflittualità o chissà che cosa, però ci sono delle dinamiche interessanti. Invece noi pencoliamo un po’ anche lì in “che bravi che sono” o “che scarsi che sono”, “son viziatissimi” oppure “sono degli eroi perché vengono in Nazionale”. Riuscire ad andare oltre è difficile, perché abbiamo l’abitudine a fare nostra la discussione dietro le quinte pensando che farla nostra poi significhi fare i Grandi Giornalisti. È ovvio che c’è un problema da questo punto di vista tra Petrucci e Pianigiani [NdR: l’intervista è stata registrata prima dell’esonero del CT]. Però, come dicono a Bologna: bòna, sono fatti loro. Posso e devo registrarlo, ma non posso impostare la mia valutazione su quello—altrimenti si diventa “Petruccisti” o “Pianigianisti”. Io avrei già dato, nel senso che ho già vissuto un periodo storico in cui era obbligatorio schierarsi da una delle due parti e almeno personalmente dico no, grazie.
Torniamo sulla crescita del basket in Italia. Io non ho vissuto davvero l’epoca di Michael Jordan negli anni ‘90 perché ero troppo piccolo, ma parlandone con altri giornalisti mi è stato detto che comunque la NBA quando MJ era all’apice era più grande rispetto a quello che è adesso. Tu come metti in paragone le due ere? È maggiore adesso o ai tempi di Jordan?
Secondo me il paragone tra le due ere è che la NBA di Jordan è andata da 20 a 85, mentre la NBA di adesso è andata da 85 a 100. È ovvio che 100 è più di 85, ma quello che ha fatto Jordan—“prendendo” una Lega che definire moribonda è esagerato e un po’ letteratura, ma sicuramente molto piatta e con pochissimo polso—l’ha fatta diventare un fenomeno planetario. Certo, per quello che era un fenomeno planetario negli anni ’80 e ’90, che è un concetto diverso rispetto al 2015. Quello che ha fatto Jordan per me è più significativo, ma è ovvio che la NBA sia più grande oggi. Soprattutto, continua a fare boom! boom! boom!, si ingrossa come i popcorn.
Quanto è cresciuta negli ultimi 5 anni, diciamo dal lockout in poi?
Mi sembra che sia sempre più consolidato un continuo trend di crescita. Poi gli spazi sul mercato americano non sono infiniti, quindi lì possono arrivare solo fino a un certo punto. È nel resto del mondo che hanno spazio, anche se siamo abbastanza vicini non dico a una saturazione, ma a un momento in cui si fermerà. Per questo sono molto curioso di vedere che piega prenderanno le cose nei prossimi cinque-dieci anni.
Stando sulla NBA, vorrei esporti una mia idea su Popovich e le sue interviste, perché so che abbiamo un’opinione un po’ diversa. In Eleven Rings, il trainer dei Chicago Bulls Wally Blase raccontava di come Dennis Rodman fosse un genio perché si era creato un personaggio perfetto, nel senso che lui non era realmente così folle, ma comportandosi in un certo modo riusciva a farsi “giustificare dagli altri”, quasi come se la gente si aspettasse che facesse così perché è Dennis Rodman. Allo stesso modo, Popovich si è creato il personaggio dell’Allenatore Che Tratta Male i Giornalisti con le sue interviste e le sue conferenze stampa, e per questo ti chiedo: è giusto che si comporti così? Perché quelli sono comunque professionisti che stanno facendo il loro lavoro.
La risposta è assolutamente no, non è giusto: epidermicamente, e non per corporativismo, mi infastidisce, perché comunque il rispetto è un valore assoluto. Mi dà fastidio quando esagera, ed esagera spesso. Il discorso Popovich però è molto complicato, perché gli esseri umani di un certo tipo di livello sono complicati, non sono fatti di una sola dimensione. Questo è un essere umano complicato e semplicissimo allo stesso tempo, perché ha una sola regola: fa solo e solamente quello che dice lui—e se questo sta bene o no agli altri, ne è contento nella stessa maniera. Non è negoziabile, non c’è neanche uno a San Antonio che possa immaginarsi di andare da Pop e dirgli: “Sai però bisognerebbe…”. C’è uno che può andare e dirgli: “Secondo me non si fa così”—e se c’è, sicuramente si conquista il rispetto di Popovich, però se lo conquista nella misura in cui ha il coraggio di andarglielo a dire. Non è plausibile che lo faccia cambiare. Quindi nella mia valutazione ci scherzo sopra perché so che io non sarei mai quello di NBA TV che tremava, perché non mi ci metterei neanche. So anche però che quando mi è capitato di intervistarlo—ovviamente con raccomandazione—sarei stato seduto anche altri 20 minuti.
L’intervistatrice Doris Burke ha rivelato di essere quasi scoppiata in lacrime dopo questa intervista.
È questo che dà fastidio, perché se solo volesse potrebbe essere incredibilmente interessante.
Però quello è il suo modo. È difficile, ma se tu andassi indietro e riascoltassi tutte le cose che ha detto, troveresti molte dichiarazioni che sembravano cazzate e invece sono esattamente vere. Per dire, l’anno scorso ha detto: «Non sbagliatevi: torniamo sia io che Duncan che Ginobili, anche perché la paga è buona», che era una dichiarazione fortissima e invece tutti hanno preso come una battuta. E invece poi sono tornati tutti e tre e quella della paga era veramente quello che pensava. In questo Popovich è molto complicato e ci sono delle situazioni in cui è oggettivamente maleducato. Poi a me onestamente non verrebbe mai in mente—ma in questo mi rendo conto di essere minoritario—di fare un’intervista in quel momento lì: ho assistito a tutte le conferenze stampa possibili, ma non credo di aver mai fatto più di due domande e l’ultima risale ai tempi di Jordan a Laney High School. Perché non ci credo. Potrei ribaltartela dicendo: ci sono persone educatissime che porgono sempre la battuta giusta e non ritengo che questo sia così maggiore rispetto a quello che dà Popovich nelle sue interviste. Poi io la vedo che, prima di cominciare un’intervista, bisogna poter essere sicuri di dire: “Però la facciamo per davvero ed escludiamo tutta quella serie di cose che è inutile chiedere”. Perché non si può pensare di chiedergli quale avversario teme di più prima della partita, la risposta quale vuoi che sia?
Facendo un altro esempio: Steve Kerr è l’anti-Popovich da un punto di vista mediatico, no? Non foss’altro perché è stato anche dalla nostra parte del microfono. Però che cosa ha fatto prima delle Finali, quando ha detto una bugia 10 minuti prima di gara-4 delle ultime Finali? Il punto è lì: io per prima cosa eliminerei la conferenza stampa prepartita, perché un episodio del genere la destituisce da ogni fondamento. Se Steve Kerr—che è educatissimo, preparatissimo e ha fatto il telecronista—secondo me fa la cosa giusta nel non rivelare che Iguodala partirà in quintetto e facendo così guadagna 20 minuti rispetto a David Blatt, che non ha tempo di reagire alla mossa di Draymond Green da 5, lo deve fare. Lo pagano per quello. E questa è la logica di Popovich: non è maleducato per il gusto di essere maleducato, ma è la sua maniera—secondo me eh, per quello che si può capire da lontano, cioè pochissimo—di dire al proprietario Peter Holt: “Io per fare bene il mio lavoro faccio anche il maleducato coi giornalisti, se serve per vincere”.
Spesso una delle critiche che è stata mossa a te e a Federico Buffa è che il vostro modo di parlare “allontana le persone”, che è una cosa che io non ho mai capito, perché a me è successa esattamente la cosa opposta. Nel senso, io quando ero ragazzino ho iniziato ad appassionarmi al basket proprio perché volevo capire cosa dicevate, è stata quella la spinta che mi ha portato a diventare un “giornalista di basket” oggi. Tu pensi che ci sia una maggioranza silenziosa che si avvicina alla pallacanestro grazie a voi?
[Ci pensa e sospira] Giuro che non lo so. Non mi sono mai posto il problema di come attirare o non respingere le persone. Questo non significa che non mi sia posto il problema di vedere se quello che dicevo fosse comprensibile o meno. Il fatto che sia comprensibile per me non è legato—sempre per rimanere al solito esempio, che poi è di un superficiale terribile—al fatto di dire “pick and roll”. Già dire quello non è esattamente parlare con il linguaggio che usano al congresso di chirurgia cardiovascolare dei più grandi primari del mondo. “Pick and roll” è un signore che va vicino a un altro e cerca di aiutarlo per avere più spazio per palleggiare. Se uno vuole capire pick and roll, anche se non sa cosa vuol dire, ha tutti gli elementi per capirlo, specialmente oggi. Non può essere tutto legato al modo in cui parliamo.
Io credo che questa sia una questione di quella che Aldo Giordani chiamava “la parrocchietta”, nel senso che una cosa così interessa e viene studiata da pochissime persone, e viene utilizzata in maniera alternativa in base a dove va la corrente. Ora io potrei dire che, visto che gli Europei hanno dato ottimi risultati, tutti volevano sentire parlare come parlo io, ma sarei un idiota se dicessi questo. Di certo mi sento di dire che gli Europei—e non solo quelli, perché il trend era molto visibile anche prima—dimostrano che poi ognuno guarda quello che vuole guardare e sente quello che vuole sentire. Ci sarà il leader politico o il guru del marketing che può programmare il proprio linguaggio a mo’ di pifferaio magico, ma se veramente qualcuno pensa che possa esistere uno che, facendo una telecronaca, si programma in modo da massimizzare l’audience o il gradimento di quelli che sentono, io temo che non abbia mai fatto una telecronaca in vista sua. Una telecronaca è una serie di algoritmi per descrivere una situazione. Punto. Fine. Finisce lì. La si vuole fare sempre più grossa di quello che è.
Io sono un “figlio” delle vostre telecronache e come me penso che ci siano tanti ragazzi della mia età che sono nati così. Buffa in un’intervista li definiva: «Maschi tra i 20 e i 30 di famiglie italiane medio-benestanti con passione per lo sport americano, un’audience preparatissima in grado di accedere a una quantità smisurata di informazioni e che vuole che tu le accompagni alle cose che sa già». Qual è il tuo rapporto con questo gruppo di “impallinati”?
Un rapporto di stimolo. Nel senso che sapere che c’è gente così responsabilizza e stimola. Naturalmente non c’è solo quel gruppo da considerare, perché ci sono quelli tra i 60 e i 70 che si addormentano sul canale 202, ci possono essere dei ragazzi di 10-12 anni che non hanno ancora accesso a Internet o delle donne—e ce ne sono tante—che hanno un approccio totalmente diverso a questa cosa. Il punto è sempre quello: in televisione non parli a un'audience, non è come Buffa che ora a teatro se vuole li può guardare in faccia, le “pesa”—visto che è un astronauta da questo punto di vista—e lui sì, se andasse libero e senza un testo, potrebbe cambiare la cifra e lo stile a seconda di chi c’è in sala. Io non posso farlo. Per me quindi quei ragazzi sono una componente dell’audience, una componente molto importante, anche se non credo che sia maggioritaria—e che però fa da stimolo, perché sai che quando dici una scemenza, viene immediatamente registrata. Così come magari quando dici una cosa che interessa davvero questo tipo di persone sai che hai detto una cosa non banale, perché quelle non banali le sapevano già.
A proposito di Buffa: usando un’espressione brutta, posso dire che “noi del basket” Federico Buffa lo conoscevamo già in quella maniera lì. Tu come hai vissuto il fatto che sia diventato questo tipo di “personaggio televisivo” con Buffa Racconta?
Con l’ovvia sorpresa che è dovuta per una cosa del genere. Lui è sempre stato così: è sorprendente che sia passato così tanto tempo prima che se ne accorgesse qualcuno. Però questa non è una critica ai vertici di SKY, che avrebbero dovuto fargli fare prima quello che gli hanno fatto fare. È che torniamo al discorso di prima: c’è stato per tanto tempo un pregiudizio basato su non-dati di fatto perché Buffa “parlava strano”, o di cose di cui il contesto era quasi del tutto sconosciuto alla stragrande maggioranza delle persone. Ma non importa: tutti quelli che hanno guardato le storie di Puskas o del Grande Torino dubito che fino a 40 minuti prima sapessero tutto di quegli argomenti. Il punto è l’emozione, quello che trasmette in generale una persona—e che trasmettesse un po’ più della media secondo me si intuiva a naso anche prima. Penso che sarebbe il caso di ripensare a tutto questo prima di dire: “Ah ma il basket non sfonda perché è troppo complicato”. Non c’è proprio niente di complicato. E soprattutto l’idea che tu ascolti solo cose di cui già sai tutto, o che già conosci, vorrebbe dire la fine del mondo. Io cerco di ascoltare solo cose che non conosco, perché se le conosco già, cosa le sto ad ascoltare a fare?
Nella prima intervista con noi, Paolo Condò ha detto che: «Questo è un mestiere infernale: finché tu sali sei motivato, vuoi vedere cosa c’è dopo; quando ti fermi diventa duro perché ti accorgi che non hai sabato e domeniche liberi e hai divorziato come la maggior parte dei giornalisti». Tu pensi che il nostro lavoro sia idealizzato?
Da quelli che non lo fanno? Sì, sicuramente sì. Però parla uno di 53 anni che fa 1-1 coi divorzi con Condò e che è passato attraverso tantissime fasi di questa cosa, ma che comunque lo fa con estremo piacere. Però bisognerebbe idealizzarlo meno per le centinaia di 15-18-21-24enni che in quest’anno ho visto un po’ più del solito, con la scusa dell’uscita del libro. Loro lo idealizzano senz’altro, e trovare l’equilibrio tra il non perdere la dimensione buona dell’idealizzazione e quella cattiva è difficile come trovare l’equilibrio tra far bene questo lavoro e farlo male, evitando di farlo diventare totalizzante. Perché quando entri in quel tunnel, oltre a tutte le altre conseguenze che sono importantissime, fai anche peggio il tuo lavoro.
Tu come sei riuscito a trovare l’equilibrio tra quella che Fede chiamava “The Disease”, cioè la voglia di saperne sempre di più e le persone che ti stanno attorno?
L’equilibrio bisogna trovarlo con le persone che capiscono che c’è anche una dimensione positiva in questa “malattia”, altrimenti non si può nemmeno iniziare il discorso. E non è questione di chi ha ragione. Viceversa, io l’ho trovato, come spesso succede, per caso. Sono successe delle cose che mi hanno dato un po’ più di tempo. Dico una banalità, ma è diversa la vita a SKY se ci sono da fare il campionato italiano, l’Eurolega, la NBA e la NCAA oppure solo la NBA. Sono giornate oggettivamente diverse. Può succedere una cosa del genere come è successo nelle ultime due-tre stagioni e improvvisamente hai 10 ore in più a settimana non per stare in panciolle, ma per non dover per forza correre dietro alla prossima deadline. E questo ti fa scoprire che c’è un mondo fuori dalla finestra.
Nota strettamente personale: la prima partita NBA che ho mai visto è stata questa, con questo commento.
Oltre alla carriera da telecronista, ne hai anche una da giornalista e da scrittore di libri: come sei migliorato con il tempo come “penna”?
Definire scrittore uno che faceva fatica, sempre, ad arrivare al 6 nei temi è un po’ troppo. Diciamo vergatore digitale di fogli di Word. Penso che sia estremamente diversa la scrittura ai tempi di Internet rispetto a quella di prima, non mi annetterei alcun tipo di valore come “bella penna”, perché quella è proprio un’altra cosa rispetto a quello che sono io. Però un pochino di rigore nel controllo delle fonti sì. E in un mondo in cui le fonti sono tantissime e quindi molto spesso farlocche, credo che sia molto importante non arrendersi, non accontentarsi, non essere frettolosi. L’unico valore che mi do è la curiosità e la testardaggine di non fermarsi alla prima cosa. La prima cosa che ho fatto in televisione è stata il montaggio e secondo me l’idea del montaggio ti aiuta anche a scrivere, perché ti aiuta a mettere gli argomenti in una certa maniera.
Da profano, come funziona il processo di ricerca di storie e fonti prima di una telecronaca?
Una volta, ma erano i primi tempi, se c’era San Antonio-Sacramento prendevo l’Express News e il Sacramento Bee e cominciavo a rileggere tutto quello che era uscito nei mesi e a volte anche negli anni precedenti. Arrivavo ad avere 200 articoli per ogni squadra e poi vomitavo in onda alcuni pezzi di questi articoli in maniera poco coerente, perché il solo tempo di raccoglierli va a discapito del tempo di leggerli. Questo quando Internet era una specie di regalo di Natale. Adesso succede esattamente il contrario: cerco di vedere pochissime cose perché non voglio avere la tentazione di dirne troppe durante la partita, perché altrimenti finisco per non guardare la partita.
Però le partite precedenti comunque le guardi.
Quello come metodo sempre, parlando di NBA. Quasi sempre—a meno che non sia alle 4 del mattino—arrivo alla palla a due ascoltando il pre-game show, vedo chi c’è in quintetto, guardo magari la prima azione per vedere se raddoppiano il pick and roll o passano dietro sul blocco. Poi se ho qualcuno dentro alla squadra cerco di raggiungerlo. Ovviamente leggo qualche cosa, ma non 200 come prima: una volta che trovo 5/6 cose interessanti che possano reggere durante la partita, stop. Poi il resto deve essere telecronaca. Poi oggi è anche diverso, perché prima sapevo che Buffa faceva un commento di un certo tipo. Naturalmente non posso chiedere a Pessina di fare Buffa—per fortuna di tutti e due, perché sono perfetti nella loro categoria—e quindi devo mettermi in condizione di dare a Pessina quello che serve, appoggiargli delle situazioni utili—che non devono essere per forza la copertura sul pick and roll. È diverso l’assist che devo dare a Pes rispetto a quello che davo a Fede.
E per quanto riguarda le statistiche avanzate?
Anche qui, non è facilissimo fare una selezione corretta. L’inondazione di numeri e di statistiche sempre nuove—che ovviamente mi intrigano—rende fortissima la tentazione di sparale in onda, ma sparare una statistica a voce non è necessariamente la cosa migliore. È sempre una questione di trovare un equilibrio. Poi: più uno legge e più uno sa, meglio è. Ma il problema non è quanto uno legge e quanto uno sa, ma se ne trasferisci la giusta dosa nel miglior—e non minor—tempo possibile. Se tu accumuli e basta, questo va abbastanza contro il processo di dosaggio del trasferimento.
Hai detto che hai delle persone all’interno delle squadre. Come si trova un equilibrio tra quello che loro ti rivelano che poi tu puoi divulgare senza ledere la loro fiducia?
Non c’è un manuale. Diciamo che, fin tanto che la discussione rimane sulla pallacanestro, si può fare. Se uno mi dice che sapere il game plan prima della partita non è che mi stia passando il Sacro Graal, ma un semplice strumento di sopravvivenza. Perché io mentre parlo non sono in grado di decrittare il game plan, perché sono troppo impegnato a parlare. Ma se so già prima che la squadra X vuole fare la cosa A e B, perché già C non la tengo in mente, quelle riesco a vederle mentre seguo il gioco. E fanno la differenza. Provate a parlare con il vicino guardando una partita e ditemi se riuscite a seguirla alla stessa maniera con cui la seguireste tranquilli e soli in poltrona. Eppure già solo ottenere quelle informazioni legate alla pallacanestro è molto difficile in Italia e in Europa, dove c’è minor pregiudizio; in America poi non succede quasi mai che ti vengano date informazioni di questo tipo, o almeno a me non succede. Si può provare in qualche maniera a guardare un po’ di più prima e fare da soli. Chiaro che se poi ti dicono che la sera prima Tizio si è ubriacato a morte e quindi forse giocherà male, caso che non mi è mai capitato finora, è più facile riconoscerlo. Ma riportare il pettegolezzo è più difficile perché è su una base fiduciaria diversa ed è naturale che interrompere il flusso delle informazioni che ti dà una partita per dare lo scoop sarebbe anche autolesionistico, oltre che vagamente vigliacco.
La serata a Fiorano per la presentazione di Altro tiro, altro giro, altro regalo.
Nel tuo libro parli del giornalista che non può essere tifoso. Noi su l’Ultimo Uomo spesso diamo spazio a scrittori che sono anche tifosi delle squadre di cui parlano. Questo però dal mio punto di vista è un fattore aggiuntivo, perché avendo sviluppato un rapporto viscerale formato negli anni, spesso fin da quando si è bambini, con una squadra, porta a sapere tutto della stessa, senza che questo però impedisca di criticarla quando necessario. Secondo te si può trovare un compromesso tra essere giornalista ed essere tifoso di quello di cui si parla?
Questa sì che è una bella domanda. Partiamo dicendo che il fatto di non essere tifosi non fa un grande giornalista. E il fatto di essere un grande tifoso non impedisce di essere un sontuoso giornalista. Questo di per sé è certo. Mi viene però anche in mente che se leggi i pezzi sui Knicks di Newsday, ogni tre righe trovi scritto «Phil Jackson, president of the New York Knicks» e subito dopo «(la cui proprietà è la stessa del giornale che state leggendo)». Dentro a una telecronaca, se io fossi tifoso di Milano—cosa che sono stato e non sono più—sarebbe difficile dire «EA7 Olimpia Milano (squadra di cui sono tifoso)». Anche perché dopo un po’… Entro certi termini però, se io fossi tifoso e non mettessi quella parentesi lì, non sarei perfettamente allineato rispetto a quelle che sono le regole deontologiche. Perché io devo dare la possibilità a chi legge di essere a conoscenza di questo fatto. Poi è naturale: si può essere perfettamente obiettivi della squadra di cui si è tifosi e poi magari non essere obiettivi rispetto a un’altra squadra perché uno è amico di un altro o amante dell’altra o non so che cosa. Detto questo: se uno è tifoso o lo dice sempre oppure è impraticabile.
Secondo me il compromesso—che già è una parola di estremo interesse—non lo può trovare il giornalista dicendo: “Ma tanto io sono indipendente”. L’indipendenza è indipendenza. Autonomia è autonomia. Conosco persone di cui ho una stima illimitata, e che non c’entrano niente con lo sport, che quando parlano di calcio diventano bambini di 7 anni. Questo non significa che non siano dei giganti intellettuali o che se gli venisse richiesto di applicarsi professionalmente al calcio non saprebbero superare questa dimensione da “settenni”. Però se ne facciamo una dimensione di giornalisti in senso proprio, per citare Siani di “giornalisti-giornalisti”, allora non si può essere tifosi. Certo che uno può sempre dire all’italiana: “Ah il problema sono i giornalisti-tifosi adesso?”. No, il problema non è quello. Il problema è la parola stessa “compromesso” è già un cedimento in un muro che è già friabile di per sé, che viene reso ancora più friabile dicendo “Sì, io sono un tifoso, ma non preoccupatevi perché tanto…”. Il motivo per cui tu lo dici è: “Ma io che nasco tifoso e che ora mi trovo a fare il giornalista cosa devo fare? Devo riprogrammarmi?”. No, ma se tu fai un ragionamento—ed è un grosso se—che ti porta dove mi ha portato il mio umile ragionamento, secondo me lo fai in un secondo senza grossi problemi.
Per chiudere: per non-tifoso io però non intendo uno che non ha pulsioni. Io penso di essere stato più appassionato nelle telecronache dell’Italia rispetto a quelle dell’Islanda, che pure mi piacevano moltissimo. Però è naturale che il coinvolgimento emotivo sia diverso. Per me tifoso è uno che subordina alla sua appartenenza la propria opinione su quello che è successo. E questo non si può fare. Se vogliamo togliere di mezzo la parola tifoso, perché è molto complessa e ha troppe sfumature, possiamo dire: il giornalista deve mettere al centro quello che succede, indipendentemente dal fatto che l’attore della vicenda sia uno che conosce, o il suo testimone di nozze o uno che non ha mai visto, uno bianco o uno nero, la squadra per cui faceva o fa il tifo o quella che odiava da bambino. Invece che tifoso o non tifoso, il giornalista deve vedere una cosa e essere color-blind. Per me questa cosa è importante.
Come si inserisce in questo discorso uno come Bill Simmons, che è dichiaratamente e sfacciatamente tifoso?
Bill Simmons non ha una carta da dover rispettare, non ha fatto un giuramento professionale, è tutta un’altra cosa. Però almeno lui lo dice sempre e in un certo senso ci gioca anche, ma il problema di Simmons—e qui apriamo un altro fronte—è fare determinati numeri e quindi si esce da questo tipo di discorso. Si vede benissimo che fa il suo mestiere in maniera estremamente rigorosa, si può essere d’accordo o non d’accordo con quello che dice, ma non è uno che va lì e recita, è uno che studia. Io però per giornalista intendo l’iscritto all’ordine dei giornalisti, e quello non può obbedire al codice deontologico ed essere tifoso. Se il giornalista politico subordinasse il proprio pezzo alla propria convinzione politica o al partito per cui vota, a te girerebbero le scatole come cittadino, o no? Qual è il parallelismo tra questo giornalista e Simmons? Secondo me non c’è e si andrà invece sempre di più verso Bill Simmons. Allora facciamo una bella cosa: lasciamo lì la tessera, lasciamo lì l’Ordine e lo lasciamo ai giornalisti politici, creiamo una nuova figura e a quel punto però facciamo altri ragionamenti, perché si può fare tutto nella vita. Ma finché siamo dentro questa figura, non possiamo prenderci l’INPGI, pagare le quote dell’ordine e poi dire: “Però a me piace fare il tifoso perciò faccio il tifoso”. Delle due l’una.