Gabriele Marcotti ha poco più di quarant'anni, scrive una rubrica settimanale su ESPN FC e collabora anche con Corriere dello Sport e Times. Ha scritto tre libri tra cui The Italian Job insieme a Gianluca Vialli, che ho letto senza sapere chi fosse Gabriele Marcotti. È attivo su Twitter, ha lavorato in radio, ogni tanto lo vedo anche in video (su ESPN), ma indipendentemente dalla cornice o dal pubblico a cui si rivolge resto ogni volta affascinato dall'eleganza delle sue posizioni, dalla competenza che non gli impedisce di essere leggero.
In sintesi: dal modo personale con cui interpreta il mestiere del giornalista tradizionale e persino un ruolo come quello dell'opinionista. Per me è l'esempio di come si possa cambiare di registro, medium, persino di lingua, senza perdere la propria voce, e di come si potrebbe fare un giornalismo più rilassato e intelligente anche in Italia.
Daniele Manusia: Sulla tua pagina Wikipedia ho letto che parli 5 lingue compreso il giapponese e che hai viaggiato molto in gioventù. Posso chiederti perché, se ci sono ragioni familiari, e se pensi ti sia stato utile per lavorare?
Gabriele Marcotti: Sì. Per motivi di lavoro di mio padre ho vissuto in Giappone, Germania, Stati Uniti, Polonia, Inghilterra. Per questo credo di sentirmi a mio agio in culture diverse e indubbiamente è stato un grosso vantaggio. Ma sono italiano al 100%. A volte anche più di altri, stando lontano. Mio padre era italiano, così come mia madre, lavorava per una banca italiana e lo spostavano in filiali all’estero.
Mi descrivi il contesto in cui hai iniziato a fare questo mestiere?
Ho studiato a Penn, che aveva (e ha tuttora) uno dei migliori quotidiani universitari in America. In estate facevo stage in lingua italiana presso l’ANSA, il Sole 24 Ore, America Oggi, un quotidiano in lingua italiana di New York, per la comunità italo-americana. Finita l’università ho preso tempo, ho fatto un master in giornalismo alla Scuola di Giornalismo della Columbia, a New York. Poi finito quello ho capito che dovevo intraprendere una strada, no? Ed ero un po’ incerto perché entrare nel giornalismo americano in quel momento non era facilissimo, si parlava di crisi allora, come adesso...
L’impressione in Italia, questo suonerà familiare a molti giornalisti italiani, era che nel giornalismo sei considerato giovane fino a 40 anni, devi fare il precariato, anche solo collaborare è difficilissimo e malpagato, se non hai un parente giornalista o politico è ancora più difficile. Non aveva un grandissimo appeal, su di me.
Come hai cominciato?
Se c’è una cosa che ho capito, è che nel giornalismo bisogna essere bravi, ma soprattutto fortunati. C’è tantissima gente bravissima che però non ha mai avuto l’occasione perché la porta non si è mai aperta. Io ho avuto una grandissima botta di culo: quell’estate, era il 1996, c’erano le Olimpiadi ad Atlanta. Io ero a New York e ho scritto a quasi tutti i media in lingua italiana e inglese, dicendo: «Ragazzi, io vado in macchina fino ad Atlanta, dormo a casa di un amico mio, pagatemi quello che volete, ma trovatemi un accredito per le Olimpiadi».
Facevi già giornalismo sportivo in quel periodo?
No, io ho collaborato soprattutto con riviste di stampo economico, anche perché il mercato era lì. Non avevo l’idea di fare giornalismo sportivo, più che altro era il fatto che c’erano le Olimpiadi. Se ci fosse stato l’Expo o il Giubileo in America magari sarei andato a fare quello. L’ANSA mi ha trovato l’accredito (che poi con il senno di poi ho il sospetto che fosse farlocco, un accredito da tecnico di non so che cosa: comunque ad Atlanta nessuno controllava).
Si lavorava 18 ore al giorno, perché essendo agenzia di stampa ovviamente è una cosa continua. E lì incontrai diverse persone: il Corriere dello Sport e Sports Illustrated... era il posto giusto al momento giusto. Quelli del Corriere mi dissero che avevano bisogno di una collaborazione a Londra perché quella era la prima estate dopo Bosman e quindi i vari Vialli, Di Matteo e Ravanelli si erano tutti trasferiti in Inghilterra. E anche a Sports Illustrated mi proposero una “stringer”.
Cos`è?
La “stringer” è una figura che in Italia non esiste: in pratica era quello che raccoglieva le notizie e magari descriveva i fatti, assemblava le interviste, e dopo c’erano gli scrittori che firmavano il pezzo. Sports Illustrated aveva questa posizione aperta di “stringer” in Europa (quella che occupava il ruolo prima era andata in maternità). Ma anche lì, poi, ho avuto fortuna: ha coinciso con l’esplosione della Premier League, della Champions, del calcio internazionale, della globalizzazione. Tutto un confluire di fattori che mi hanno portato a essere al posto giusto al momento giusto.
Come è cambiato il giornalismo rispetto a quegli anni?
Dato che tutto ormai è in televisione, e se non è in televisione poi lo ritrovi su YouTube o in streaming (anche un bambino è capace di farlo), secondo me il valore della cronaca è molto scemato. Il giorno dopo l’evento più che leggere cosa è successo è più importante leggere l’analisi del perché è successo. C’è molto più dibattito informato, anche perché c’è stato un moltiplicarsi di blog, di fonti alternative, tutti offrono un’analisi della situazione e credo sia anche quello che vuole il pubblico. Il tempo della cronaca stretta è finito, oggi si chiede qualcosa in più.
Hai citato blogger o realtà aliene al vecchio mondo editoriale, però a me sembra che le due cose siano rimaste separate, no?
Da un lato sì, dall’altro lato mi domando se non stiamo un po’ tornando alle origini. Quello che viene considerato, almeno in America, il padre del giornalismo sportivo è un tipo che si chiama Grantland Rice (il sito, Grantland, si chiamava così per lui), che scriveva per vari giornali all'inizio del '900. Lui in un certo senso era un blogger, si rifiutava di parlare e interagire con i giocatori, con i dirigenti e con gli allenatori delle squadre che seguiva. Lui faceva molto pugilato e non voleva mai parlare con i pugili. Diceva: «Io voglio guardare, vedere e analizzare come farebbe un critico in una rappresentazione teatrale». Sosteneva che questa distanza fosse assolutamente essenziale per mantenere una certa indipendenza. Da un lato sacrifichi un qualcosa, perché non puoi descrivere la persona privata, però mantieni l’indipendenza con un modo un po’ più austero, un po’ più puro: io giudico quello che vedo. Poi il giornalismo è cambiato, in America si è andato all’altro estremo dove, ovviamente, c’era tantissima interazione con i media. Adesso si sta ricreando questa distanza.
Magari proprio per la maggiore invasività di brand e squadre?
No, credo per un altro motivo. All’epoca di Grantland Rice le squadre non erano brand, il contesto era unicamente lo sport, non c’era un messaggio da trasmettere. Poi si è evoluto, c’è stato maggiore accesso e il messaggio è stato mediato dalla stampa, adesso sono sempre più i club che vogliono gestire direttamente il flusso di questi messaggi e lo fanno soprattutto per motivi commerciali. E forse hanno anche capito che è anche un modo per controllare, non solo in senso negativo, ciò che viene scritto. Se io telefono a Galliani o a Mourinho o a Bartomeu, e loro rispondono al telefono e mi dicono una cosa, io sarò meglio predisposto verso di loro, anche se sono la persona più corretta del mondo. Il solo fatto di aver avuto un rapporto diretto con loro influenza il mio modo di scrivere e pensare di loro. Un blog è immune da questo.
Cosa pensi del new journalism rispetto al giornalismo tradizionale?
Sono due mestieri diversi. C’è una distanza abissale tra quello del cronista che deve seguire una particolare squadra o argomento tutti i giorni, farsi una conferenza stampa, poi una partita, e quello di uno che ha un mese e un grosso budget per andare e scrivere un articolo. Vengono fuori prodotti diversi, qual è qualitativamente migliore? Non lo so. L’ideale per me, fossi io un direttore, sarebbe chiamare persone che seguono uno sport quotidianamente e farle produrre quotidianamente, poi magari due volte l’anno mandarli a seguire storie specifiche. Perché c’è una visione da vicino e una da lontano.
Ma è solo una questione economica, se non è così?
Non lo so. Io leggo il Corriere della Sera tutti i giorni e, quando ho tempo, leggo La Repubblica. E quando leggo di un personaggio straniero che non sta in Italia, anche se gli articoli sono scritti brillantemente, mi dico: «Ma ci sono dentro sempre gli stessi aneddoti!». Ed è chiaro che il primo passo che fanno è fare la ricerca su Google, vedono i ritagli che sono stati già scritti e poi lo scrivono in italiano bene, magari contestualizzando. Non succede più come ai tempi in cui magari mandavano Oriana Fallaci in Iran a intervistare Khomeini. Adesso il profilo del nuovo Khomeini è un misto di cose riprese qua e là. Se lo fa un giornalista bravo che si affida a fonti affidabili, viene fuori comunque un affresco molto bello e la gente è ben informata. Però non è proprio giornalismo allo stato puro, non è una cosa originale. Se vuoi intervistare, per esempio, Maduro tu mandi uno in Venezuela dieci giorni e alla fine ha due ore per intervistarlo: lì viene fuori un pezzo diverso. Invece è quasi sempre un qualcosa di distratto e distante.
Come cambia il tuo modo di scrivere se lo fai per un giornale inglese o italiano?
Per il Corriere io mi occupo dell’Inghilterra. Per il Times ed ESPN mi occupo di calcio europeo e mondiale, ho molta più libertà. Non perché sono più bravi, semplicemente perché al Corriere dello Sport hanno già chi si occupa di questi temi. Racconto sempre il diverso: parlo di Premiere League per l’Italia, parlo di calcio europeo per l’Inghilterra. Come punto di partenza è un po’ un lusso. Non è come quello che scrive della Roma per il Corriere dello Sport, dove la familiarità del pubblico è molto più grande.
Il pubblico ti sembra diverso?
C’è una grandissima differenza (che sta andando un po’ scemando, ma è ancora evidente) che in Italia in pochissimi hanno colto. Mentre in Italia i tifosi vengono da ogni tipo di estrazione sociale e di conseguenza anche i nostri giornali più seri, come il Corriere della Sera, si occupano di calcio, in Inghilterra c’è sempre stato un grandissimo gap socio-economico e questo si è riflettuto anche nei media. Faccio un esempio. Il Times negli anni ’90 aveva tre giornalisti che si occupavano di calcio, oggi ne ha dodici: c’è stato un boom nelle classi più agiate e più istruite.
Può sembrare strano, ma l’Inghilterra è un Paese con delle classi sociali molto ben delineate, in confronto all’Italia sembra l’India delle caste. In Italia il calcio era un fenomeno che toccava il miliardario così come il poveraccio, in Inghilterra tradizionalmente non è stato così, molti dei giornali di qualità come il Telegraph, il Guardian o il Times hanno dovuto adattarsi a perché quando si parlava di calcio in Inghilterra si parlava quasi sempre con un linguaggio popolare, a differenza dell’Italia, dove molti giornalisti hanno scritto di calcio in maniera più complessa, evoluta, letteraria e istruita.
Però la mia generazione guarda all'Inghilterra come esempio di giornalismo sportivo più di qualità, anche più libero.
Anni fa feci un libro con Gianluca Vialli dove dicevamo che in Italia il calcio è lavoro, in Inghilterra è un gioco. Questo si è riflettuto nel modo in cui si parla: in Inghilterra, comunque, c’è leggerezza. Succede spesso e volentieri che i media popolari, come i vari tabloid, seguano la polemica. E a volte la polemica è francamente stupida, molto più stupida che in Italia. Ma poi la polemica viene ripresa dai giornali cosiddetti di qualità, se vogliamo è una “tabloidizzazione” trasversale.
Credo, però, che sotto altri aspetti il calcio viene preso più seriamente in Inghilterra che non qui. Ti faccio un esempio. Alla prima di campionato, quest’anno, la Juventus ha perso con l’Udinese. Se tu guardi ai giornali italiani c’era già gente che si strappava i capelli, in Inghilterra avrebbero tirato fuori l'argomento che alla prima di campionato può capitare, ci avrebbero fatto magari una battuta sopra. Un approccio molto più leggero. In America ci sarebbe stato un approccio ancora diverso, un approccio statistico. Secondo le statistiche avanzate, di cui qui in Italia non parla nessuno, la Juventus ha dominato la partita, meritava non di vincere, di stravincere. E quindi avrebbero detto: «È andata così però meritavano di vincere». E la gente avrebbe accettato questa situazione. Ci sono modi diversi di analizzare le cose.
Visto che hai citato gli expected goals, che ne pensi delle statistiche?
Si usano statistiche un po’ così in Italia. Ma anche in Inghilterra: il numero di passaggi, il possesso palla. Sono cose abbastanza irrilevanti, mentre sono rilevanti gli expected goals e questo lo sappiamo grazie bookmakers e chi ha studiato queste cose negli ultimi vent’anni. Sappiamo che c’è una correlazione diretta tra expected goals e punti. Questa è una piccola battaglia personale: sarebbe bello vedere gente che parla seriamente di queste cose. Non i tiri nello specchio della porta, sono francamente cose meno rilevanti. Ed è provato statisticamente.
Come gestisci i social network?
Io uso Twitter. Per me Twitter è utile in tre modi diversi. Il primo è per far conoscere il mio lavoro. Un altro modo molto importante per me è come selezionatore di cose da leggere. Io seguo un po’ di persone di cui mi fido o che hanno gusti simili ai miei su Twitter e queste pubblicano notizie interessanti. È utile come aggregatore di notizie che interessano a me, perché la gente tende a retwittare cose a cui è interessato. Infine (e so che su questo punto molti colleghi non la pensano come me) è anche utile per avere un dialogo. È vero che su Twitter ci sono tanti pazzoidi anonimi che non fanno altro che insultare, ma è altrettanto vero che ci sono tante persone con cui, se hai tempo, puoi dialogare. Bisogna ricordarsi che comunque Twitter è una piccolissima percentuale della popolazione, non rappresenta il grande pubblico. Però è un’esperienza che io ho trovato utile.
Dalle poche esperienze che ho avuto ho trovato che il mondo del calcio sia troppo chiuso. Non si capisce la dimensione umana e professionale della faccenda e questo favorisce un livello basso della discussione secondo me.
Forse si. Ci ricolleghiamo un po’ a Grantland Rice, ma c'è anche un altro discorso. Il calcio è in una situazione molto particolare. Perché è anche un’industria, un business. Però nell’industria automobilistica il metro di giudizio sono le vendite e, se vuoi in maniera minore, le recensioni dopo l’autoshow. Marchionne può parlare tutti giorni o non parlare, ma alla fine resta il fatto che produce per gli azionisti della FIAT e gli azionisti non sono tifosi, ragionano secondo un unico metro che è l’utile e la salute della società.
Nel calcio, facciamo l’esempio della Roma, c’è un metro che è l’utile della Roma come business. C’è l’immagine della Roma che è molto importante, perché guardare la Roma in TV è un atto quasi gratuito, alla portata di tutti, non è come comprare una macchina, è molto più universale. In più, c’è un altro metro: che sono i risultati sportivi della Roma, sia quelli a fine anno sia quelli settimanali. E Garcia deve rispondere a domande ogni tre giorni e tutto il mondo vede cosa produce Garcia ogni tre giorni. Non è che Marchionne deve presentarsi alla stampa ogni tre giorni e spiegare che la catena di montaggio 6 ha avuto un problema tecnico. Alla fine questo strano mix di sport, intrattenimento, cultura e business secondo me produce una maggiore chiusura.
Magari se ci fosse fosse più apertura i giornalisti e il pubblico potrebbero migliorare, farsi idee più complesse del solo tifo. In Italia c'è un clima tesissimo quando si parla di calcio.
Una differenza che ho notato è che quando i giornalisti vengono accusati dai tifosi di essere di parte, in Inghilterra ti additano la squadra d’appartenenza (West Ham, United, ecc…), in Italia è più sinistra la cosa, ti dicono: «Questo è al soldo di quello, questo è amico di quell’altro». Non dicono che un giornalista è juventino, dicono che quel giornalista è un uomo di Moggi o di Marotta. È una cosa tipicamente italiana, tendiamo a pensare il peggio di tutti. E il passo successivo è che l’arbitro non può sbagliare, l’arbitro è corrotto.
A proposito, recentemente ti sei occupato dello scandalo della FIFA.
Una cosa che mi ha colpito molto in ambito FIFA, durante gli ultimi grandi scandali di tangenti e ruberie, è che c’è stata una diversità di trattamento: nel mondo anglosassone o tedesco ha fatto grosso scandalo mentre in Italia se n’è parlato relativamente poco. Quando vado a coprire le istituzioni, FIFA o UEFA, a Nyon, vedo pochi giornalisti italiani. Mentre tutti i giornali inglesi mandano una persona. Mi domando perché ci sia meno interesse nei paesi latini. Forse perché abbiamo delle aspettative minori nei confronti di chi ci governa, siamo quasi sorpresi se questi non rubano.
Ricordo alle elezioni FIFA del 1998, quando Matarrese primo votò per Johansson e poi alla fine per un altro. Matarrese disse che noi in Italia avremmo avuto vantaggi per questo o quell’altro. E io mi son detto: «Ma è quello il motivo per cui tu devi votare?». Come delegato FIFA devi votare per chi pensi farà il bene del calcio o devi votare per chi porterà più vantaggio al tuo orticello? Platini che appoggia il principe Ali contro Blatter dopo gli arresti e il presidente della federazione francese dice di aver votato Blatter perché aveva portato in Francia il Mondiale femminile del 2019. E anche questa, se vogliamo, è una mentalità latina, è il classico voto di scambio.
E non so fino a che punto questa situazione cambierà, perché quelli che hanno appoggiato Blatter finora non l’hanno fatto perché erano tutti corrotti o stupidi, ma perché Blatter ha costruito un sistema di potere in cui effettivamente i Paesi più piccoli e meno ricchi ricevevano un certo beneficio economico. È un po’ come Tavecchio che viene eletto con i voti della Serie C e della Lega Nazionale Dilettanti. I grandi ricchi non lo vogliono e dicono: «Tu sei il male e gli altri ti votano solo per mandare avanti il carrozzone». Però, al tempo stesso, i piccoli dicono: «Prima di lui non contavamo assolutamente nulla». C’era un sistema praticamente colonialista nel calcio prima di Blatter e Havelange.
Qual è il problema più grande?
I problemi sono molti, ma va tenuto presente che la FIFA non è la polizia né la NATO. Tu puoi segnalare irregolarità alla FIFA e di solito la FIFA apre un’indagine. Ma la giustizia della FIFA è lentissima, perché ha pochissime risorse e se uno non vuole presentarsi la FIFA non può costringerlo. Lo abbiamo visto con il rapporto García per i Mondiali 2018-2022: ci sono tre membri dell'esecutivo che non sono nemmeno riusciti a trovare, due che non hanno voluto presentarsi, due si sono presentati e hanno fatto scena muta. Se la FIFA fosse la polizia potrebbe prenderli, un magistrato potrebbe costringerli a parlare, ma la FIFA non ha questi poteri. E quindi alla fine l’unico vero potere che può avere la FIFA è quello della trasparenza.