«Mi divertivo di più quando potevo essere il fratello maggiore di tutti, un ambasciatore del gioco. Mi diverto di più a stare dall’altra parte che da questa: questo non sono io, voglio tornare ad essere chi ero prima di accettare questo lavoro, voglio tornare a divertirmi e ad essere me stesso».
Queste sono state solo alcune delle frasi che hanno caratterizzato la surreale “conferenza stampa” di Magic Johnson. Una chiacchierata improvvisata all’ingresso dello spogliatoio gialloviola prima dell’ultima partita stagionale, in cui Magic, lasciando tutti di stucco, ha annunciato la sua decisione di rassegnare le dimissioni da presidente dei Lakers, senza alcun preavviso neppure per la proprietaria Jeanie Buss o chiunque altro all’interno della franchigia.
E soprattutto lasciandoci un'infinita miniera di meme.
Magic non ha seguito uno spartito lineare nelle sue dichiarazioni, lasciandosi andare piuttosto a un “flusso di coscienza” che inglobava concetti molto diversi tra loro. Il fatto di “non riuscire ad essere se stesso” nel suo ruolo ufficiale, che gli preclude la possibilità di interagire con i giocatori di altre squadre e persino, ebbene sì, di twittare liberamente quello che pensa. Il fastidio nel lavorare in un ambiente caratterizzato da pugnalate alla schiena e persone che ti parlano alle spalle. L’importanza che per lui riveste il suo “stile di vita” come icona non solo del basket ma anche della comunità afro-americana e di quella latina di Los Angeles. La voglia di non creare problemi a Jeanie Buss, a cui è legato “come a una sorella”, al punto da non aver trovato il coraggio di parlarle faccia a faccia della sua volontà di abbandonare per «non correre il rischio di essere convinto a cambiare idea».
Sarebbe difficile provare a riassumere e commentare direttamente, parola per parola e frase per frase, questa bizzarra manifestazione del pensiero, che come detto non segue un filo logico: forse è meglio ricostruire dal principio gli elementi che hanno caratterizzato queste due stagioni con Magic al timone, e provare a reintepretarle usando quest’ultimo evento come chiave di lettura di tutto il suo percorso.
Come è cominciata l’era “Maginka”
Nel febbraio del 2017 Magic Johnson è arrivato ai Lakers con un imperativo categorico: restituire charme ad una organizzazione che sotto la gestione Mitch Kupchak-Jim Buss aveva perso qualsiasi appetibilità. Il precedente GM aveva quali capisaldi il lavoro nell’ombra, lontano dai riflettori, la lealtà nei rapporti interpersonali (anche con gli altri GM), il disprezzo per i mass media e il carrozzone di rumors, insiders, anteprime e “notizie riservate”. Una scelta filosofica che però ha portato la franchigia ai minimi storici in termini di appetibilità, tanto da indurre numerosi free agent a rifiutare addirittura il colloquio di prassi con i Lakers.
Magic doveva invertire questa tendenza grazie all’innato carisma che lo ha sempre sostenuto nella sua esperienza sportiva, personale e professionale, abituandolo a convincere le sue controparti semplicemente con la forza della sua personalità. Chiunque si sia mai trovato da solo in una stanza con Magic - a prescindere dal fatto che fosse un giocatore di basket, un giornalista o capitani d’industria - ha sempre descritto una sorta di timore reverenziale, irresistibile, derivante dal suo carisma magnetico.
Jeanie Buss ha scelto di affiancargli una figura tecnica, un “uomo di basket”, individuato in Rob Pelinka. È utile a questo punto sgombrare subito il campo da un equivoco fondamentale, anche per poter interpretare correttamente lo svolgimento attuale degli eventi: Pelinka non è e non è mai stato un uomo di Magic, e il loro futuro non è quindi collegato e interconnesso. L’attuale GM - oltre, ovviamente, a essere l’ex agente di Kobe Bryant - fa parte della ristrettissima cerchia di amici e confidenti che gravitano attorno a Jeanie Buss, i cui componenti principali, oltre a Pelinka, sono Linda Rambis e il Direttore Operativo della società, Tim Harris.
Nelle intenzioni originali l’idea era quella di una ripartizione dei compiti, a grandi linee, tra un “ministro degli interni" che si occupasse della gestione della squadra, e un “ministro degli esteri“ adibito alle trattative con gli obiettivi di mercato, i loro agenti e gli altri GM. Lasciando da parte gli appunti sulla gestione del roster e sullo sviluppo dei giocatori, che sono troppo corposi per poter essere analizzati in questa sede, Magic ha largamente sopravvalutato la sua capacità di persuasione: era genuinamente convinto che per svolgere al meglio questo ruolo fosse sufficiente sedersi attorno a un tavolo, guardare negli occhi il suo interlocutore e convincerlo ad accettare la sua visione semplicemente imponendogli la sua forza di volontà, o in subordine, se si fosse rivelato troppo ostinato, forzargli la mano utilizzando i numerosi canali alternativi a sua disposizione e tutti i contatti costruiti nel corso degli anni presso i mass media.
Una strategia che si è rivelata fallimentare: la personalità magnetica di Magic è irresistibile quasi per chiunque, ma in quel “quasi” rientrano certamente i GM delle altre franchigie e gli agenti dei giocatori più rappresentativi, che dal momento in cui Magic ha assunto un ruolo ufficiale all’interno dei Lakers hanno istantaneamente smesso di vederlo come un’icona dello sport, considerandolo soltanto un avversario come tutti gli altri. Anzi: un avversario meno preparato e meno dedicato al suo lavoro di ogni altro dirigente di spicco della lega.
Dove ha fallito Magic
Questa è la dura, crudele, ineludibile realtà da cui Magic non è riuscito a scappare: l’NBA attuale non è più una lega dominata da ex giocatori, “vecchi saggi” e consigliori di lungo corso di qualche famiglia di sangue blu cestistico. I ruoli apicali di quasi tutte le franchigie (o quantomeno di quelle maggiormente di successo) sono occupati da dirigenti professionisti, formatisi più sui libri contabili e nelle firm di Wall Street che con un pallone a spicchi in mano. Tagliagole sociopatici che vivono per il lavoro, che conoscono ogni aspetto della gestione manageriale delle loro franchigie e che delegano quello che non riescono fisicamente a controllare a eserciti di analisti e contabili.
Earvin Johnson da Lansing - che non conosceva gli agenti (compreso Rob Pelinka), che non aveva la più pallida idea del funzionamento del salary cap e dei meandri del CBA (per sua stessa ammissione), che interpretava il ruolo presentandosi in ufficio per un’ora alla settimana quando andava bene - in questo contesto non aveva alcuna possibilità. Le singole decisioni prese lo hanno dimostrato, non tanto per gli esiti o i ragionamenti sottostanti - che potevano anche essere corretti, e spesso lo erano veramente - ma per le modalità con cui sono state tradotte in pratica.
Esempio numero uno: D’Angelo Russell; una trade che oggi viene molto criticata, ma che all’epoca era comprensibile ed è tuttora pienamente difendibile, perché anche se era facile intuire che in un contesto diverso D’Angerous potesse esplodere, d’altra parte rinunciare ad una pedina appetibile era l’unica possibilità per liberarsi di un peso morto salariale come il contratto di Timofey Mozgov, e dopo tutto nello scambio è arrivata ai Lakers una scelta poi tramutatasi in un giocatore utile come Kyle Kuzma. Il problema è stato il modo, il “come”: la scelta di approcciarsi a Russell scegliendo la strada del tough love, della delegittimazione continua, ha fatto inferocire il suo agente Aaron Mintz, che di conseguenza ha poi fatto di tutto per allontanare da Los Angeles i suoi assistiti, segnatamente Paul George e Julius Randle.
Esempio numero due: la scelta dei giocatori di complemento. L’idea di affiancare a LeBron James non tiratori puri ma ball handlers poteva non essere totalmente peregrina, ma è miseramente naufragata nel momento in cui l’individuazione dei giocatori che rispondessero a questo profilo è stata rimessa non ad un attento lavoro di analisi avanzata e approfondita, ma alla loro (più o meno giustificata) fama e reputazione, all’idea che Magic aveva di loro piuttosto che alla loro reale consistenza come giocatori di basket nell’NBA del 2019.
Esempio numero tre: Kawhi Leonard/Anthony Davis. Il fatto che una stella decida di non voler più restare al servizio di una determinata franchigia, per i motivi più disparati, e che preferisca esplorare la possibilità di giocare per un big market, è un fenomeno perfettamente normale, ed entro certi limiti accettato e tollerato da tutti, comprese le franchigie destinate a rimetterci. Però c’è modo e modo di approcciarsi a queste situazioni, e Magic ha scelto di forzare la mano, cercando di mettere pressione mediatica sulle controparti, presentandosi non come un interlocutore in buona fede ma come un mammasantissima che presenta a un inferiore la classica “offerta che non si può rifiutare”. Comprensibilmente, questo atteggiamento ha indotto nei GM che si trovavano dall’altra parte del tavolo un atteggiamento di contrapposizione totale e non negoziabile.
Perché è finita l’era Magic
Non c’è da stupirsi del fatto che due anni del genere abbiano fatto capire a Magic che il ruolo di presidente dei Lakers non fosse così “divertente” come immaginava: risultati sportivi scadenti, controparti inferocite, dipendenti dei Lakers che spesso e volentieri si rendevano disponibili come “fonti anonime” per raccontare che il presidente non vedeva in sede per intere settimane, un’immagine pubblica un tempo immacolata che andava deteriorandosi di giorno in giorno.
Una ipotesi ricorrente, secondo alcuni beninformati, è che in realtà sia proprio questo il motivo principale che lo ha spinto a questa improvvisa decisione: non tanto la realizzazione della sua attuale infelicità in questo ruolo, quanto il timore che nelle prossime settimane possano verificarsi ulteriori e irrimediabili danni alla sua reputazione.
A tal proposito si parla insistentemente di un articolo di ESPN in arrivo sulle lamentele diffuse dei dipendenti dei Lakers in merito al comportamento del loro ormai ex presidente, un pezzo che secondo le malelingue avrebbe avuto il benestare di Pelinka in persona. Si vocifera ancora più insistentemente del fatto che i free agent di maggior spessore abbiano già privatamente anticipato di non considerare i Lakers in cima alla loro lista di priorità, un esito che Magic non ha mai neppure voluto prendere in considerazione.
L’interpretazione più verosimile di questa vicenda grottesca forse è proprio quella del prima che sia troppo tardi: Magic ha capito che la situazione stava diventando sempre più tossica, e ha preferito una ritirata strategica a una disfatta sul campo. Una decisione che si può interpretare come “tradimento”, “abbandonare la nave che affonda”, “vigliaccheria”, ma che in realtà era e resta l’unica soluzione che possa teoricamente permettere ai Lakers di riprendersi, e a lui di salvare la faccia.
Tutte le divergenze e le poche affinità tra Magic e Jerry West
Blessing in disguise
A dispetto di tutte le considerazioni che precedono, infatti, la situazione in cui si trovano i Lakers è tutt’altro che disperata, e anzi può rappresentare un trampolino di lancio quasi ideale: la gestione Maginka, nonostante tutto, ha liberato spazio salariale, non ha compromesso e depauperato asset futuri, e soprattutto ha portato in gialloviola il miglior giocatore al mondo. Ripartire da LeBron, un buon nucleo di giocatori giovani e una situazione salariale che permette di firmare una superstar non può certamente essere considerato un anno zero, e anzi è una situazione intrigante per qualsiasi dirigente e qualsiasi allenatore.
Il problema, ancora una volta, sarà più nel come i Lakers affronteranno questa situazione piuttosto che in quali scelte verranno prese: la Lakers Way è sempre stata quella di cercare soluzioni interne, in famiglia, affidando i ruoli chiave non all’esito di ricerche e processi di reclutamento ad ampio spettro, ma scegliendo soltanto tra profili che abbiano giocato per i Lakers, abbiano lavorato nei Lakers o siano stati cresciuti all’interno della “famiglia” dei Lakers.
Jeanie Buss in passato ha detto che i Lakers possono essere guidati solo da Magic Johnson, Jerry West, Phil Jackson o Kobe Bryant: non avrebbe mai avuto il coraggio di licenziare Magic, e probabilmente non avrà mai il coraggio di licenziare Pelinka, perché non si tratta di normali rapporti tra un datore di lavoro e i suoi dipendenti/collaboratori, ma di una fitta rete di interazioni pluriennali che sono al tempo stesso professionali, personali e, talvolta letteralmente, familiari. Non stupisce quindi che, al momento, l’opzione più probabile per il futuro sia quella che vede Pelinka acquisire ulteriore potere e la promozione all’interno della dirigenza dei figli d’arte Jesse Buss e Ryan West, attualmente vice-GM e Direttore dello sviluppo dei giocatori in casa gialloviola.
Il problema, ancora una volta, non sta tanto nelle competenze dei singoli (Buss Jr. e West Jr. hanno avuto un ruolo decisivo nello scouting e nel processo di selezione dei giocatori da prendere al Draft, quindi non sono certamente degli sprovveduti), ma nel fatto che una delle franchigie più conosciute e redditizie del mondo dello sport che si trova ad affrontare una concorrenza manageriale tra le più spietate, competitive e professionali, continui ad essere gestita come una piccola azienda a conduzione familiare.
In questo contesto l’esperienza di Magic come presidente non è stata una aberrazione, ma semplicemente l’ennesima manifestazione di un trend pluridecennale, che non sembra destinato ad interrompersi a breve.