Paolo Condò è uno dei pochi giornalisti sportivi in Italia che definirei “leggendario”. È quantomeno appropriato, quindi, che sia lui il primo in questa nuova serie di interviste con i nostri giornalisti sportivi preferiti—quelli che ci hanno più ispirato—sia in Italia che nel mondo.
Niente nasce dal nulla, e quando è nato l’Ultimo Uomo troppe volte abbiamo parlato di quanto volevamo proporre un “nuovo modo” di fare giornalismo sportivo in Italia. Ma questo non vuol dire che non ci siamo ispirati ad altri, che pensiamo che non ci siano Maestri. Anzi. Paolo è solo il primo di loro: è uno dei più grandi esperti di calcio—internazionale e nazionale—che ci siano in Italia ed è stato, per anni, l’unico giornalista italiano a votare alla giuria del Pallone d’Oro. È anche uno dei giornalisti sportivi che riesce in maniera più trasparente a trasmettere uno dei suoi valori principali: l’intelligenza. Paolo non dice mai cose scontate. Il suo passaggio dalla Gazzetta dello Sport a Sky, avvenuto quest’estate, è stato uno shock per tutti noi. Io e lui abbiamo parlato in un bar del centro di Milano, al quale sono arrivato, come sempre, in ritardo, e nel quale, seduto a un tavolino con l’iPad in mano, ho incontrato Paolo per la prima volta. Abbiamo iniziato proprio dal suo passaggio a Sky.
Timothy Small: Ciao Paolo. Iniziamo con una domanda semplice: perché sei passato a Sky?
Paolo Condò: Ci sono molte cause. In testa c'è il fatto che cambiare fa bene, e il livello lì è molto alto, l'ideale per misurarsi ancora, come ho sempre amato fare. Poi metti pure le questioni economiche. Non tanto nel senso che mi hanno fatto una bella offerta—anche se me l’hanno fatta. È un discorso più ampio. Tu sai benissimo che il mondo della carta stampata è in crisi molto grave... Da due, tre anni vengono espulsi dal circuito produttivo dei colleghi ancora estremamente validi con la tecnica del prepensionamento. Anzi, tutto sommato, sono spesso i più validi perché, secondo me, quando riesci a unire l’esperienza con la voglia di fare, il talento di base e le conoscenze che hai acquisito, hai il momento massimo per un giornalista—se hai ancora l’energia nel fare questo mestiere, ovviamente. Ce ne sono tanti che sono scazzati a una certa età e quindi, da una punto di vista professionale, se li perdi, pazienza. Ma il mio giornalista preferito è Marco Pastonesi, con cui ho avuto il piacere di fare alcuni Giri d’Italia. Sapere che lui se ne stia in prepensionamento, per me è un omicidio giornalistico.
In effetti.
Questa legge anagrafica la capisco nel pubblico, ma nel privato no. Un datore di lavoro dovrebbe essere libero di dire: “Lui continua perché è il più bravo di tutti”, oppure, “Ritengo che prendere due giovani con il suo stipendio sia molto più produttivo per l’azienda”. Io non sono ancora nell’età del prepensionamento, però mi stavo avvicinando alla possibilità di cambiare completamente strada. La possibilità di restare a un livello alto di giornalismo sportivo e l’idea di poter fare una cosa nuova sfuggendo a questa tagliola e mettendo la mia esperienza sul mercato ancora per qualche anno l’ho trovata ottima: ho deciso in dieci secondi. In realtà, non c’è stata una vera scelta. Era la cosa da fare.
Come sai, noi di UU crediamo molto nel digitale e nella possibilità di parlare a tante persone senza dover spendere decine di migliaia di euro in stampa e distribuzione. Allo stesso tempo, per un nuovo media è difficile ripagare gli sforzi con investimenti pubblicitari. Arrivando a te: anche se non sei in età di prepensionamento, appartieni a una generazione totalmente diversa da quella dei nostri collaboratori. Ma, anche se sei stato per molti di noi un’ispirazione e un modello, so che sei molto attento alle nuove tecnologie. Ti vedo qui con l’iPad, l’altro giorno hai mandato un tweet su Metal Gear Solid che mi ha fatto impazzire. Quindi stai comunque attento alle novità. Questo per dire che, alla fine, l’importante è tenersi al passo coi tempi, non tanto l’età di per sé.
Secondo me ogni giornalista dovrebbe farlo. Dare un occhio alle cose nuove che sorgono è assolutamente necessario. Dare un occhio a l’Ultimo Uomo in Italia e Grantland in America è una cosa assolutamente fondamentale per mantenere vivo il giornalista. C’è anche nella parola stessa: “giorno”. Il giornalista deve essere aggiornato sempre e comunque. Non lo fanno tutti e questo, tante volte, fa la differenza tra un bravo giornalista e il giornalista scarso. E non se ne rendono conto: ci sono tanti che sono ancora fermi all’idea di postare la foto dei propri cani sui social network. Sui 25.mila tweet che ho fatto in tre anni, ci saranno tre foto dei miei cani e avevano un senso. A me non me ne frega niente di postare i miei cani.
Diciamo che quel confine tra pubblico e privato, per un giornalista, è difficile da gestire.
È un mestiere infernale. Finché tu sali sei motivato, vuoi vedere cosa c’è dopo; quando ti fermi diventa duro, perché ti accorgi che non hai sabato e domeniche liberi e hai divorziato, come la maggior parte dei giornalisti. Ci sono un sacco di cose negative. Io ho avuto la fortuna di salire sempre. Adesso sono a Sky: ho cambiato medium e ho la botta di adrenalina di dover dimostrare di saper lavorare anche in televisione.
Immagino.
Io ho fatto il capo del calcio in Gazzetta per un paio d’anni ed è difficile motivare le persone ad aggiornarsi e incuriosirsi sui nuovi media senza la prospettiva di avanzamenti professionali. La realtà è che quando hai uno stipendio te ne dimentichi immediatamente. Se la domenica vai a fare la partita del Milan o dell’Inter sei contento così. Se ti mandano a fare la partita del Chievo sei incazzato, sei convinto di non esser stato valutato a pieno (perché non ho mai conosciuto un giornalista modesto) e quindi hai meno voglia di andare a leggere il pezzo de l’Ultimo Uomo che ti tornerà utile nel momento in cui scriverai questa cosa. Lo sai che ti tornerà utile però tanto poi pensi che quella cosa che volevi fare non te la faranno fare, e allora chissenefrega.
Da giornalista, quando raggiungi un certo livello è anche abbastanza facile sedersi e dire: “Guadagno bene, non devo lavorare tantissime ore, ho la libertà di andare e venire alla redazione quando voglio”…
Questa libertà non è che sia di tutti. In realtà è abbastanza da privilegiati.
Ma a quegli alti livelli, manca l’incentivo a dire: “Guarda che se non ti aggiorni, perdi il posto”.
Sì, quell’incentivo manca assolutamente.
E poi in Italia mi pare ci sia sempre stato un approccio molto competitivo anche all’interno dei gruppi editoriali tra i diversi medium, in particolare tra “sito” e “cartaceo”.
È la storia dei polli di Renzo che litigavano sulla strada per andare a farsi tirare il collo al mercato. Diciamo che ci si è accorti molto tardi della necessità di integrare questi sistemi. Per esempio, adesso la Gazzetta è una macchina da guerra: ha il quotidiano, il settimanale, il sito e la televisione. Manca giusto una radio e poi ha tutto. Ma è chiaro che tutto questo dovrebbe essere studiato in modo che ciascuno rilanci l’altro.
E invece non succede.
È un sistema abbastanza complesso e l’esperienza insegna, oltretutto, che è molto difficile calare le persone, con le rispettive ambizioni, dentro a questo sistema. Nel calcio, ad esempio, Gattuso sa di non essere van Basten però gioca felice per poter recuperare i palloni che poi qualcun altro rifinirà per quello che deve fare i gol. Nel giornalismo non è così. Al limite, puoi trovare quelli più bravi a trovare le notizie, i cosiddetti cronisti, rispetto a quelli che scrivono i bei pezzi. Al contrario, se leggevi i vari settimanali americani avevi sempre il senior writer che scriveva il pezzo e sotto avevi la firma di quattro, cinque persone che avevano collaborato a costruire il servizio. Il senior writer era quello che scriveva meglio, però gli altri erano o i corrispondenti che avevano fornito le informazioni o i galoppini che erano andati in giro a cercare le notizie.
Oggi si abusa spesso del termine “long-form”. Secondo me, alla fine, si tratta di magazine writing, insomma. In Italia non è veramente mai scoppiato il racconto lungo perché in Italia il periodico è costruito in maniera diversa che nel mondo anglosassone. La vera differenza è tra il giornalismo del quotidiano e il giornalismo da mensile. Come mai secondo te quello stile di giornalismo non ha mai funzionato—storicamente parlando—in Italia?
Credo molto per mancanza di un pubblico. Da quando faccio questo lavoro mi è sempre stato detto taglia, taglia, taglia. Anche quando l’evidenza aveva dimostrato che era uno che sapeva reggere le dieci o le quindici cartelle. Però mi è sempre stato detto che la gente non ha tempo di leggere. Non sono pienamente convinto che ciò sia vero. Io mi ricordo di un mensile meraviglioso che si chiamava Panorama Mese. Era un maxi-formato, aveva dieci articoli al mese e ciascun articolo avevi bisogno di un giorno per leggerlo. Dopo due anni ha chiuso.
Però il concetto del mensile è quello: te lo metti sul comodino e lo leggi quando hai tempo. Non so quanto sia vero che gli italiani non vogliano leggere articoli lunghi o quanto, semplicemente, non dandogliene mai, se ne sono disabituati. È quella che in inglese si chiama una “self-fulfilling prophecy”—una predizione che fa avverare l’evento che predice.
È un serpente che si morde la coda. Però non c’è dubbio che l’enorme successo che ha avuto Federico Buffa in TV, e adesso anche a teatro, dimostra che esiste un pubblico giovane per questo tipo di racconto molto lungo e approfondito. Anche voi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, lui racconta storie di calciatori vecchi a un pubblico giovane. Se vai a teatro a vedere il suo lavoro, il 90% del pubblico è composto da ragazzi che si sono innamorati del modo di Federico di raccontare le cose. Lo puoi chiamare storytelling o long-form, se fosse scritto. Lo puoi chiamare come vuoi.
Io ho una teoria: secondo me esistono delle storie legate al mondo dello sport molto complesse che non vengono raccontate perché non abbiamo questi formati. Perché per raccontare bene Balotelli, che è un personaggio così controverso in Italia, non puoi utilizzare tremila battute.
Con Balotelli sei oltre, un personaggio come lui merita una tesi di laurea. Ti faccio un esempio più semplice: Guardiola non rilascia interviste, parla soltanto nelle conferenze stampa. Io ho avuto il privilegio alcune volte di andare a pranzo con lui, ovviamente con l’impegno di non scrivere nulla. Lui mi ha fatto capire tante cose del suo calcio, chiacchierando. Ora, se domani Guardiola mi telefona e mi chiede di fare un’intervista, io prima svengo e poi gli dico di no: gli chiedo di fare un libro. Se lo propongo alla Gazzetta mi rispondono di scrivere al massimo 150 righe—ed è una cosa che succede una volta l’anno. Ma anche se te le dessero, con 150 righe non gratti neanche la superficie di quello che io chiederei a Guardiola. Farei un libro o almeno un intero magazine.
È una cosa che in America ogni tanto fanno. Quando David Foster Wallace fece il pezzo su Federer, prese tutto il numero del mensile.
A parte che David Foster Wallace in Italia non esiste.
Se non ce la fai te, non ce la fa nessuno.
Nell'ambiente sono conosciuto e rispettato, se propongo una cosa in genere mi stanno a sentire. Per cui, se non lo fanno fare a me è probabile che non lo facciano fare a nessuno.
Comunque le cose cambiano anche in Italia: c’è Buffa con i long-form teatrali, e poi Undici e l’Ultimo Uomo che comunque, fino a poco fa, non esistevano…
C’è un unico grande problema: quello economico. Io sono un dinosauro, il frutto finale di un mondo del giornalismo che non c’è più. Prima i giornali erano ricchi e mandavano i loro ragazzi in giro per il mondo a vedere partite, a cercare storie e raccontarle, a farsi un’esperienza. Secondo me è questa la cosa fondamentale: un giornalista deve andare in giro per il mondo. Poi magari a una certa età si stanca e allora si ferma. Magari fa il capo, condivide ciò che ha imparato con i ragazzi, li introduce all’avventura. Ma purtroppo questa cosa sta scomparendo per ragioni economiche. Io per anni ho fatto tre viaggi in Sud America all’anno, questa è la mia ricchezza. Poi ci unisci un discreto talento di base e viene fuori un buon giornalista, come ce n’erano tanti nella generazione precedente.
Eh, sarebbe bello.
Voi a l’Ultimo Uomo siete tutti mediamente bravi a scrivere. Io se fossi il direttore della Gazzetta dello Sport, prenderei tre o quattro di voi—aggiungendovi ad alcuni giovani in gamba che già ci sono—per inserirvi a fare una partita di Champions League e vedere se riuscite a mantenere una qualità paragonabile. Tenterei di salvare il giornale facendo delle iniezioni di gente che sa scrivere, ma che deve farsi un’esperienza. Questa cosa però sarebbe stata possibile tempo fa: oggi nessuno può permettersi di fare tre/quattro assunzioni così. Il mondo del giornalismo che io rimpiango è questo: si rimpiangono le cose che probabilmente non hanno più possibilità di tornare com’erano una volta. Come quando c’era Arrigo Sacchi e io cominciavo a seguire il Milan: si andava a Milanello e ti vedevi gli allenamenti, non c’era nulla di nascosto.
Io ho fatto un’intervista a Pirlo per GQ e c’erano quattro persone della Juventus a guardarmi in semicerchio. Gli ho fatto una domanda sul Milan e mi hanno subito detto: “No!”. Diciamo che non era l’atmosfera giusta per parlare con candore.
Una volta sono andato a pranzo con Vialli ed è venuto tutto l’ufficio stampa. Pensa te. Poi, per carità, non è che siamo angioletti: qualcuno di noi avrà sicuramente forzato qualcosa. Su questo io lo posso capire. Quello che non capisco e che, secondo me, dovrebbe essere vietatissimo è che se io intervisto il giocatore, l’addetto stampa non mi può dire: “No, questa domanda no”. Se lo intervisto, lo intervisto come voglio io. Il giocatore è libero poi di non rispondermi, al massimo.
Torniamo un attimo su Balotelli, perché so che tu lo difendi spesso. Mi sembra che usiamo un metro diverso quando giudichiamo lui rispetto agli altri calciatori. Io penso che sia, fondamentalmente, perché è nero. Se lui fosse esattamente uguale, ma avesse la pelle bianca, il discorso sarebbe diverso.
È anche vero che, per lo stesso motivo, è stato anche molto difeso da tutti gli alfieri del politically correct, tra i quali tutto sommato mi ci metto anche io. È un difetto che ho. Secondo me Balotelli è abbastanza incomprensibile: non ha nessun tipo di capacità comunicativa. Quindi i sentimenti che lui stimola sono da paura dell’ignoto: perché non sorride dopo aver segnato?
Sì, però anche Henry non sorrideva dopo aver segnato. Con la differenza che Henry ha fatto 370 gol, è un campione e quindi chissenefrega se non sorride.
È chiaro che se inizia a segnare 25 gol e porta la Nazionale in finale nessuno gli dice più niente. Ma d’altra parte agli eroi è questo che chiediamo.
Non trovi che sia proprio il fatto che Balotelli non sia diventato quel campione che tutti speravamo diventasse e che, parallelamente a questo, Giuseppe Rossi si sia spaccato tutto, che oggi in Italia abbiamo questo problema degli attaccanti?
Indubbiamente Rossi - Balotelli doveva essere la migliore coppia d’attacco della Nazionale. Però, per un motivo o per l’altro, non li abbiamo avuti. Speriamo che riescano a fare almeno un torneo insieme. Sarebbe bello. Giuseppe Rossi se lo merita ampiamente. Balotelli, come ho scritto… nessuno può essere perduto a 25 anni. Secondo me Raiola ha molta importanza, dovrebbe essere guidato in una certa maniera. Poi, una componente che magari non sarà quella dominante che, però, va calcolata è che in questi tempi oggettivamente difficili per tante persone, vedere una persona con un talento del genere che lo spreca in quel modo...
Ma non è l’unico talento sprecato!
Certo. Ma ascoltami: io ricordo le Olimpiadi del ‘92, ero andato a vedere USA - Croazia di basket. C’era Kukoc che aveva appena firmato il suo ricchissimo contratto con i Chicago Bulls. In quella partita c’erano Barkley, Pippen e Jordan… e gli hanno fatto un culo, ma un culo, che era assolutamente visibile che l’avevano preso di mira, l’avevano massacrato. Poi negli spogliatoi sono andato a chiedere di questa cosa a Barkley, aspettandomi una risposta da calciatore educato dall’ufficio stampa, che mi dicesse: “No, è stata una vostra impressione; abbiamo giocato una partita normale”.
L’importante è essere a servizio della squadra.
Già. E invece Barkley fu sincero al massimo, mi disse: “Abbiamo giocato così perché è immorale che uno guadagni quelle cifre senza aver dimostrato niente nella NBA”. E io l’ho trovato un discorso altissimo, all’interno dell’economia di mercato. Per beccare tanti soldi devi prima dimostrare chi sei. Balotelli, da questo punto di vista, è carente: ha ottenuto tanto senza aver dimostrato a sufficienza. Questi sono sentimenti inconsci. Io cerco di dar loro una veste dialettica. Però, secondo me, c’è quest’elemento.
Certo. Ma, tornando al razzismo, è pieno di soldi, fa lo sbruffone, ha le fidanzate, la Ferrari, magari si potrebbe impegnare un po’ di più in campo... e in più è nero.
Sì, sicuramente c’è anche questa componente.
Riguardo alla NBA, io ho una fissa da tanto tempo. Cioè: cercare di capire come si potrebbe portare un sistema di salary-cap anche vagamente simile a quello della NBA, nel calcio. Perché a me, personalmente, un po’ mi fa rabbrividire che il calcio sia diventato essenzialmente un parco giochi per dieci mega-miliardari arabi e russi. Quest’ossessione di oggi con quanto è costato un giocatore, quanto guadagna, non trovi che sia un pochino ridicola? Alla fine, io quando vado a vedere la partita non vedo un foglio Excel del bilancio della mia squadra. Vedo dei calciatori. Mi interessa come giocano. Ma il sistema attuale è un sistema corrotto.
Come giornalisti sportivi, abbiamo talmente insistito su questi argomenti che adesso le prese per il culo tra tifosi sono su quanto è stato pagato quel giocatore, non su quant’è scarso. Io lo trovo ridicolo. Da tifoso non mi è mai fregato nulla di quanto venisse pagato un giocatore, l’importante è che fosse buono.
Ma inserire qualche sistema di controllo?
Hanno fatto il sistema di controllo dei 25 giocatori e delle rose bloccate. Con i giocatori dal vivaio hanno aggiunto un ulteriore controllo. Non ottimale o decisivo, certo, magari in futuro potremmo provare ad aumentare: invece di 4+4, fare 6+6.
La grossa domanda per quanto riguarda i soldi è quanto siano morali, corretti o giusti gli investimenti multimiliardari nel calcio. Io penso che non sia sportivo.
Il calcio ha smesso da tempo di essere uno sport. Il calcio è “the global game” nel quale ci sono ogni tipo di finanzieri, ma anche tagliagole. Io ero anche andato in Colombia a fare servizi su Medellin e Pablo Escobar. C’era Arkan qui in Europa. Hai avuto davvero i peggiori elementi del pianeta che hanno posseduto squadre di calcio. Non ce la fai più a riportare il calcio dentro un alveo sportivo.
E, quindi, in conclusione, come lo salvi?
Devi essere bravo al livello delle squadre giovanili a insegnare i corretti valori del calcio. Io ho due bambini che giocano a pallone e sono molto attento e pedante con gli altri genitori quando c’è qualcuno che inizia a inveire contro l’arbitro. Cerco di farlo ragionare. Non fa bene ai nostri figli. Gli stai dando degli alibi; e loro devono crescere, devono aspettare; la vita non è giusta, loro devono affrontare anche le ingiustizie. Sono discorsi che non tutti quanti capiscono e apprezzano. Però io non mi stanco di farli, naturalmente. Lì devi essere molto presente. Molto sportivo. Dico delle banalità assolute: il calcio è meraviglioso e orrendo al tempo stesso. C’è questa magia che tira fuori le pulsioni più profonde di noi. E lo vedi quando vai a vedere le partite dei ragazzini. Se tu parli con tutti i principali esperti di lotta alla mafia, la loro risposta è: “Devi andare nelle scuole”. È uguale con i valori sportivi. Devi partire dai figli.