Secondo gli Oxford Dictionaries, post-truth — aggettivo che denota le circostanze in cui emotività e convinzioni personali hanno peso maggiore nell’orientare l’opinione pubblica rispetto a fatti obiettivi — è stata la parola dell’anno 2016.
Senza volersi minimamente addentrare nell’attualissimo universo delle post-verità e nelle sue sfaccettature sociali e politiche, l'andamento della stagione NBA e la percezione che il pubblico ha del rendimento di certe squadre possono risultare un ottimo strumento per rendere l’idea di quanta differenza passi tra opinioni informate e punti di vista basati su percezioni errate.
I sostenitori de “la regular season fa schifo, guardo l’NBA solo da aprile”, ad esempio, potrebbero reputare i Portland Trail Blazers una squadra di alto livello e non troppo lontana dalle Contender, dopo una trionfale (date le premesse) qualificazione ai playoff, il passaggio di un turno, la conferma in blocco dei principali componenti del roster e una ricca free agency. Ma nel prossimo aprile potrebbero non trovarli tra le prime otto, dato che in realtà con 22 vittorie e 29 sconfitte sono a (sole) 6 partite di distanza dal fondo della Conference e appunto a (ben) 7 partite di distanza dal 50%. Il tutto mentre Damian Lillard — che nella considerazione generale vive di rendita per la capacità di segnare canestri pesanti nei finali di partita — non ha ancora realizzato una tripla dagger, su 11 tentativi.
In modo simile, chi stesse seguendo distrattamente e senza guardare le classifiche difficilmente potrebbe pensare che i Milwaukee Bucks di Giannis Antetokounmpo — per certi versi, e meritatamente, la fidanzatina d’America — abbiano record simile a quello dei derelitti New York Knicks e si trovino ben più indietro dei tumultuosi Chicago Bulls, due squadre che si guadagnano più attenzione perché mediocri, disfunzionali, mal gestite e sempre sull’orlo di una crisi di nervi che per i risultati ottenuti sul campo.
E chi, dopo un quarto di stagione, avesse scelto di impiegare il proprio tempo libero in altro modo, convinto che tutto fosse già stato scritto e deciso nell’arco di poche settimane, potrebbe essere del tutto ignaro delle grandiose rimonte di Dallas e soprattutto Miami (gli Heat sono a due partite di distanza dall’ottavo posto), della rinascita di Jeff Teague e degli Indiana Pacers, dell’esplosione di Nikola Jokic, del rendimento nei quarti quarti di Isaiah Thomas (che a propria volta meriterebbe un approfondimento, sempre seguendo il tema del fact checking) e soprattutto potrebbe credere che gli Washington Wizards siano rimasti piantati nelle sabbie mobili della Eastern Conference in cui erano caduti esattamente due mesi fa dopo aver subito, in casa e dai Magic, la 13ª sconfitta in 20 partite.
Nell’élite della NBA
Spoiler (e richiamo alla realtà): delle successive 30 partite John Wall, Bradley Beal e soci ne hanno vinte 23, tra cui tutte le 17 giocate in casa prima di ieri, risultando in questo parziale la 2ª miglior squadra NBA dietro ai Golden State Warriors per risultati, la 3ª (Warriors e Spurs) per Net Rating, la 4ª per rendimento difensivo e percentuali al tiro (eFG% e TS%) e la 6ª per punti segnati per 100 possessi. Dati che gridano CONTENDER! da qualsiasi punto di vista li si analizzi. I meriti per questo deciso cambio di rotta possono essere distribuiti a diversi elementi, ma come sempre si parte dalla testa e da chi indica la direzione a tutto il gruppo, in campo e dalla panchina.
In occasione della citata sconfitta casalinga contro i Magic, John Wall ha segnato 52 punti, massimo in carriera e miglior prestazione per la franchigia degli ultimi 50 anni. E a fine partita ha sepolto di critiche i compagni, colpevoli di scarso impegno, dopo che pochi giorni prima anche Marcin Gortat se l’era presa pesantemente con le riserve per motivi analoghi. Oltre alle colpe della dirigenza, incapace di assicurare la necessaria profondità alla squadra, c’era l’evidente impressione che le scorie della gestione Randy Wittman — che tutto aveva fatto tranne motivare ed unire il gruppo — e lo scarso feeling sul campo tra Wall e Beal, con l’ormai celebre “abbiamo la tendenza a non andare troppo d’accordo” a fare da manifesto al tutto, fossero una zavorra troppo pesante da gestire e che l’unica via percorribile fosse l’ennesima ricostruzione, a partire dalla cessione di una delle stelle della squadra (probabilmente Beal).
A volte però toccare il fondo fa scattare le motivazioni giuste, specie se ad accompagnarle ci sono voci di un certo tipo, come quella di Scott Brooks. L’ex allenatore dei Thunder ha difetti evidenti, ma spesso è stato maltrattato oltre ai propri demeriti (e lo era due mesi fa), perché ha anche grossi pregi. Il primo, innegabile, è di riuscire a creare il necessario rapporto di fiducia con i propri giocatori, specie quelli più rilevanti, il che garantisce che tutti o quasi (sì Reggie Jackson, stiamo parlando di te) remino nella stessa direzione, giochino con la giusta cattiveria agonistica (gli Wizards sono con Warriors e Grizzlies la squadra migliore per palloni deviati e recuperati, buon termometro per l’hustle) e portino la squadra a ottenere risultati quantomeno in linea con le attese e la qualità del roster.
Presentarsi al capezzale del proprio giocatore franchigia stordito dagli antidolorifici e con entrambe le ginocchia fresche di operazione per risolvere i problemi che ne avevano condizionato pesantemente il rendimento, specialmente difensivo, nella scorsa stagione è un gesto encomiabile e che lascia il segno; “interrogarlo” in quel contesto su una situazione di gioco è un’iniziativa che non può che avere in risposta “Coach, sul serio? Adesso?” — ma se accompagnata da autorevolezza, coerenza e disponibilità al confronto, funziona. John Wall aspettava da anni un allenatore simile e appena ritrovata la condizione fisica (a novembre era precauzionalmente esentato dai back-to-back) la sua stagione e quella della squadra, messa con le spalle al muro, hanno preso la direzione che ora è ben evidente a tutti (a patto di stare sul pezzo).
Per usare le parole di Brian Windhorst: “Dovremmo tutti prestare più attenzione a quel che succede a D.C.”
Attorno ai Wall & Beal
A cascata, questa simbiosi tra i due leader tecnici ed emotivi ha avuto effetto su tutto il resto del roster: Marcin Gortat è un solidissimo titolare NBA, senza qualità fuori dalla norma dei pari-ruolo, ma anche senza difetti rilevanti. Soprattutto è un lungo moderno, porta blocchi solidi, è intelligente e occupa benissimo gli spazi liberi nel pick and roll, il che unito alla visione di gioco di Wall garantisce almeno un paio di canestri “facili” a partita. Come lui anche Markieff Morris difficilmente può risollevare da solo le sorti tecniche di una squadra (anzi, nel caso di ‘Kieff sono più le occasioni in cui alle prime avvisaglie di cedimento è lui il primo a dare strattoni nella direzione sbagliata), ma in contesti funzionali si esalta, come testimonia il rendimento di entrambi nelle 30 partite della svolta. Coinvolti, attivi lontano dalla palla e sul lato debole, mobili in difesa e attenti a non uscire dallo spartito, grazie al grande equilibrio messo in mostra da un quintetto con poche alternative — nettamente il più utilizzato nella lega, il che forse per Brooks è più un bene che un male, data la storica tendenza a insistere con l’assetto standard anche quando le necessità dei playoff avrebbero suggerito il contrario (do you remember Kendrick Perkins?) —, ma in cui la suddivisione dei compiti, degli spazi, delle soluzioni offensive (gli Wizards sono in top 10 per frequenza di utilizzo solo dei tiri in uscita dai blocchi) e del carico di lavoro ha raggiunto livelli di rara eccellenza.
La storica specialità di Wall è però sempre stata offrire buoni tiri, in ritmo e con spazio, agli esterni che nel corso degli anni hanno condiviso con lui il parquet (Martell Webster, Trevor Ariza, Rasual Butler: tutti testimoni). Oltre ad aver già assistito 182 triple (5 solo ieri nella meravigliosa sifda contro i Cleveland Cavaliers), terzo in NBA dietro a James Harden e LeBron James (8 su 17 lunedì) in poco più di mezza stagione, nella scorsa stagione, nonostante le difficoltà della squadra e il citato infortunio, con 278 ha realizzato la seconda miglior prestazione di sempre, a pochissima distanza dal record (che a breve cadrà, causa Mostro di Houston) di Steve Nash.
Qualunque sia l’avversario John Wall penetra, fa chiudere la difesa e scarica. E il movimento di Porter per assicurare una linea di passaggio pulita vale tanto quanto l’assist.
In questo momento Otto Porter è il miglior tiratore da 3 dell’intera lega, è quinto per Percentuale Reale (in mezzo a lunghi che vivono a pochi centimetri dal ferro e, vabbè, a Kevin Durant) e per Percentuale Effettiva (nettamente primo tra i perimetrali). In pratica, sputa letteralmente fuoco e fiamme da ogni punto dell’arco (tolto l’angolo sinistro, che è territorio di caccia di Beal).
I suoi progressi al tiro nell’arco della carriera, a partire dal college, sono ai limiti dell’incredibile (per gli umani eh: tirare in ballo Kawhi Leonard non vale) e se a questo si unisce un’ottima attitudine difensiva soprattutto in aiuto grazie a braccia infinite, tempismo e letture perfette, si ha a che fare con un giocatore di complemento in grado di rendersi utile a qualsiasi livello, nonostante piedi non rapidissimi che possono metterlo in difficoltà nelle situazioni di isolamento contro avversari rapidi.
Chi più di tutti incarna il cambiamento in atto a Washington è però Bradley Beal. In ordine sparso: quando si siede in panchina gli Wizards collassano (impatto paragonabile a Curry e Westbrook, per rendere l’idea); ha iniziato a portare blocchi anche lontano dalla palla — che spesso hanno efficacia limitata, ma sono fondamentali per tenere attenta la difesa e testimoniano la dedizione alla causa; al quinto anno di carriera sta per certi versi ripercorrendo le orme di Ray Allen e Reggie Miller; la sua intesa con Wall ha fatto enormi passi avanti (poco meno di metà dei suoi punti a partita derivano da assist dell’ex Kentucky); nelle occasioni più rilevanti è garanzia di spettacolo… e sicuramente ci sarà altro. Career year, ma non è finita qui nemmeno per sbaglio (si spera).
La partita dell’anno
A proposito della (probabile, finora) miglior partita di questa regular season, un paio di considerazioni: i Cavs non saranno nel loro momento di massimo splendore, ma è servita una super prestazione offensiva di Kevin Love (in versione cecchino… e quell’assist), Kyrie Irving (che sta tirando col 50% nelle triple dal palleggio in isolamento) e LeBron (con un buon aiuto dalla sorte, anche se ricezione, arresto e elevazione sul canestro del pareggio a 3 decimi di secondo dalla fine sono clamorosi) per fermare la corsa degli Wizards, che hanno risposto tiro (pesante) su tiro (pesantissimo) alla tempesta perfetta dei campioni in carica nell’ultimo quarto. Già solo questo dovrebbe bastare a considerare Washington una reale pretendente a un posto in finale di Conference, nonostante in attesa di Ian Mahinmi il solo Kelly Oubre (altro capolavoro di gestione umana da parte di Brooks) e pochi sprazzi di Jason Smith sembrino affidabili in uscita dalla panchina (manca comunque una guardia, perché su Trey Burke va messa definitivamente una pietra sopra). Un raffreddore a uno qualsiasi dei titolari rischia di avere effetti devastanti.
Negli spogliatoi John Wall, oltre ad incassare i complimenti di LeBron, ha elogiato apertamente la squadra. Capire quando usare il bastone e quando la carota è una grandissima qualità per un leader e se prima di parlare si è agito, con una stagione da All-NBA e con impegno massimo in ogni momento di ogni partita, l’eventuale strigliata ha tutto un altro effetto.
A Washington si fa sul serio ormai da due mesi. E c’è un giocatore in missione, alla guida di un gruppo in missione. Il momento per dedicargli la giusta attenzione è questo.