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Le maglie che indossiamo in quarantena
17 apr 2020
Da indossare a casa, sognando il campo.
(articolo)
20 min
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Esiste un codice delle maglie da calcio condiviso da tutti gli appassionati. Ogni sfumatura è un messaggio diverso, ma spesso chiaro, univoco. Superano anche il tifo, per diventare una dichiarazione universale di comunanza. In qualunque angolo del mondo ti trovi, se indossi una maglia da gioco, qualcuno capirà cosa stai dicendo. Ogni maglia è una dichiarazione d'amore, una storia da raccontare, una passione personale.

Ovviamente il loro posto naturale è il campo da gioco, quello che però nessuno sta vedendo in queste settimane di pandemia. Non è l'unico però, lo sappiamo, perché altrimenti avrebbero un mero valore di mezzo tecnico, come le maglie da runner che compriamo da Decathlon e poi lasciamo appassire in un cassetto. In un momento in cui siamo tutti in casa, abbiamo quindi deciso di esporci, scegliere le maglie che ognuno di noi decide di usare nel contesto domestico. Maglie che diventano pigiami o che vengono indossate per fare videochiamate con gli amici. In attesa di tornare in campo, queste sono le maglie che la redazione di Ultimo Uomo usa in casa (che, purtroppo, non è una condivisa).

Atlético Nacional de Medellin 2016 - Fabrizio Gabrielli

LUIS ACOSTA/AFP via Getty Images

Maglie da calcio, per giocare a calcio, non ne metto. Può sembrare stupido, ma tutte quelle che ho sono un manifesto estetico, più che altro, comprate come souvenir da posti esotici con la ponderatezza di come poi poterle indossare, in abbinamento a cosa: ne ho una del Buriram United che va benissimo sotto una giacca, per esempio. E poi, me ne regalano. Un pilota della Saudia mi ha portato la maglia di Abdulrahman nella parentesi all’Al-Hilal, due amici in viaggio di nozze in Argentina quella del querido Rosario Central, Augenthaler in persona mi ha regalato una maglia del Bayern autografata da tutti i giocatori della rosa. Un caro amico dal Sudafrica mi ha portato quella dei Kaizer Chiefs, e un altro quella del Boca di De Rossi e un altro ancora quella di Gago della finale di Libertadores.

Ma in questa quarantena sto indossando spesso la maglia dell’Atlético Nacional de Medellin campione della Libertadores 2016, vinta contro l’Independiente del Valle in finale. Con quella stessa maglia l’Atlético Nacional non avrebbe giocato la finale dell’edizione successiva della Sudamericana, annullata per via della tragedia della Chapecoense. È una maglia comoda, di un bel tessuto traspirante, che cade leggera, che parla di Mar dei Caraibi. E le righe bianche dei tempi morti di questa quarantena, alternate a quelle verdi - il verde rilassa gli occhi, distende l’anima ed è il colore che hanno le maglie da calcio più belle al mondo - della speranza di uscirne presto, mi sembrano quanto di più coerente.




Nazionale Messico 2015 - Dario Pergolizzi

Doug Pensinger/Getty Images

Non sono un grande collezionista di maglie da calcio, e quelle poche che possiedo sono tutte fin troppo simili tra loro: ho una fascinazione per tutti quei kit di nuova generazione con una base a tinta unica, preferibilmente nera, e le finiture ad alto contrasto sui loghi, sul colletto, sugli orli e così via. Le ho sempre sfoggiate unicamente sul campo, non mi è mai piaciuto utilizzarle come pigiama o per uscire a comprare il pane nei mesi caldi. Probabilmente questa scelta è dovuta a un puro istinto di conservazione dei tessuti, per sottoporli a meno lavaggi possibili e preservarne la consistenza e i colori.

Dopo pochi giorni di quarantena e smartworking ho realizzato di non poter affrontare la reclusione in pigiama. Così, ho preso l’abitudine di indossare tute e indumenti abbastanza sportivi, se non addirittura lo stesso abbigliamento tecnico che utilizzo per allenarmi o giocare in periodi normali. Non credo che sia una scelta originale, ma è un buon compromesso per mantenere una parvenza di dignità senza rinunciare alla comodità necessaria tra le mura domestiche. Il mio armadio “sportivo” non è però così tanto fornito da poter affrontare una turnazione di molte settimane, così sono stato inevitabilmente costretto ad attecchire anche alle riserve delle sacre maglie da calcio.

La maglia che sto indossando con più soddisfazione è una di cui sono particolarmente geloso: ancora oggi non mi è del tutto chiaro se mi abbia spinto più l’inspiegabile feticismo verso il giocatore (che in realtà non è mai stato neanche tra i miei primi 10 preferiti in attività) o la componente estetica. È la prima maglia del Messico per la Copa America del 2015, utilizzata poi anche per parte del 2016. Il Messico ha avuto come prima divisa una maglia a base verde ininterrottamente dal 1958, ma per questa occasione Adidas scelse di rompere la tradizione puntando su una base nera spezzata solo da un pattern grigio scuro sulla parte frontale, il tutto completato da un verde elettrico per le classiche strisce e per i loghi di Adidas e della Federazione Messicana, oltre che per i numeri e i nomi dietro, e dai colori della bandiera messicana sull’orlo inferiore.

Una maglia bellissima, fresca e leggera come buona parte delle divise contemporanee, che sarebbe stato un peccato prendere senza nomi dietro. Ho scelto Hector Herrera, che in quel periodo era forse il giocatore messicano più performante, quantomeno in Europa. Titolarissimo nel Porto, un box-to-box abbastanza completo e versatile, capace di correre parecchio pur mantenendo una buona pulizia nella trasmissione e nella conduzione, carismatico e responsabilizzato. Un giocatore che forse avrebbe meritato un’opportunità rilevante con qualche anno di anticipo rispetto al suo trasferimento all’Atletico Madrid, con cui ha finora raccolto 22 presenze e segnato un solo gol, alla Juventus nella gara d'esordio in Champions League. In generale, non sembra finora una consacrazione, la sua.

Herrera ha in realtà indossato questa maglia con il numero 6, ma ho deciso di esagerare ulteriormente coi livelli di hipsteria personalizzandola con il 16, suo numero sia al Porto che (poi) all’Atletico, per il semplice motivo che avevo già un’altra maglia con il 6 nell’armadio.




Santos Laguna 2010/11 - Emanuele Atturo

Vi dico la verità: non sto indossando maglie di calcio in quarantena perché mi ricordano troppo quell’era umana in cui era ancora possibile giocare. Ve la ricordate?

Però c’è una maglia che ogni tanto mi capita di mettere a casa, o addirittura per uscire. Una maglia che ho destinato alla vita sociale e quotidiana e non alle partite. Non è una maglia di una squadra o di un giocatore celebre; anzi a guardarla non sembra rimandare a nessuna squadra reale. Sembra una maglia immaginaria, o tarocca. Questo perché non sono un grande appassionato di calcio sudamericano e la maglia del Santos Laguna non mi dice niente. Però è bella.

Ha strisce orizzontali verdi e bianche come quelle del Celtic (le due squadre sono gemellate credo per questo motivo), ma è ricoperta di sponsor e pecette commerciali come tutte le maglie sudamericane. La scritta Coca-Cola all’altezza del cuore e sulle spalle, dove in Europa mettiamo il nome dei calciatori, CORONA, che di questi tempi fa ridere il giusto. Questi sono gli unici due sponsor che conosco. Poi ci sono quelli che ho googlato ora: Penoles, azienda prima al mondo per produzione d’argento (!); la catena di supermercati Soriana; Lala, azienda messicana di prodotti caseari.

Sul fondoschiena invece c’è scritto “Guerreros”, il soprannome dei giocatori del Santos Laguna, la quinta squadra più popolare del Messico, vincitrice di 6 campionati nazionali e due volte finalista della CONCACAF Champions League. Leggenda del club è Jared Borgetti, autore di quasi 200 gol con la maglia dei Guerreros. Lo ricorderete, oltre che per lo splendido nome, per averci segnato nel 2002 uno dei gol di testa più complicati della storia del calcio.

È una maglia che non ho comprato: me l’ha regalata il padre di una mia ex svuotando l’armadio. Non ha figli maschi e quando andavo a casa loro mi sequestrava per parlare di calcio a lungo e con grande entusiasmo. Regalandomi questa maglia forse voleva sancire materialmente questo nostro piccolissimo legame maschile. Non voglio dire che ha un vero valore sentimentale però certo mi fa pensare a lui in modo carino.

Il fatto che indossi la maglia di una squadra che praticamente non conosco la dice lunga sul post-modernismo della nostra epoca calcistica. Comunque non mi sento in colpa.




Nazionale del Giappone 2016 - Daniele V. Morrone

Masashi Hara/Getty Images

La maglia che più mi piace indossare durante il calciotto settimanale, quindi ora nella mezzora di ginnastica giornaliera, è quella del Giappone annata 2016. L’ho comprata proprio in Giappone assieme ai pantaloncini, nonostante il costo delle maglie lì sia quasi proibitivo (si parte da oltre i 100 euro), giustificando la spesa in quanto unico souvenir acquistato durante quel viaggio e risparmiando non aggiungendo il nome Kagawa e il numero 10 come avrei voluto, scelta di cui ora mi pento perché ci starebbe benissimo.

Da tempo le maglie del Giappone sono blu, a dispetto di una bandiera bianca e rossa. Il motivo è che a suo tempo la federazione scelse di differenziarsi in questo modo dalle nazionali vicine, tutte in combinazioni di rosso e bianco. Il blu si dice sia stato scelto perché rappresenta il mare, che unisce e circonda l’arcipelago giapponese. Rispetto al blu più acceso che solitamente veste la Nazionale giapponese, questa maglia ha come colore di base un blu scurissimo, che a seconda della luce sembra tendente al grigio e nella parte centrale c’è un gioco di sfumature di blu sempre più chiare che terminano con una sottile linea rossa all’altezza del petto. Ho contato le sfumature di blu e sono 11, il motivo penso si spieghi da solo. La linea rossa non so bene cosa rappresenti ma ci sta benissimo. Mi piace pensare che voglia ricordare un tramonto sul mare, con l’ultimo bagliore all’orizzonte. Alla fine questo spiegherebbe anche il blu scurissimo della parte superiore e inferiore della maglia, come il cielo e il mare quando è ormai arrivata la notte.

Il dettaglio che mi piace di più purtroppo non è visibile quando indossata ed è il disegno della piuma di corvo stampato sulla parte interna del colletto, con una linea rossa centrale che richiama la stessa della maglia. Proprio la piuma in realtà mi fa pensare che quella variante di blu potrebbe essere stato presa da quello del corvo, più che dal mare di notte. Una variante che renderebbe la maglia ancora più bella a mio gusto: personalmente i riferimenti agli animali sono su un gradino sopra a quelli sul paesaggio, anzi trovo che ogni nazionale dovrebbe avere il proprio animale simbolo sullo stemma, invece che quelli creati con noiosi assortimenti di palloni, lettere e bandiere. Per la cronaca l’animale nazionale in Italia è il lupo appenninico, direi che ci è andata bene in quanto ad animali e dovremmo approfittarne di più.

Comunque il corvo non è l’animale nazionale giapponese ma è presente da tempo sullo stemma nella variante a tre zampe, detto Yatagarasu, che nella mitologia giapponese rappresenta il sole. Sole che non a caso è il disco rosso al centro della bandiera giapponese. Se invece degli animali ti piacciono le bandiere minimali, questa maglia ha anche quella sopra lo stemma, come a voler accontentare tutti.




FC St. Pauli 2013/14 - Alfredo Giacobbe

Stuart Franklin/Bundesliga Collection via Getty Images

Ammetto di non avere una collezione vasta di magliette da calcio. Non sono mai riuscito a conciliare l’alto prezzo di alcune con lo scarso utilizzo che ne faccio. Oltretutto, in uno dei miei traslochi, ho perduto uno dei miei pezzi più pregiati, una divisa a strisce orizzontali bianco-verdi, acquistata al Celtic Park di Glasgow in occasione di un Celtic-Milan di Champions League.

Nonostante, a mio parere, la divisa del Celtic concorra ogni anno al premio di maglia più bella del mondo insieme a quella della Sampdoria, la mia maglia preferita è un’altra. Ha un fondo marrone con riflessi dorati, una fascia rossa trasversale bordata di bianco e, al centro, il marchio di un energy drink in caratteri gotici. Il bordo inferiore è più lungo del normale ed è fortemente elasticizzato, per indossarla correttamente bisogna risvoltare la maglia verso l’interno.

Una divisa così assurda non poteva che essere del FC Sankt Pauli, la squadra di calcio dell’omonimo quartiere anarchico di Amburgo. È difficile resistere all’infatuazione per una squadra che rappresenta un’avanguardia per i diritti civili al punto da mettere il risultato sportivo in secondo piano. Ed è così che le squadre con le quali ho vinto al Fantacalcio portavano il nome del St. Pauli, e il primo salvataggio di ogni versione nuova di Football Manager è dedicata a loro. Ciononostante non ammetterò mai di aver indossato la maglia davanti al PC in occasione di una finale virtuale di Coppa di Germania. Persa, come da tradizione.




Tuta Juventus 1975/76 - Fabio Barcellona

Dal sito della Juventus

Appartengo a una generazione per la quale le maglie da calcio non erano parte integrante dello streetwear. Per questo e anche perché non ho mai amato le partite di calcio a 5/7 con gli amici non ho praticamente maglie da calcio. Da quando ho smesso di giocare a livello agonistico gioco generalmente una volta l’anno in piena estate, con i vecchi amici che ritornano a Palermo da altre parti d’Italia per le vacanze. Quindi non ho avuto nemmeno lo stimolo di acquistare maglie da calcio per sfoggiarle nelle partite con gli amici.

Le uniche che possiedo sono due maglie della Juventus contraffatte. La prima è una maglia del 2002 di Alessandro Del Piero, comprata in piazza il 5 maggio in preda all’euforia durante i festeggiamenti post Lazio-Inter. L’altra è più recente ed è stata acquistata il giorno della finale di Champions League tra Juventus e Barcellona. La maglietta era una richiesta di mio figlio, che aveva 7 anni e voleva quella di Tevez. Oltre alla sua, acquistai una maglia per mia figlia e una per me, per vedere la partita tutti assieme con la maglia bianconera. Avevo pronosticato un gol di Morata e acquistai quella. Centrai il pronostico e l’acquisto, ma la Juve perse e la maglietta, da allora, come quella di Del Piero, è in fondo a un cassetto.

Tuttavia il marketing sportivo ha fatto breccia anche su di me e quest’inverno ho acquistato dallo Juventus Store la felpa della tuta della Juventus 1975/76. È azzurra come le seconde maglie della Juve degli anni ‘70, con i bordi bianconeri e la scritta F.C. Juventus in bianco sopra un’unica stella. Mi pare molto bella, ma forse solo perchè in effetti rappresenta una mia personalissima madeleine.

Sono juventino perché lo era mio padre. Che possedeva una collezione di Hurrà Juventus orientativamente datati dal 1971 al 1977. Da bambino vorace di lettura cresciuto in una casa dove i libri non abbondavano, ho letto e riletto quelle riviste, piene di immagini di calciatori della Juventus che si allenavano con quella tuta: Bettega, Scirea, Anastasi, Capello, Furino, Tardelli. Il calcio è stato il principale strumento di comunicazione con mio padre e rivedendo quella tuta nello Juventus Store ho deciso che volevo averla, intuendo in maniera più o meno inconscia che mi avrebbe connesso in qualche modo con la mia infanzia e il ricordo di mio padre.

L’ho acquistata e non l’ho mai indossata: non riesco ancora a considerare l’abbigliamento calcistico come qualcosa da potere indossare con i jeans. Oltretutto, acquistandola on line ho probabilmente sbagliato la misura e forse è troppo larga, e mia moglie certo non mi incoraggia perché in maniera anche più drastica di me, crede che le tute non vadano indossate se non per fare sport. E a nulla valgono i miei incerti tentativi di convincerla che non è esattamente la giacca di una tuta, ma una riproduzione in versione streetwear di una giacca della tuta vintage. Insomma, come era ampiamente prevedibile non ho acquistato un capo d’abbigliamento, ma un ricordo. Ma non me ne pento, specie in questi giorni.




Lazio preliminari di Champions League 2001 - Francesco Lisanti

KELD NAVNTOFT/SCANPIX DENMARK/AFP via Getty Images

Una parte del calcio a cui non voglio pensare sono gli infortuni. Io mi sono fatto male tre volte su un campo da calcio, l’ultima indossando una maglia gloriosa, “Nesta 13” dell’ultima Lazio di Nesta, quella che ha tolto lo scudetto all’Inter. È una maglia molto bella che però la Lazio utilizzò in una sola occasione, cioè i preliminari di Champions di andata contro il Copenhagen (erano anni di grandi esperimenti). È una partita di cui neanche YouTube conserva memoria, per la cronaca finì 2-1 per i danesi, poi travolti 4-1 al ritorno. La maglia però è veramente stupenda, con il colletto grande, le maniche larghe tutte azzurre, il petto nero con lo sponsor Siemens mobile in rilievo.

L’ho ordinata ad agosto 2017 su CFS subito prima di partire per l’Irlanda, e messa in valigia immacolata dopo un passaggio in lavatrice. In Irlanda ero stato anche due anni prima, nella stessa università, e le selezioni per la squadra di calcio erano andate malissimo. Però era l’occasione di giocare a calcio, quindi ci sono tornato, stavolta con la maglia di Nesta, e non so per quale motivo il campo da calcio era occupato e si è giocato in un altro, grande quanto quello bello, che ha gli spalti e la targa che ricorda l’inaugurazione in presenza di Trapattoni, ma è abbandonato e l’erba arriva a coprire le caviglie. Poi non lo so se è stata la maglia, anche perché in quel momento ricordo di aver pensato a Gagliardini, ma ho avuto l’occasione di anticipare l’attaccante in scivolata. Palla piena, tempismo perfetto, solo che la caviglia sinistra mi è rimasta girata sotto la schiena. L’ospedale più vicino distava 40 km e l’ho raggiunto la mattina successiva, ovviamente pioveva tantissimo ma la faccio breve: frattura composta del perone e lesione ai legamenti della caviglia. Mi mettono il gesso, quattro ore dopo ci ripensano, me lo tolgono, mi danno una scarpa ortopedica e spezzatino con purè di patate. Mia nonna era entrata in coma due giorni prima, non sentivo granché dolore quando non sforzavo la gamba, soprattutto mi sentivo un coglione.

Avrei preferito parlare del torneo di calcetto del liceo, di gol in finale e di sfrenata adolescenza, purtroppo quella gloriosa maglia Legea, bianca con la banda diagonale oroblù è rimasta a Matera e comunque mi va stretta. Invece a Milano mi sono portato quella di Nesta, che mi va molto comoda, e ogni tanto provo comunque a entrare in scivolata nel corridoio.




Torino 2014/15 - Federico Principi

Pier Marco Tacca/Getty Images

Se c’è un periodo per spezzare la propria narrazione, per ampliare l’orizzonte da cui si osserva la propria vita, ed è fin troppo banale a dirsi, è la quarantena. Rivedere le partite e le gare del passato mi ha permesso di riscoprire vecchie sensazioni che spesso contengono la risposta alle domande che uno si pone per sciogliere le proprie questioni nel presente. Cosa provavo in quel periodo? Perché ho effettuato quella scelta?

Ripescare per caso la maglia di Kamil Glik del Torino 2014-15 è stata per me l’occasione di immergermi nuovamente nel 2015, l’anno che ha portato più cambiamenti nella mia vita – uno di questi: ho iniziato a collaborare per Ultimo Uomo. Ero salito a Torino per qualche giorno, per festeggiare la laurea di un mio carissimo amico d’infanzia, e non ci ho pensato due volte a scegliere quale sarebbe stato il souvenir più simbolico che mi sarei portato indietro nelle Marche. «La maglia granata è speciale, ti resta sulla pelle e non sono il solo a pensarla così», ha detto proprio Glik la scorsa estate.

Non c’entrava per nulla il mio gusto personale, che non era pienamente soddisfatto da un difensore sostanzialmente rude. O meglio, forse non ero abbastanza profondo e introspettivo nel capire il mio gusto e mi affidavo alla scelta più semplice, a un’icona dai tratti più visibili e materiali: di quel Torino Glik fu il capitano e fece il record personale di gol, 7 in campionato dietro solo Quagliarella e Maxi Lopez, più quello della speranza contro lo Zenit agli ottavi di Europa League. Forse con il vissuto che ho oggi avrei scelto la maglia di un altro calciatore? Forse dalla scelta di acquistare proprio quella di Glik dovrei capire davvero com’ero per intuire cosa voglio davvero diventare? Indossarla per qualche altro giorno in quarantena dovrà senz’altro aiutarmi a schiarire le idee.


T-shirt dei New York City FC - Dario Saltari

Michael Stewart/Getty Images

Quando mi è stato chiesto quale maglietta da calcio indossavo in casa per questo periodo di quarantena la prima cosa a cui ho pensato è che io le magliette di calcio in casa non le indosso perché mi irritano la pelle. Questo perché sono una persona sostanzialmente materialista per cui la comodità viene molto prima dello stile. Poi, pensandoci meglio, però, mi sono ricordato che in realtà una maglia da calcio in casa la metto spesso. Il problema è che non è una vera maglia da calcio, ma un ibrido tra una maglia da calcio e una t-shirt. Una chimera fatta gadget che forse ho solo io al mondo o che comunque non ho mai visto in un negozio di abiti sportivi o nello store di una squadra.

Mi spiego meglio. Qualche anno fa chiesi a mio padre, in partenza per un viaggio di lavoro a New York, di riportarmi una maglia di una delle due squadre della città, il New York City o i New York Red Bulls, non faceva differenza. In tutti e due i casi sarebbe stato un inno non richiesto allo spersonalizzante sistema capitalistico delle franchigie. Al suo ritorno si presentò con la chimera che vi dicevo: una maglietta ufficiale del New York City, del tutto identica a quella da gioco - con sponsor, e nome e numero di David Villa sulle spalle - ma di cotone. Non ci rimasi benissimo. L’anno successivo, per lo stesso viaggio di lavoro, me ne portò una da gioco dei New York Red Bulls, forse per farsi perdonare, che a volte metto quando vado a giocare a calciotto.

Non so esattamente cosa significa questa storia. So solo che, in un modo molto scemo, ogni volta che indosso quell’orribile maglietta di cotone di David Villa (spesso) penso al fatto che probabilmente ce l’ho solo io e che solo mio padre avrebbe potuto regalarmela. In un certo senso, mi fa sentire speciale.




New York Knicks 2012 - Marco D'Ottavi

Nathaniel S. Butler/NBAE via Getty Images

Ho combattuto tutta l’adolescenza tra la voglia di mostrare il più possibile le mie maglie da calcio e il tentativo di avere uno stile alternativo, personale diciamo. Le maglie da calcio fuori dal campo, ai miei tempi, le indossavano solo i coatti o quelli che si presentavano al campo già vestiti nel tragitto per arrivarci. Inoltre erano magliette super-sintetiche, non come quelle traspiranti di oggi, e solo a guardarle facevano sudare.

A 30 anni ho rotto questo patto e mi sono portato la maglia rosa-hip della Juventus in un viaggio in Svezia. Mi sembrava la più adatta ad essere indossata con stile, ma alla fine l’ho messa solo una mezza giornata e mi sono trovato a parlare di Allegri con un ragazzo australiano mentre viaggiavamo sul pontile di un battello tra isolette remote, con un vento così forte che ci costringeva ad urlare per capirci. In quel momento ho deciso che non volevo parlare di calcio anche nel bel mezzo del nulla e mi sono chiuso la felpa per sempre.

La verità è che le maglie da calcio vanno indossate solo in campo. Per me non si possono indossare neanche allo stadio (seguo una regola che dice che non si va ad un concerto, con la maglia del gruppo che suona) o a casa. Le uniche maglie sportive che si possono usare nel mondo esterno, ho capito ad un certo punto della mia vita, sono quelle da basket. Il taglio a canotta è generalmente ridicolo se non hai il fisico di LeBron James, ma esistono alcuni contesti precisi in cui possono essere usate: quando vai al mare o in piscina oppure come pigiama, soprattutto se vuoi far credere a qualcuno che sei uno sportivo. Io in queste circostanze uso una maglia di Jeremy Lin ai New York Knicks, anzi due ne ho una blu e una bianca (che preferisco), comprate durante un viaggio a New York fatto appena aveva cambiato squadra. Le pagai 5 dollari l’una, volevano liberarsene.

C’è un motivo perché la indosso tanto volentieri: Lin non è un giocatore né forte né iconico, anzi al contrario è considerato alla stregua di un cartone animato. Se la indossassi al campetto probabilmente verrei preso per pazzo. Nel mondo esterno però una maglia acquista il valore che io decido di dargli e, per ribaltare la realtà, ho deciso di dargli grande valore, tanto che ora mi appare in diverse foto fatte in vacanza con gli amici oppure in alcune pigre scattate in casa, in momenti intimi e personali.




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