Pubblichiamo un estratto di “Magic Johnson, la vita” di Roland Lazenby, uscito per 66th and 2nd e che potete acquistare qui. Buona lettura!
L’attesa durò quattro lunghe stagioni. Poi, nel 1984, finalmente accadde. Due ragazzi, uno nero e uno bianco, il riflesso agonistico l’uno dell’altro, riaccesero la loro rivalità nel momento ideale, anche culturalmente. Una sfida che si rivelò benefica per il basket, per l’Nba, per gli anni Ottanta e in generale per il mondo.
Soprattutto, la rivalità tra Johnson e Bird sarebbe riesplosa con tempismo ideale rispetto alla lunga, brutta e triste storia della discriminazione razziale in America. Molti, parlando dello Showtime, avrebbero detto che i personaggi sembravano usciti dalle pagine di una sceneggiatura di un film, che Hollywood non avrebbe potuto inventarsi una trama migliore. In realtà, Hollywood lo aveva già fatto, nel 1958, nella pellicola La parete di fango, con Sidney Poitier e Tony Curtis: la storia di due detenuti in fuga, incatenati assieme, inseguiti da segugi in una società estremamente razzista. La pellicola, in anticipo sui tempi, aveva vinto svariati premi. Nel corso degli anni si è spesso ripetuto che Bird e Johnson fossero «inestricabilmente legati», letteralmente incatenati, se vogliamo, dal loro karma, che sarebbe diventato il karma del basket e, per un lungo periodo, anche dell’America. «Siamo legati per sempre» avrebbe dichiarato Johnson nel 2002 durante il suo discorso alla cerimonia di ammissione alla Hall of Fame.
Provenivano entrambi dal cuore del paese. Bird, con le sue origini povere nell’Indiana, Stato-granaio, e Johnson, con la sua famiglia che usciva da secoli di un altro genere di povertà, rappresentavano due forze culturali che si scontravano da tempo immemore per opportunità, lavoro, identità, rispetto, qualunque misero guadagno che potesse fare il grande sottoproletariato americano. Le battaglie tra neri e bianchi erano state combattute a intermittenza, tra sommosse, massacri e violenza che sembravano riproporsi a loop. In mezzo a tensioni di portata più ampia, i due, si sarebbero affrontati in un’intensa, esemplare, inedita e pubblica rivalità.
Gli amici di Johnson ricordavano che all’inizio lui odiava Bird con tutto il suo cuore, un sentimento che lui stesso avrebbe confermato in più di un’occasione. Alla fine, però, a dispetto di tutte le loro differenze, i due sarebbero prima diventati ammiratori reticenti l’uno dell’altro, e poi, lentamente, veri amici. Per John Radcliffe, che per quasi cinque decenni ha lavorato al tavolo dei punti dei Lakers e che quindi ha assistito a tutte le loro sfide, le battaglie tra Bird e Johnson sono state il massimo. «In campo non smetteva mai di parlare» ha detto di Bird. «E penso che a Magic piacesse. Che si divertisse davvero. Lo spronava a dare ancora di più».
Il loro «legame» sarebbe nato anche e soprattutto grazie alle feroci angherie che si sarebbero inflitti reciprocamente. Sempre durante il discorso per il suo ingresso nella Hall of Fame, Johnson ricordò una partita al Boston Garden che era stato costretto a guardare da fuori per via di un infortunio. Il che lo aveva reso il bersaglio perfetto per l’altro. «Si scaldano vicino alla nostra panchina» avrebbe raccontato. «E l’ultima volta che mi passa davanti mi fa: “Tranquillo, Magic, ho in serbo un bello show per te”. Quella sera segnò 40 punti, con 20-22 rimbalzi e 9-10 assist. Ci distrusse. Sbagliò forse solo tre tiri».
Bird chiuse la sua prestazione con un ultimo canestro da fuori, ricordava Earvin. «Magic, questo è per te» gli disse Bird girandosi verso di lui.
La stella di Boston conosceva bene un simile tormento. «Perdere contro i Lakers era la cosa peggiore che mi potesse capitare» avrebbe spiegato lui sempre durante la stessa cerimonia. «Ricordo che una notte, dopo una sconfitta a casa loro, durante il volo di ritorno ero così nauseato che non riuscii a dormire. L’aereo poteva pure cadere, non me ne sarebbe fregato nulla». Raccontò poi di aver visto Johnson altrettanto disperato mentre attraversava il parcheggio dopo un successo di Boston a LA. «Vidi il dolore sul suo volto, lo sguardo dell’uomo sconfitto. Lo guardai e pensai: “Soffri, baby, soffri”. Sapevo che probabilmente sarebbe andato a casa, avrebbe spento tutte le luci e tirato giù le tapparelle, e sarebbe rimasto seduto al buio per ore. Lo sapevo. Perché anch’io ci ero passato».
Il loro rapporto rimase teso anche se l’affinità era palese. «Eravamo i due tizi più lenti al mondo, e saltavamo tanto così» disse Johnson durante la cerimonia, mostrando uno spazio di cinque centimetri tra indice e pollice. «Ma sapevamo come giocare con la testa. Eravamo dei vincenti. Se fossimo stati in squadra assieme, gli altri non avrebbero mai vinto nulla».
Aveva commesso l’errore di fare lo stesso commento quasi due decenni prima, nei giorni che precedettero la serie finale del 1984. Prima che diventassero amici, prima perfino che si conoscessero davvero. E se ne sarebbe ben presto pentito enormemente. «Io e Larry ci apprezziamo davvero» aveva detto Johnson nel maggio del 1984. «La competizione tra noi è stata dura, tosta, ma adesso è finita. È un giocatore che usa la testa». Quel momento gli diede anche l’opportunità di ricordare alla stampa che lui e Bird erano stati compagni di squadra in un’oscura rappresentativa che aveva disputato una serie di amichevoli guidata in panchina da Joe B. Hall. «Non abbiamo avuto la possibilità di giocare assieme tanto» raccontò Magic alla vigilia della loro prima battaglia per un titolo Nba. «Stavamo quasi sempre seduti in panchina. Ma quando lo abbiamo fatto, eravamo i migliori. Portavamo i nostri in vantaggio o allargavamo lo scarto… Se oggi giocassimo assieme, penso che vinceremmo sempre».
Vent’anni più tardi, nel corso della cerimonia, Bird avrebbe ripetuto la stessa cosa, ricordando di essere tornato a casa dopo la fallimentare esperienza con Joe B. Hall e di aver detto al fratello che aveva appena visto il miglior giocatore mai incontrato, oltretutto più giovane di lui di due anni. Il fratello gli aveva risposto: «Ma piantala». L’anno dopo, per, quando i due si erano affrontati di nuovo nella finale del torneo Ncaa, il fratello, presente in tribuna, al termine dell’incontro gli aveva detto: «Sì, è molto meglio di te».
Alla fine si sarebbero affrontati 38 volte in Nba, comprese 19 sfide di playoff, nelle quali Johnson avrebbe viaggiato a 20,2 punti, 7,3 rimbalzi e 12,3 assist, mentre Bird a 23,4 punti, 10,8 rimbalzi e 5,3 assist. Entrambi avrebbero conquistato tre premi Mvp, ma il vero metro di giudizio sarebbero stati gli anelli vinti. E la loro rivalità, per quanto individuale, sarebbe stata inserita nella più grande rivalità di sempre tra squadre Nba, dominata brutalmente dai Celtics negli anni Sessanta e poi rivitalizzata negli Ottanta da Johnson e soci.
«Tra Lakers e Celtics era diverso» disse Magic nel 2004. Jerry Sichting ebbe un assaggio dell’intensità tra le due compagini nel 1985, quando divenne compagno di squadra di Bird. Fin dagli anni Sessanta, quando le squadre viaggiavano ancora in pullman, Boston e Los Angeles si affrontavano in amichevole durante la off-season. «L’anno in cui sono arrivato a Boston, Celtics e Lakers disputarono quattro amichevoli» ha raccontato Sichting. «Nella seconda, al Forum, a un certo punto Maurice Lucas e Robert Parish sono venuti alle mani e le due panchine si sono svuotate. Ricordo che quando hanno cominciato a dividerci, K.C. Jones era sotto una montagna di corpi, e Michael Cooper lo teneva per la testa. Era la prima volta in cui vedevo un coach Nba venire alle mani con un giocatore. Ma quella era Celtics contro Lakers».
«I Celtics facevano le cose alla loro maniera, e noi alla nostra» disse Johnson nel 2004. «Noi in stile Hollywood, vistoso, appariscente, ma comunque con molta sostanza. Volevamo correre e allestire uno spettacolo. Larry e i Celtics facevano la loro pallacanestro». E al centro della rivalità c’erano due ragazzi.
«Soli, sono esseri umani» osservò l’«Hartford Courant» in occasione dell’ingresso nella Hall of Fame di Johnson. «Insieme sono dèi dello sport, giocatori di basket brillanti. Insieme, hanno salvato la lega». «Scrivetelo pure» disse Johnson. «Nessuno ha mai giocato a basket come Lakers e Celtics. Mai. E non so se qualcuno mai in futuro lo farà». Una frase che nel caldo torrido di fine giugno del 1984 apparve più vera che mai. L’aspetto migliore di tutti era il fatto che non fosse sceneggiato. Era soltanto basket, quello che Red Auerbach, il grande burattinaio dei Celtics chiamava da sempre il mistero del gioco: il parquet liscio, la palla tonda, i due canestri e il campo da ventotto metri. Un luogo che richiedeva grande cuore. E la storia avrebbe mostrato che Bird, Johnson e i loro compagni ce l’avevano.