“Rombo di tuono” o “gollonzo”? “Dribbling” o “liscio”? “Eupalla” o “Tafazzi”? Gianni Brera e i suoi articoli o la Gialappa's Band con il suo Mai dire gol? Se Brera è stato il cantore aulico del moderno registro sportivo, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila non c'è nessun dubbio che il trio di autori e presentatori “invisibili” abbia dato un enorme contributo alla formazione di un dizionario calcistico, se pur in forma comica. Il 18 novembre del 1990, trent’anni fa, compariva infatti sullo schermo “Mai dire Gol” e nulla sarebbe stato più come prima.
Lungo percorso
“Oddio, un altro programma che parla di calcio: sì, ma è tutto da ridere”. Con questo titoloL’Unità presenta Mai dire Gol. Insomma, già allora c’è abbastanza saturazione calcistica, però nulla si preannuncia divertente come “La Penelope dei palinsesti”, la definizione che viene data dal quotidiano alla nuova trasmissione. «Il programma disfa quello che gli altri tessono. Ribalta quello che gli altri hanno epicamente narrato dal fronte sempreverde dei campi di calcio». In palinsesto peraltro va in onda dopo Pressing, la domenica sera alle 22, un’era preistorica fa quando i programmi in prime-time iniziavano alle 20.30 e finivano prestissimo, e soprattutto quando tutte le partite si giocavano la domenica pomeriggio. “Pressing” rientra nella categoria della narrazione epica, visto che al comando c’è un giornalista vecchia scuola come Marino Bartoletti. Subito dopo, però, la rottura, netta.
Mai dire Gol, infatti, è tutta un’altra cosa. Intanto i protagonisti, caso più unico che raro nella storia della televisione, sono tre presentatori di cui si sente solo la voce: i tre della Gialappa’s Band, e cioè Marco Santin, Giorgio Gherarducci e Carlo Taranto, che hanno preso il nome da una pianta messicana che funge da potentissimo purgante. Nemmeno come voci sono i primi che passano, visto che il loro primo successo era stato su Radio Popolare, storica emittente milanese, dove avevano commentato i Mondiali messicani del 1986 in maniera irriverente e dove conducevanoBar Sport, un riassunto scherzoso della giornata di campionato coinvolgendo il pubblico da casa in un flusso caotico e divertente.
Il programma che debutta il 18 novembre del 1990 su Italia Uno in sé è molto semplice, anche come grafica: è una raccolta di spezzoni lunga mezz’ora riguardante la giornata di campionato appena conclusa. Non sono resoconti di partite, ma una sorta di rassegna del peggio di ciò che si è visto sui campi, compresi degli spezzoni di Novantesimo Minuto in cui prendono per i fondelli i giornalisti in video, in continuità con Bar Sport e con le radiocronache del Mondiale di Italia ’90 per il circuito Sper. Sono commenti salaci e senza peli sulla lingua, e per annotare i risultati e la classifica, una mano meccanica chiamata “Cippa Lippa”.
“Non si scherza col calcio”
Per ricordare soprattutto quei primi periodi di Mai dire Gol abbiamo fatto quattro chiacchiere con Marco Santin, uno dei tre del gruppo Gialappa’s. «Intanto va specificato che io ero assente alla prima puntata per via di un dolorosissimo infortunio subito il giorno prima, tibia e perone rotti durante una festa in casa giocando al Musichiere, una roba che mi son portato dietro per tre anni. La prima puntata infatti la vidi in ospedale, imbottito di morfina, tornai solo nel gennaio del 1991», ci dice subito. E infatti il 18 novembre ci sono solo le voci di Taranto (Il signor Carlo), Gherarducci e di un Teo Teocoli nei panni di Peo Pericoli, tifoso milanista sfegatato, ma soprattutto fan di John Fashanu, attaccante all’epoca del Wimbledon ribattezzato “La personcina”, primo di una lunga serie di tormentoni.
Le puntate nascono al termine di una domenica senza soste per i Gialappa’s: «Quando iniziavano le partite noi ci mettevano lì davanti allo schermo e le guardavamo in bassa frequenza, tre a testa, non c’erano né anticipi né posticipi» ricorda sempre Santin «Prendevamo nota dei lisci e dei gol sbagliati, soprattutto. Dopodiché ci dedicavamo a “Novantesimo Minuto”, che andava in onda alle sei di sera, tipo, per cercare strafalcioni dei vari inviati o momenti divertenti delle interviste post-partita. Avevamo una redazione dedicata a questo, da soli non ce l’avremmo mai fatta, e poi il montaggio, tutto di corsa e via, pronti per le 22».
Mai dire gol ha la sua base a Milano 2, a Segrate, accanto a un altro gruppo di lavoro fondamentale per la riuscita del programma: è la redazione sportiva dell’allora Fininvest, non ancora Mediaset, in cui opera tra l’altro, ed è un complice formidabile, Giampaolo Gherarducci, fratello di Giorgio (e figlio di Mario, ex caporedattore dello sport al Corriere della Sera). Lui, ma anche Alberto D’Aguanno e Bruno Longhi sono tra i più attivi a suggerire ai Gialappa’s, di ritorno dagli stadi, strafalcioni e momenti comici. Longhi, peraltro, è quello che tirerà fuori a Giovanni Trapattoni durante un’intervista la sua frase più celebre: «Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco».
Ammette Santin: «Certo, poi tutte quelle segnalazioni di errori grammaticali andavano confermate, sbobinando i video che ci portavano dagli stadi e perdendo altro tempo, ma bisogna dire che funzionavano alla grande. Anzi, a volte erano addirittura i calciatori i primi delatori dei compagni. Con alcuni eravamo più amici, ad esempio con Walter Zenga, e non hai idea di quante volte ci è stato d’aiuto, del tipo “Oh ieri Fontolan ha sbagliato un congiuntivo” e robe così. Ed erano felici perché gli sfottò erano a rotazione, non prendevamo di mira sempre gli stessi». Altri, invece, come Raducioiu e Klinsmann (per cui Santin conierà il soprannome “La pantegana bionda”), non la prenderanno bene.
I calciatori diventano non solo fonti primarie per il trio, ma anche primi fan della trasmissione, forse stufi di una certa narrazione mielosa sul calcio, per la quale all’epoca non esistono alternative, quantomeno mainstream. Anzi, è come bestemmiare in chiesa. Mai dire gol, infatti, era stato proposto come format anche alla Rai, ma la risposta della televisione di Stato, nella figura del vice-direttore della redazione sportiva, era stata categorica: sul calcio non si scherza.
Le autorità del pallone, più che altro, non la prendono bene questa trasmissione: allenatori e presidenti non gradiscono, ma è un gioco che si ritorce loro contro, perché è un attimo finire sotto le grinfie della Gialappa’s. «C’erano dei personaggi clamorosi con i quali abbiamo campato per anni» sghignazza Santin. «Due nomi su tutti, due presidenti: Edmeo Lugaresi del Cesena e Pasquale Bellomo del Monopoli. Mandavamo da loro un finto giornalista per delle altrettanto finte interviste, loro ci cascavano, rilasciavano delle dichiarazioni assurde e sconclusionate talmente lunghe che avevamo materiale per decine di puntate». Sul fronte degli allenatori, nessuno è stato bersagliato come Trapattoni o, nella prima stagione, come Sebastiano Lazaroni, all’epoca tecnico della Fiorentina. Le sue interviste sottotitolate, in italiano maccheronico, hanno fatto scuola, fino a quando, dopo il licenziamento, su di lui non era stato composto una sorta di “Best of” con la musica in sottofondo di Missing. Un Lazaroni autoironico, visto che presto, consapevole di essere stato preso di mira, non se la prenderà affatto male, ma ci scherzerà su.
Gli inizi
Una persona in particolare ha permesso la nascita della trasmissione: Giorgio Gori, all’epoca direttore dei palinsesti di Fininvest (nota a margine, ha trent’anni, è appena più vecchio del trio Taranto-Santin-Gherarducci). Dopo Radio Popolare i tre Gialappa’s vengono assunti come autori di diversi programmi bene o male tutti di impronta comica su Italia Uno o Retequattro: Drive In, Emilio, Candid Camera, Smile, Che piacere averti qui, L’araba fenice e Un fantastico tragico venerdì, in cui già nel 1986 anticipano il loro stile, commentando da fuori e senza mai apparire alcune telenovele sudamericane.
«Un giorno Gori ci viene a parlare» ricorda Santin «perché aveva comprato per due lire i diritti di alcuni programmi giapponesi e non sapeva dove e come piazzarli. Li guardammo e li trasformammo in qualcos’altro». Erano Takeshi’s Castle e The Gaman, una specie di Giochi senza frontiere, che uniti, smontati e rimontati diventano “Mai dire Banzai”, un successo clamoroso nell’estate del 1989 pur trasmesso oltre le 22. Mai dire Banzai è la molla; questa trasmissione in cui si prendevano in giro i concorrenti giapponesi che si lanciavano in imprese estreme e assurde è la matrice per gli altri programmi che verranno, oltre che un volano per i tre Gialappa’s, finalmente protagonisti e non solo autori.
Chiude il cerchio Marco Santin: «Sullo slancio, Gori ci propose di fare qualcosa sul calcio, e dopo vari brainstorming, che già allora si chiamavano così, venne fuori l’idea di Mai dire Gol, mutuata dalla nostra precedente esperienza in radio. Tentativo dopo tentativo, fino al debutto del 18 novembre 1990».
In quei brainstorming nascono le idee delle rubriche che poi diventeranno celebri. Da “Questo lo segnavo anch’io”, ovvero la classifica dei non-marcatori, dei gol sbagliati, a “Le interviste possibili”, gli strafalcioni dei calciatori, degli allenatori o dei presidenti; da “Le ultime parole famose”, in cui, affiancando brani di giornali e contributi video, si sbugiardano alcune previsioni fatte da addetti ai lavori, a “Fenomeni parastatali”, che si concentra sui migliori bidoni mai arrivati dall’estero. E sull’estero c’è una sorta di sezione speciale, grazie all’ennesimo materiale di scarto che, recuperato, diventa prezioso: «In Inghilterra» ricorda Santin «avevo comprato delle cassette di Bloopers del campionato inglese, dei lisci dei calciatori inglesi, ma che contenevano anche immagini divertenti prese sugli spalti. Anche queste, come le interviste a Lugaresi o a Bellomo, ci hanno riempito lo spazio per diversi mesi».
Alcune di queste rubriche diventano parole di uso comune: una su tutte, “Il Gollonzo”, il gol più confuso e rocambolesco della giornata di campionato. A volte c’è bisogno di sceglierlo tra due o tre, nelle domeniche migliori, o di pescarlo nelle categorie inferiori. Un’altra è “Vai col liscio”, in cui il liscio non è il ballo tipico della riviera romagnola (che comunque fa da sottofondo musicale), ma l’errore tecnico del calciatore, sottolineato con effetti sonori divertenti.
Il risultato è oggettivamente comico, anche se di grana un po’ grossa, favorito anche dal ritmo che scandiscono le varie rubriche una dopo l’altra. In questo è molto simile a Drive In, la trasmissione forse simbolo degli anni Ottanta, che Federico Fellini, nientemeno, definiva come «L’unico programma per cui vale la pena avere la televisione». E se in Drive In gli sketch dei vari comici si alternano senza sosta, fermati solo dalle pause pubblicitarie, in Mai dire Gol a far ridere, come se fossero degli attori veri, sono gli addetti ai lavori del mondo del calcio, che viene mostrato per quello che è, senza la patina epica che gli è stata costruita addosso.
Si sapeva che molti allenatori parlavano un italiano stentato, le voci circolavano, ma nessuno aveva mai pensato di renderlo pubblico. Una sorta di Il re è nudo in cui i giornalisti di Novantesimo Minuto (considerato la messa cantata del calcio italiano) , vengono rappresentati come delle persone goffe, che si incartano con le pronunce degli stranieri o che non sono per nulla imparziali e se la prendono sempre con gli arbitri quando non favoriscono le squadre per cui tifano, tipo il famoso Tonino Carino da Ascoli. Anche le altre trasmissioni televisive vengono prese in giro senza ritegno, specie Il processo del lunedì di Aldo Biscardi: definito “La digestione della domenica pomeriggio” da Carlo Taranto.
Fenomeno di costume
Insomma, lo sport nazionale, e che a cavallo degli anni Ottanta e Novanta sta iniziando a spostare sempre più soldi, è messo alla berlina senza ritegno, senza guardare in faccia a nessuno. Santin, pur essendo interista, dice che «se c’era da prendere per il culo quelli della mia squadra non mi tiravo indietro, anche perché di motivi per farlo ce n’erano a bizzeffe all’epoca. Idem Giorgio che è milanista o Carlo, che è, diciamo, un ex milanista con sfumature genoane».
Il risultato è una trasmissione che dall’ombra dell’orario semi-clandestino diventa un fenomeno di costume, ottenendo un successo clamoroso. E che si evolverà in un prodotto sempre più completo, stavolta in onda il lunedì sera, quindi con più tempo a disposizione per prepararlo, in cui il calcio diventa quasi lo sfondo, e a prevalere sono gli attori comici che sul palcoscenico di Mai dire gol consolideranno la loro carriera o la vedranno letteralmente decollare: Teo Teocoli e Gene Gnocchi i primi, e in seguito Antonio Albanese, Aldo Giovanni e Giacomo, Luciana Littizzetto, Daniele Luttazzi, Paola Cortellesi, Maurizio Crozza, Claudio Bisio e tanti altri, fino a Maccio Capatonda con i suoi finti trailer cinematografici. “La Golden age della comicità”, come è stata definita di recente. In realtà Mai dire Gol è la versione satirica, quasi un grande omaggio, alle trasmissioni come Novantesimo Minuto: perché Frengo (Antonio Albanese) è un inviato sui generis, dichiaratamente tifoso del Foggia, così come Felice Caccamo (Teo Teocoli) del Napoli o i tre sardi (Aldo, Giovanni e Giacomo) del Cagliari. E lo studio da cui partono i collegamenti è chiaramente un riferimento ai talk show sportivi.
Una trasmissione dove il culto è garantito anche dalle sigle firmate Elio e le Storie Tese (peraltro “Pippero”, un’altra delle rubriche storiche, l’undici peggiore del campionato stando alla media-voti, deriva da un’omonima canzone del gruppo milanese): quella in cui i calciatori cantano «che il viale del tramonto si percorre a piedi nudi» o in cui gli allenatori vestiti da agricoltori disquisiscono che «il mister silurato si ritira e fa una fine tipo Agroppi». In questa seconda sigla, che è del 1995, ci sono degli insospettabili protagonisti come Fabio Capello, non proprio il primo tecnico che si pensa possa partecipare come complice di una trasmissione che in fondo sfotte anche lui e il suo mondo.
Coincidenze irripetibili che a volte si trasformano in qualcosa di quasi troppo grande. Prendiamo, per esempio, il personaggio di Tafazzi, interpretato da Giacomo Poretti: un omino vestito di nero che compare a “Mai dire Gol” nel 1995 prendendosi a bottigliate sulle parti intime intonando uno strano grido preso da Gam gam, canzone disco in voga all’epoca. Lo zero comico assoluto, secondo la Gialappa’s, ma che ben presto diventerà una parola del dizionario della Treccani, sinonimo di masochismo, con addirittura dei grossi esponenti politici a parlare di “tafazzismo”, anche in tempi recenti.
Oppure veri e propri corto circuiti mediatici, come quando nel 1996 l’Inter annuncia l’arrivo di un grandissimo campione, «Uno dei migliori calciatori del mondo»: è Rolando, da non confondersi con Ronaldo, che verrà acquistato l’anno dopo e nemmeno col Rolando difensore portoghese che vestirà nerazzurro nel 2013. In realtà è uno dei personaggi interpretati da Aldo, sempre del trio Aldo Giovanni e Giacomo. Tuttavia nel servizio che viene prodotto con la voce di Alberto Brandi si parla addirittura di un possibile cambio nella maglia dell’Inter, che diventerà mimetica come appunto quella di Rolando. Ci sono Maurizio Ganz, Marco Branca e Beppe Bergomi che ne tessono le lodi, il presidente Massimo Moratti assieme al direttore sportivo Sandro Mazzola che stringono le mani al neo-interista, sembra davvero una qualsiasi presentazione di qualsiasi nuovo acquisto: «La Juve adesso è avvisata», si conclude il servizio. Una specie di anticipazione di vent’anni delle presentazioni social di oggi, in cui le società cercano la viralità nei contenuti.
Mai dire Gol, che è diventato un genere televisivo, oggi non esiste più. In realtà non c’è più da tempo, dal 2001 per la precisione, ma sono rimasti i suoi figliocci o le imitazioni: la Gialappa’s Band è passata da Fininvest (poi Mediaset) alla Rai, poi con intermezzi anche a Sky e prima ancora a Telepiù, portando il suo inconfondibile marchio. Di “Mai dire” se ne sono susseguiti altri: “Tv” (forse il migliore di tutti), “Grande Fratello”, “Reality”, ma sempre più mosci, sempre meno convincenti. Resi più inerti dal sapere che c’era la possibilità, per i diretti interessati, di finire presi in giro, col risultato per le vittime, e di conseguenza per la Gialappa’s, di diventare meno naturali, meno spontanei, e quindi di rivelare il bluff. “Da incendiari a pompieri”, come scriverà il critico televisivo Aldo Grasso sul Corriere della Sera, citando una canzone di Rino Gaetano. E ancora: «Che pena applicare il loro consunto format al cinismo televisivo».
Eppure non mancano i nostalgici, i gruppi sui social network con centinaia di migliaia di iscritti che rivorrebbero Mai dire Gol, e che su YouTube continuano a caricare video dell’epoca sfidando le censure dei diritti di riproduzione (Mediaset in tal senso è severissima). Oggi è una trasmissione irripetibile per mille motivi. Tra i più evidenti, la nuova dimensione di molti calciatori, che attraverso i social network ci pensano da soli a raccontare se stessi con immagini divertenti o auto-ironiche, senza bisogno di filtri. Un secondo motivo è lo spezzettamento estremo del calcio, con le partite forse più facili da seguire in televisione, ma proprio per questo con più occhi puntati sullo schermo, occhi in grado di creare in un attimo, grazie alle nuove tecnologie, video in cui si sottolineano gli errori o i lisci dei calciatori.
E pazienza se si lasciavano giudicare da una sorta di tribunale che non ammetteva appello, come quello dei tre Gialappa’s, pazienza se non si guardava l’aspetto tecnico del gioco puntando su una risata di facile consumo. Qualcuno è rimasto nella memoria collettiva più per i suoi errori che per delle prodezze sul campo. Un’umanizzazione dei giocatori che ha contribuito, chissà, a rendere il calcio italiano dell’epoca il migliore al mondo, o comunque il più ambito.