Stefano Borghi è uno dei massimi esperti italiani di calcio internazionale. Per tutti quelli che in questi anni hanno rimesso la sveglia a orari improbabili per seguire le partite del campionato argentino la voce di Stefano Borghi, la sua conoscenza e, soprattutto, la sua passione per il gioco, ha rappresentato un ulteriore motivo per privarsi di ore di sonno. Ora commenta le partite di calcio internazionale su Fox Sports, occupandosi soprattutto di Liga spagnola. Abbiamo avuto l'onore di incontrarlo e di parlare con lui di giornalismo, Martin Palermo, asado e tanto calcio sudamericano.
Fammi ricordare se ti ho spiegato bene: voglio dire, il perché di questa chiacchierata. Su l’Ultimo Uomo abbiamo deciso di intervistare i nostri Maestri, i punti di riferimento del mestiere che facciamo, quelli che più ci hanno ispirato….
E quindi hai bisogno del telefono di chi?
(risate)
Non è piaggeria, ma se esistesse una lista di Don Balòn per i telecronisti, io dico che avresti un posto sicuro tra i 101 potenziali crack. Qual è il percorso formativo per diventare bravi quanto te nel tuo mestiere? Ci si prepara leggendo e ascoltando quanto, all’infuori del calcio? Sai quella famosa frase di Mourinho «Chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio»?
Leggere, guardare e studiare il calcio è fondamentale: deve occuparti tanto tempo nella giornata e non solo nei giorni lavorativi. Senza una costante applicazione - che poi non è fastidiosa - senza un aggiornamento continuo e quotidiano credo sia difficile arrivare a fare questo mestiere nel modo giusto. Poi, però, se ti fermi lì puoi sapere solo molto di calcio: mentre se ti spingi oltre, al di là di diventare un uomo migliore e più interessante, ti aiuti a dare al tuo lavoro sfumature diverse. Al calcio, alla partita che racconti. È stupendo poter trovare un aspetto, un collegamento diverso che sembrerebbe non esistere e che invece alla fine scopri essere assolutamente centrale.
È imprescindibile documentarsi, ma anche il contatto costante con i colleghi aiuta. E forse non necessariamente coi mostri sacri, no? Voglio dire: tu citi come tuo punto di riferimento Massimo Callegari che alla fine non mi pare sia molto più grande di te
Ha cinque anni più di me. Ma ti posso dire che anche alcuni ragazzi, per esempio, che sono in redazione e che hanno semplicemente meno esperienza, meno anni di militanza, ogni tanto ti regalano degli spunti, dei punti di vista, delle angolature… Il confronto è fondamentale, essere delle spugne, assorbire tutto. È fondamentale per acquisire spunti, certo, ma anche inquadrature differenti, come dire: alternative.
Hai un gotha?
Io mi accosto a tutti con enorme rispetto. Chi è partito prima e ha un’esperienza superiore alla mia è sempre meritevole di ammirazione. Comunque ripeto: penso che chiunque possa darmi dei consigli, dal ragazzino a uno che ha cinque, dieci, venti anni di esperienza in più di me sul campo.
Lavorare per Fox, avere la possibilità di contatti diretti con i colleghi di Sky, ogni volta che mi capita di scambiare due parole con Caressa o Marianella o Compagnoni, i veri miti attuali, per me è un arricchimento costante. Per non parlare poi delle persone che il calcio lo fanno, o l’hanno fatto. Io amo parlare, certo, ma soprattutto ascoltare i punti di vista della gente: perché è un miglioramento continuo. Per migliorarsi c’è sempre tempo, non c’è mai un punto d’arrivo definitivo. E a maggior ragione per me, che di strada ne dovrei e vorrei fare ancora tanta: starei ore anche solo ad ascoltarli, senza dover per forza prendere parte alla discussione.
Però dai, umiltà a parte: tu passi avanti ne hai fatti un bel po’. E sei sempre riuscito a conservare certe sacche d’interesse, come dire, più intime, come la possibilità di raccontare il calcio sudamericano.
Ah, quello è stato un bel regalo: ovviamente ai nostri abbonati, ma anche a me, perché riuscire a tenere una mano in quel mondo lì, in quel mondo particolare, mi fa piacere. È un calcio diverso da quello che viene vissuto, proposto e visto qua da noi. Però penso che sia una finestra interessante dalla quale affacciarsi per vedere quante sfumature possa assumere il pallone, il modo di viverlo.
Qualche tempo fa, su IL, Daniele Manusia, il nostro direttore, ha scritto un pezzo in cui faceva una riflessione interessante, e cioè che nel calcio che viene vissuto oggi come evento mediatico i telecronisti stanno diventando veri uomini di spettacolo.
È un bello spunto di discussione. Ovviamente ci sono casi in cui viene avvertito come necessità: il telecronista può essere portato a pensare che stia facendo il lavoro per sé, ma lo vedo come uno degli errori più gravi. La cronaca è sempre un servizio per chi ti guarda; poi sta anche un po’ alla tua propensione personale, anche se credo che fare tv nel modo più attuale possibile significhi principalmente adeguarsi al linguaggio della tv. Ci sono tecniche pure da apprendere per forza di cose, insomma. Regole da rispettare. Bisogna sempre tenere presente che si offre un servizio: il compito del giornalista è quello di registrare i fatti e raccontarli. Offrirli al pubblico. La tv in questo ti mette in difficoltà, perché prima di te viene sempre l’immagine, specie se la partita è in diretta.
Spesso penso che il ruolo di un telecronista durante una partita sia simile a quello dell’arbitro: i protagonisti sono altri, i giocatori, gli allenatori, quelli che la partita la fanno. Tu sei un protagonista, semmai, indiretto: non puoi mai pensare di sostituirti a loro.
L’aspetto che mi affascina e spaventa, delle telecronache, specie quando le confronto con la scrittura, è la gestione degli spazi e del tempo: tu sai che avrai 90-120 minuti in cui dovrai dire cose. Possono succedere molti avvenimenti in campo, però anche no: puoi essere più o meno coinvolto, come l’arbitro in effetti. La possibilità di regalare allo spettatore un’esperienza formativa è vincolata ai momenti morti, allora?
Avere un tempo standard a disposizione è un vincolo, ma può diventare una possibilità di espressione. È vero: chi scrive ha più opportunità, direi quasi l’obbligo, di dipingere, di creare l’immagine. Nelle telecronache hai meno modo di attingere all’inventiva, in compenso devi sviluppare altre capacità, tipo essere bravo a scegliere il momento giusto in cui abbandonarti al racconto. Per esempio: durante un giro palla difensivo vorresti dare un’annotazione che potrebbe essere un commento, o il racconto di un aneddoto. Allora dici «ok, c’è giropalla difensivo, verosimilmente ho qualche secondo per esprimere un concetto, per spendere due parole al di fuori del play-by-play». Allora inizi un discorso: poi però c’è un lancio lungo, sponda del centravanti, la seconda punta sta per tirare e tu che fai? Interrompi a metà il discorso per riprendere il racconto play-by-play? Questi problemi quando scrivi non ce li hai. Ma in entrambi i casi, quando sta succedendo qualcosa tu devi essere lì, non puoi essere da un’altra parte.
Stiamo sempre lì a pensare che la marca distintiva che ti professionalizza, che ti rende una voce riconosciuta, sta nella capacità di modulare il tuo proprio gusto, la tua propria personalità sulla base dei gusti più generali che ha il pubblico. Però per il telecronista è anche e soprattutto una questione di ritmi.
È quello il tuo tratto distintivo: la capacità e il modo in cui tratti situazioni del tipo di quella del giropalla che dicevo prima. Ma fammi aggiungere una cosa: non è vero che la partita dura solo 90-120 minuti. La preparazione alla partita è fondamentale. Devi spaccarti la schiena sulla preparazione, essere sempre pronto al massimo, perché se capita un tempo morto o un qualcosa di particolare devi sempre poter dire qualcosa, o avere gli strumenti per spiegare quello che sta succedendo.
Ovviamente non è che tutto il volume di cose che ti prepari devi poi per forza dirle all’interno dei 90 minuti. Devi avere mille e mille spunti ma saperli dosare, perché sennò poi diventa un esercizio di stile. Devi avere sempre la cosa giusta da dire, o sapere quando dire una cosa giusta.
Appena sono arrivato a Fox, uno dei primi e più preziosi consigli è stata l’importanza di una pausa. Prima avevo magari la tendenza ad andare sui ritmi alti, perché mi piace così, le partite le vivo molto così, di corsa, coi battiti accelerati.
Succede anche a me quando scrivo.
Invece bisogna imparare il valore di una pausa. Quanto è importante fermarsi e ripartire. Dà musicalità alla narrazione, ma anche più senso allo spettatore di quali siano le cose davvero importanti. Da quando ho provato a modificare il mio modo di raccontare una partita ho notato che adesso va molto meglio. Non bisogna mai pensare di avere in mano la scienza della telecronaca, o la soluzione definitiva: una scienza esatta della telecronaca non esiste, come non esiste la partita perfetta. Possono capitare, ma non è che una volta che hai giocato la partita perfetta saranno tutte così. Idem per le telecronache.
Questo discorso delle pause, dei ritmi modulati sull’andamento della partita mi ha fatto venire in mente un multitraccia che deve necessariamente essere in sincro, altrimenti c’è qualcosa che non va.
La telecronaca non deve essere una linea, ma una continua onda che oscilla. Esattamente come una partita di calcio, peraltro. C’è un forcing, poi un cambio di campo che spezza il ritmo, poi riparte l’azione…
E la bravura non sta anche nel saper compensare le curve basse della partita con le curve alte della narrazione?
Sta esattamente là.
Lo storytelling sportivo oggi è molto in voga. Credi che l’oralità sia - se mi passi il termine orrendo - più performante della lingua scritta in questa arte del narrare?
Io credo siano complementari. Personalmente adoro lo storytelling, quel raccontare il calcio attraverso le sue storie e i suoi fatti, anche, se vuoi, leggermente rielaborati. Alla fine se ci pensi ogni azione del calcio passa attraverso la rielaborazione di chi la vede. Se io e te guardiamo la stessa partita, ci arrivano sensazioni diverse. Ed è un bene. In Italia siamo fortunati perché abbiamo professionalità meravigliose in questa arte: Buffa in primis, e molti altri. Raramente, se mi imbatto in un programma che parla del calcio passato (ma anche presente) raccontandone le storie, non mi ci fermo. Credo sia importante anche per i più giovani, che magari hanno conosciuto soltanto il calcio attuale, capire cosa sia stato questo sport nei 150 anni che precedono l’oggi.
Poi però ti dico pure che il racconto giornalistico è un’altra cosa; personalmente - ma è il mio gusto - sono molto più legato al campo, a quello che ci succede dentro, che non alle parole che ci ruotano attorno…
Non sarà che dipende dal tipo di retroterra culturale? Voglio dire: i paesi nei quali la narrazione tangente al calcio ha una tradizione più solida sono Italia, in parte Spagna, soprattutto Argentina. Cioè paesi con radici letterarie ben piantate, in cui forse viene più facile travasare contenuti da un campo all’altro.
Beh, se pensi che l’unico film argentino che ha vinto un Oscar è quello scritto da Campanella (El secreto de sus ojos, NdR), che anche se in quel caso raccontava un altro tipo di storia ci ha comunque infilato una partita, uno stadio, la storia di una squadra… Io non ho ancora conosciuto un argentino che non sia un gigantesco appassionato di calcio! Ma poi avevi mai visto un Papa professarsi tifoso di una squadra dopo dieci minuti dall’ascesa al soglio pontificio?
Neppure un Papa così attivo sui social, in effetti. Tu invece non usi né Twitter né Facebook. Un uomo d’altri tempi.
Non lo so, sicuramente non è una definizione che mi offende.
Mi fa venire in mente chi spegne la tv quando sta studiando. Forse in effetti tenersi lontano dai social di permette una maggiore concentrazione, ti evita di perderti dietro a cose che ti portano via tempo e fatica mentale…
Lo scambio, la possibilità d’opinione, è importante: se mi dicessero «devi dedicare tre ore a settimana a incontrare gente» io lo farei. Ma non trovo molto interessante farlo attraverso il pc. Il mezzo trasforma le persone, e alla fine il contatto diretto per me è sempre preferibile, alla distanza.
È innegabile che il web - e anche i social - abbiano influenzato molto il modo di lavorare del giornalista sportivo.
Io ci vedo molti aspetti negativi. C’è un’influenza troppo forte sul modo di fare tv di adesso. Se pensiamo che quasi tutte le trasmissioni tv hanno un apparato interattivo attraverso i social ci rendiamo conto di quanto sia impattante. Anche se poi, in un programma giornalistico, se c’è da fare un’intervista a un ospite, a una figura, secondo me è anche dovere che le domande le faccia il giornalista. Il modo tradizionale è il più vicino al mio modo di pensare e fare le cose.
Ti dico secondo me qual è l’aspetto più disturbante: il fatto che sul web si sia venuto a determinare l’abbattimento delle barriere dell’autorevolezza.
Esatto. Non avrei potuto dirlo meglio.
Adesso facciamo questo gioco: ti faccio sentire delle tracce vocali e mi dici cosa ti viene in mente. (Metto in vivavoce la cronaca del Gol più famoso del mondo)
Fantastico, fantastico, fantastico, fantastico fantastico (lo dice in crescendo, come il ta-ta-ta-ta di Morales, NdR). Io dai telecronisti argentini ho preso tanto, perché mi fanno impazzire, hanno la capacità con una modulazione del genere di rendere esattamente la misura di quello che sta accadendo. Te ne racconto un’altra: una volta stavo vedendo River Plate-San Martin de San Juan. C’è questo corner per il River e il giocatore - sono quasi sicuro fosse Lanzini - calcia uno dei corner più brutti che abbia mai visto. Il telecronista sai che ha fatto? Si è messo a fischiettare un tango, come se non fosse successo niente, come a dire «passiamo ad altro».
Se leggi gli script delle cronache di Lalo Pelliciari sono pazzeschi.
Ma sai perché? Perché lasciano fluire l’emozione, che poi è quello che è il calcio è: emozione. Se ci piace così tanto da farlo diventare un lavoro vuol dire che fin da bambini ci ha comunicato emozioni, che ci ha folgorati.
A proposito di emozioni: altro contributo. (Stefano Borghi si trova ad ascoltare Stefano Borghi mentre commenta il Superclasico sospeso per l’aggressione ai giocatori del River da parte dei tifosi del Boca durante la Libertadores 2015, NdR)
E come faccio a dimenticarla? Era molto che non facevo un Superclasico e trovarti a dover commentare e registrare fatti di cronaca è spiazzante. Dover fare un’ora in diretta, in piena notte, dovendo parlare di cronaca è molto complicato. Lì, lo dico con piacere, ho avuto un aiuto fondamentale da un collega, Rosario Triolo, e da un amico che stavano guardando la partita alla tv argentina, che aveva i bordocampisti. La difficoltà più grande è stata, dopo essermi preparato a vivere le emozioni, il bello, l’etica sportiva di un Superclasico, dover raccontare le cose assurde che stavano succedendo. Pensavo a quanto ci si spende per proporre, da questa parte del mondo, quel calcio, per far capire quanto è importante e particolare e quanto conta per loro: che argomenti puoi opporre poi a chi parla di terzo mondo, di condizione insana, di gente che si spara allo stadio?
Twitter non ti avrebbe aiutato in quell’occasione a comprendere meglio quello che succedeva?
Vedi, anche lì: ho avuto il supporto di due fonti di cui mi fidavo ciecamente, perché li conosco. Su twitter mi sarei potuto imbattere in chiunque, magari poteva esserci chi diceva «sono allo stadio, c’è il presidente del River che sta prendendo a schiaffoni l’allenatore del Boca!».
Ti faccio sentire l’ultima voce: secondo me è quella a cui somigli di più. (Parte il racconto del Maracanazo di Joaquin Carballo Serantes più conosciuto col nome di Fioravanti).
Questo è un grande complimento… Sai che sei la seconda persona che me lo dice? Posso cominciare a crederci. E il primo era un argentino.
Fioravanti è quello che ha inventato la parola cancerbero per riferirsi al portiere.
Quello credo che sia il massimo successo per un telecronista: non solo creare un proprio stile, ma termini che poi vengano presi nell’uso comune. In Italia, in questo, credo che Brera sia stato un maestro assoluto: è lui che ha introdotto il linguaggio che oggi usiamo tutti noi per parlare di calcio.
Un altro successo è quando sei così preparato che ti fanno le domande come fossi un Direttore Sportivo, no?
Guarda, io sono contento di non fare il DS. È bello poter osservare, ma nel calcio di oggi non c’è pazienza, non c’è progettualità, possibilità di lavorare con una visione anche solo sul medio periodo. Quello del DS è un compito quasi impossibile. Prendi Dybala: oggi è uno dei più importanti giocatori della Serie A, quello con più prospettive. A Palermo tre anni fa l’hanno pagato dodici milioni e per due anni è stato considerato un pacco strapagato. «Perché prendere calciatori in Argentina quando ce ne sono di fortissimi in Italia in Lega Pro?», dicevano. Una delle bestialità più grosse: in serie C in Italia non ce ne sono, di più forti, altrimenti la Lega Pro non sarebbe messa com’è messa. Ed è un peccato. Io ci andavo, a vedere il Pavia, che giocava in C: era un universo meraviglioso perché c’era tutta la passione della provincia italiana. Invece oggi vedere campionati monchi, regolamenti che cambiano tutti gli anni, l’imposizione di dover far giocare i giovani per poter prendere qualche contributo: è qualcosa di aberrante e doloroso.
Tornando al discorso: bisogna saperli capire e gestire, i giocatori che arrivano dall’altra parte del mondo, perché non cambiano solo squadra, cambiano pianeta. Insomma: sono molto contento di non fare il DS. Però ti dico che è anche un dovere, essere informati sul panorama dei giovani, seguirli, poter dire la tua: se io non ne sapessi di più di chi mi sta guardando, perché dovrebbero pagare me per fare il mio mestiere? Se uno potesse alzare la mano al posto mio allora io sarei brutalmente fuori posto, e non voglio mai che mi succeda.
Tutti i suggerimenti che hai dato in passato però spesso ci hai preso. Guarda Lanzini: ci avevi visto lungo.
Nel calcio di oggi, in Sudamerica, come diceva il Maestro: ci sono molte vene aperte. Lanzini ha fatto la carriera che ha fatto, ma in fondo quando un giocatore ti fulmina è difficile che non sia un giocatore valido.
Ti faccio un’ultima domanda. So che sei un grande appassionato di food. Mi paragoni il momento più appassionante della tua carriera a una food experience?
Non credo di poter andare oltre al gol di Palermo contro il Perù nella tormenta. Quel gol all’ultimo secondo che mandò l’Argentina ai mondiali in Sudafrica.
Lo paragonerei alla prima volta che ho assaggiato l’entrana, un taglio particolare dell’asado che in Italia viene considerato poco nobile. Di fatto è il diaframma. La prima volta che l’ho assaggiata sono andato direttamente in paradiso. Credo sia il pezzo migliore che un uomo possa trovare sulla propria strada.
Cosa ci abbiniamo?
Forse ti direi un Rivera del Duero. Ma sai cosa: l’importante è andare sempre dove tu possa trovare una buona bottiglia di vino. Quando ho conosciuto Bruno Pizzul, facevo già qualche telecronaca, lui mi disse, citando un consiglio che a sua volta gli aveva dato Carosio: «Se vuoi fare questo mestiere fatti vedere sempre con un bicchiere di vino. Di stupidaggini ne dirai, lasciali almeno pensare che fossi ubriaco».