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Tra Maifredi e la Juventus non poteva funzionare
01 ago 2019
L'altra volta in cui la Juventus scelse un allenatore con idee tattiche molto precise.
(articolo)
22 min
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«Stavamo andando a Roma, sull'aereo di Agnelli. Eravamo io, lui, Cesare Romiti, il presidente Montezemolo, Henry Kissinger». In un bel giorno di primavera del 1990, sui cieli limpidi della Capitale, l'ex rappresentante di panettoni e champagne Luigi Maifredi si ritrova a spiegare all'Avvocato perché sta rifiutando tre anni di contratto per allenare la Juventus. Il ragionamento pare sensato: gliene basta uno, se farà bene il rinnovo sarà automatico, altrimenti grazie e arrivederci. L'uomo sembra tranquillo, sicuro del fatto suo, con la serenità del venditore di successo. Ma dopo aver firmato secondo i desiderata del suo nuovo tecnico, Agnelli lo guarda e gli dice: «Ma allora lei, Maifredi, è uno di quelli che abbandona la nave che affonda?». E Luigi da Lograto, 3mila abitanti a 16 chilometri da Brescia, per un istante smarrisce la sua proverbiale parlantina.

«Il contadino in campagna porta gli zoccoli, ma quando entra nel palazzo si mette le scarpe pulite». Sarebbe potuta tranquillamente essere una frase a effetto con cui Maurizio Sarri avrebbe inteso ripulire l'immagine da buttero maremmano, appena messi i piedi sulla moquette della Continassa; invece fu il biglietto da visita di Maifredi, tolto il cappello e sfoderato il completo verdino al primo giorno di scuola nella novecentesca sede juventina di Piazza Crimea.

In questi giorni in molti hanno spolverato i faldoni e rilucidato i file della disgraziata stagione 1990-1991 della Juventus, e uno scaramantico di platino come Sarri potrà senz'altro sistemare le mani dove meglio crede. Ma tra Maurizio e Luigi non ci sono troppi punti in comune: Maifredi non aveva secondi posti in serie A né trofei internazionali in curriculum, né cinque anni di abitudine ai grandi giocatori e agli spogliatoi problematici, né la pressione di dover vincere e basta in un ambiente dove non si fa altro da otto anni. Anzi, nel 1990 la Juventus ha smarrito da quasi un lustro la strada maestra che conduce agli scudetti, finiti due volte a Napoli e due volte a Milano, e ha potuto consolarsi solamente con le pur ottime Coppa UEFA e Coppa Italia.

Uomo dell'ancient régime, legato a triplo filo al ventennio di Boniperti, Dino Zoff è stato sacrificato sull'altare della modernità e del calcio-champagne, inteso esso in senso letterale: il nuovo presidente Luca Cordero di Montezemolo affida le chiavi della rivoluzione al parvenu Maifredi, che ha un cursus honorum degno della tratta di un Regionale della Bassa Padana: Lumezzane, Orceana, Ospitaletto e poi la grande città, Bologna, «dove cantavo all'Osteria dei Poeti fino alle 3 di notte con Dalla, Morandi, Guccini, Luca Carboni... cavallo di battaglia, Sapore di Sale».

Dopo un inizio di carriera da commesso viaggiatore in giro per la Lombardia, Maifredi era diventato il principe del Veuve Clicquot Ponsardin – marcando in questo una prima decisiva differenza con l’Avvocato Agnelli, che com’è noto andava matto per il Philipponnat millesimato. Ha scalato le gerarchie della Serie A trascinato dall'entusiasmo di fine decennio, che sconfina in una fiducia cieca verso il sistema di gioco più sexy e divertente che ci fosse, la Zona, che secondo una dottrina leggermente deviata di Casa Agnelli è alla base delle fortune del Milan di Berlusconi e del ribaltone rossonero sulla Juventus in chiave internazionale. All'inseguimento di Sacchi, allora, scegliendo un tecnico dal medesimo pedigree, ma con molta più joie de vivre rispetto all'Omino di Fusignano con tendenze da Savonarola (e uno dei più azzeccati soprannomi di Maifredi sarà, per contrasto, l'Omone). Contrariamente a tanti suoi colleghi che, smaniosi di diventare vittime consapevoli della seduzione degli squadroni, non hanno esitato a falsificare i diari dell'adolescenza, Maifredi da ragazzo era genuinamente tifoso juventino, uno di quelli che «aveva pianto per una foto di Sivori». La Juventus lo ha scelto su input dell'Avvocato prima ancora del cambio della guardia, tanto che un primo contatto risale addirittura al 1988. «Una mattina squilla il telefono, risponde Bruna, mia moglie. “Pronto, sono Giampiero Boniperti”. E lei: “Certo, e io sono Grace Kelly”. E riappende. Il giorno dopo suonano alla porta, è il fiorista con un gigantesco mazzo di rose. C’è un biglietto: “Sono davvero Boniperti”. Ma Maifredi è un audace e la fortuna lo assiste: il treno bianconero ripassa due anni dopo, e questa volta non montarci sarebbe un delitto. Dopo due meravigliose stagioni in A col Bologna, coronate da un'indimenticabile qualificazione in UEFA, l'Omone è pronto al grande salto.

“Sono un portatore di zona!”

Maifredi è il tassello più in vista di una rivoluzione culturale che a Piazza Crimea non ha risparmiato neanche i ficus benjamin: saluta dopo quasi un ventennio Giampiero Boniperti nei secoli fedele, escono di scena con lui collaboratori strettissimi come il direttore generale Pietro Giuliano e il ragionier Sergio Secco (padre di Alessio, futuro ds di un’altra Juve dimenticabile), fa le valigie in silenzio anche Dino Zoff nonostante una coppa UEFA e una coppa Italia (vinta proprio contro il Milan!), in una stagione segnata dalla terribile notizia della morte di Gaetano Scirea. L'homo novus si chiama Luca Cordero di Montezemolo e sta governando il Comitato Organizzatore dei Mondiali di Italia 90, in quei mesi felici in cui tutto il Paese è ancora convinto che i Mondiali di Italia 90 stiano andando alla grande. Nuovo lo stadio e nuovo il centro d’allenamento a Orbassano, che sostituisce il vecchio “Combi” in via Filadelfia. C’è un nuovo presidente, l’austero avvocato Vittorio Caissotti di Chiusano. Da Roma arrivano il direttore sportivo Nello Governato e Enrico Bendoni, capoufficio stampa proprio a Italia 90, più l'outsider Maifredi che ha facoltà di scegliersi due cavallini di razza da portarsi da Bologna. Proprio come Sacchi si era portato da Parma a Milanello Roberto Mussi, Walter Bianchi e un'ampia scorta di VHS di movimenti difensivi di Gianluca Signorini da mostrare a Franco Baresi, la scelta di Maifredi cade sui difensori Gianluca Luppi e Marco De Marchi, tutto sommato gli acquisti meno in vista di un mercato estivo da oltre quaranta miliardi di lire che ha già sparato in primavera il colpo più pregiato.

Dell'affaire che porta di sottecchi Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus si sa ormai tutto. Ai fini di questa storia, per meglio chiarire le cause che portarono al clamoroso naufragio del Maifredismo, è bene aggiungere che una trattativa così velenosa e malmostosa, in grado di portare gli ultras viola sull'orlo della guerra civile, guasta un'altra trattativa in piedi per tutta l'estate, quella che nei desideri di Maifredi porterebbe alla Juventus anche il brasiliano Dunga, mastino di centrocampo essenziale per rimpolpare un reparto mediano consistente come il famoso tonno che si taglia con il grissino. Invece i Cecchi Gori, appena arrivati alla presidenza della Fiorentina, non se la sentono di esacerbare gli animi, Dunga prova a tirare un po' la corda (con l'aiuto, anche qui, del volpone Antonio Caliendo) ma alla fine deve rassegnarsi a restare a Firenze. La Juve rimane un po' con il cerino in mano, se è vero che rimane vacante anche il posto del terzo straniero. Via i sovietici Alejnikov e Zavarov e il portoghese Rui Barros, ne arrivano solo in due: dal Colonia il nanerottolo tedesco Thomas Hassler, titolare della Germania di Beckenbauer campione del Mondo, e in difesa l'elegante brasiliano Julio Cesar, miglior difensore di Messico 1986 prima di un leggero rammollimento in Francia tra Brest e Montpellier.

La campagna acquisti si completa con Di Canio, elettrica seconda punta della Lazio, il regista bresciano Eugenio Corini e il giovane Massimo Orlando dalla Reggina, che a novembre sarà girato in prestito alla Fiorentina e non tornerà mai più indietro.

Arriva dunque Maifredi, con etichette e procedure che nel calcio di oggi, con allenatori abituati alla fluidità e all'adattamento come unica ragione di sopravvivenza, farebbero sorridere: «Sono un portatore di zona!», afferma con voce squillante durante la presentazione. Subito abiura il libero, per carità, tutti in linea e tutti all'attacco, con Baggio, Hassler e due punte: il giovane torello Casiraghi, che di testa incornerebbe senza paura anche dei frigobar, e naturalmente Totò Schillaci, sensazione planetaria nell'estate delle Notti Magiche.

Da una zona allegra a una zona triste

C’è entusiasmo, persino lo slogan della campagna abbonamenti ammicca alla rivoluzione tattica: «Scegliete la vostra zona». Cosa potrebbe andare storto? Beh, magari puntellare un centrocampo che vada oltre la coppia Galia-Marocchi, specialmente se la difesa Napoli-Bonetti-Julio Cesar-De Agostini, più che una linea, sembra un metro pieghevole da geometra. I nodi vengono tutti drammaticamente al pettine la sera della prima, al San Paolo per la Supercoppa Italiana, coppetta ancora “minore” di cui la stessa dirigenza minimizza l'importanza («È una competizione che è stata inventata come la festa del papà»). «E già qui avrebbe dovuto suonare un campanello», dirà Maifredi, «mi avevano insegnato che la Juventus lottava sempre e solo per vincere». E invece all'intervallo è il Napoli che vince, e 4-1, con capitan Tacconi costretto a esibirsi da libero e già colto da numerosi attacchi di labirintite che l'hanno condotto ben oltre la trequarti; finisce 5-1 e rimarrà per distacco, senza tema di essere smentiti, l'esordio più disastroso nella storia degli allenatori della Juventus.

“Nessuno marca a uomo”, si lamenta la seconda voce Roberto Bettega già sul replay dell'1-0.

Una settimana dopo è già campionato, che la Juve inizia tenendo a battesimo l’ambizioso Parma del Cavalier Tanzi, al debutto assoluto in Serie A. Lo fa con una maglia da trasferta tutta nera, approvata con entusiasmo da tutto lo stato maggiore, in linea con i propositi un po’ vaghi di futurismo a cui rispondono Maifredi, Baggio, la zona… Ma già serpeggia un filo di paura, il presidente Chiusano in settimana ha richiamato all’ordine, “la Juve non dev’essere un laboratorio per esperimenti”. Maifredi capisce l’antifona e da una “zona allegra” passa a una “zona triste”, dagli ormeggi rinforzati, lasciando Hassler a Torino e Casiraghi in panchina.

Arriva una vittoria per 2-1 di pura sostanza, che contiene in controluce tutti i motivi della prima parte di stagione: un Baggio per nulla appesantito dalla maglia numero 10 della Juventus, anche se in grado di segnare quasi solo da fermo; uno Schillaci clamorosamente abulico, ancora stordito dalle paillettes di Italia 90, con qualche problema muscolare a corredo; un atteggiamento generale da cantiere e da freno a mano, in cui il primo punto all’ordine del giorno è evitare figuracce stile-Napoli, e per finire una discreta jella, sotto forma di un’infinita sequela di pali e traverse che saranno grifagni compagni di viaggio della Signora per tutta la stagione.

La sensazione di motore grippato si amplifica nell’elefantiaco Delle Alpi, lo stadio-gioiello che da subito suscita sincera riprovazione anche ai più dotati di buona volontà, dove la Juve accumula pareggi, spesso stretti, come l’1-1 con l’Atalanta che pareggia grazie a un rigore dubbio, lo spettacolare 0-0 contro la Sampdoria o lo 0-0 meno rutilante contro la Lazio di Zoff, che si chiama cori nostalgici e fischi di impazienza. Sui campetti di provincia, dove la Juve continua a esibire il suo outfit da trasferta dal sapor neozelandese ed è più libera dalle tensioni, arrivano invece un pareggio a Cesena contro i romagnoli di Lippi e una vittoria a Lecce contro i salentini di Boniek, praticamente i fantasmi della Juve futura e della Juve passata.

Al di là dell'affascinante confronto Lippi-Maifredi, possiamo apprezzare il sontuoso look da trasferta della Juventus 1990-1991.

Poi, alla settima giornata, i gol iniziano a defluire tutti insieme come la maionese dal tubetto proprio nel pomeriggio più delicato, quello in cui al Delle Alpi si presenta l’Inter di Trapattoni, sempre piuttosto allergico ai venti di modernità, che non vede l’ora di picconare la Juve del 2000, ma invece torna a casa con quattro gol sul groppone.

Arrivano il primo gol in campionato di Casiraghi, con una capocciata all’altezza della sua fama da armadio a muro brianzolo, e persino di Schillaci, mentre Baggio trasforma il solito rigore e ispira, con le sue movenze da incantatore di serpenti, il quarto gol di De Agostini.

È il momento più felice della stagione, in cui sembra girare tutto bene, seppur venato da qualche inquietudine sotterranea. La domenica successiva Maifredi torna nella sua Bologna, osannato come non è mai capitato a un allenatore della Juve, e passa con l’ennesimo rigore di Baggio mentre Tacconi ne para un altro all’ungherese Detari, nella partita che passa alla piccola storia del campionato per il garbato scambio di vedute tra Schillaci e l’ala bolognese Fabio Poli: una manata, un pugno, forse uno sputo, fino al fatale «Ti faccio sparare in bocca» di Totò che ventila conoscenze altolocate nel quartiere Cep di Palermo.

Perché bisogna dire anche questo: nonostante abbia fatto sognare tutto un Paese per quasi un mese intero e disporrebbe di tutte le caratteristiche giuste per piacere agli italiani, Schillaci non è esattamente un uomo gioviale, e questa – nel Paese dove essere “carini” e “simpatici” conta a volte più della sostanza – sarà una delle cause del suo velocissimo oblio che lo porterà a diventare il primo italiano espatriato in Giappone, nel 1994.

«Sarebbero volati schiaffi, parole grosse, molto grosse» - tutto l'understatement sabaudo di Roberto Scardova.

Evitata una sconveniente squalifica, Totò vive la giornata più bella della stagione il 18 novembre 1990, quando segna una tripletta alla Roma all’interno del 5-0 con cui la Juve del futuro trita una Roma senza difese, fatta a fette da Baggio e dal suo clone Hassler. È la partita simbolo delle ottime intenzioni della Juve di Maifredi “in purezza”, cioè quando non c’è da sporcarsi le mani per inseguire punti e risultati. Ma quando si increspano le acque i bianconeri sembrano invece sempre un po’ inadeguati, come quando sul 4-0 Di Canio va inutilmente a provocare mezza Roma, causando l’ingresso in campo di Maifredi costretto a portarlo via a braccia.

Cosa è mancato alla Juventus?

Cosa manca a questa Juve per il definitivo salto di qualità? Forse, paradossalmente, una sconfitta: e il primo colpo a vuoto della stagione arriva a Bari alla decima giornata, nella più classica delle ricadute a Terra dopo aver volato troppo alto. Altri piccoli segnali inquietanti: le parole baldanzose dell’avversario di turno, in questo caso l’allenatore Gaetano Salvemini («Contro la zona ci divertiremo»), a cui fa seguito in effetti il divertimento del Bari. È dunque una Juventus fragile, leggera non solo fisicamente? Baggio soffre la prima volta contro la Fiorentina, anche se i bianconeri riescono a sfangare un 2-1 in rimonta grazie alla doppietta della preziosa riserva Angelo Alessio. Poi arriva un curioso derby giocato di lunedì pomeriggio causa neve, in cui i bianconeri subiscono l’1-0 di Policano in superiorità numerica e agguantano il punto grazie alla solita magia di un Baggio di cui non si parla mai abbastanza bene. E infine il pareggio più sinistro di tutti, da 2-0 a 2-2 in casa contro il Cagliari ultimo in classifica, un passo falso che nella narrazione della stagione bianconera avrà un ruolo quasi centrale.

È l’ultima partita prima di Natale e la Juve commette l'errore di considerarla già vinta. Dopo venti minuti è già avanti 2-0 e i risultati dagli altri campi la spingono per lunghi minuti in testa alla classifica insieme alla Sampdoria. Ma i sardi escono dall’intervallo trasformati e, con le opportune modifiche tattiche del tecnico Claudio Ranieri, passano da uomo a zona e infilzano senza pietà i bianconeri allegramente all’attacco, con Maifredi che nonostante le difficoltà non ritiene di coprirsi rinunciando a uno tra Baggio, Hassler, Schillaci, Di Canio e il tenero regista Corini. E di chi è la colpa? Maifredi se la prende con la cena sociale di Natale, il cui pensiero si sarebbe impadronito della Juve pigra e borghese per tutto il secondo tempo, e non è un film di Bunuel. «Questa è una squadra in fase di maturazione, ma evidentemente è una fase di maturazione molto lenta». E il 1990 si chiude con la sconfitta più dolorosa della prima parte di stagione: uno 0-2 a casa di Sacchi, con il Milan nelle comode vesti del sornione micione che gioca con i topolini bianconeri, divertendosi a piazzare le due zampate fatali con Ancelotti e Gullit dopo aver finto di subire per 50 minuti i ritmi troppo alti imposti dalla Juventus. Nelle interviste post-gara Maifredi sembra più ombroso, più spigoloso nel difendere le sue idee di calcio, anche se il banale contropiede Rijkaard-Gullit con cui il Milan ha chiuso cinicamente la partita non contiene alcun segno di modernità, e chi lo subisce fa più che altro la figura del fesso. Sono i giorni in cui Maifredi inizia a sentirsi solo, improvvisamente non all’altezza dell’aristocrazia dei suoi superiori, che dopo qualche battutina sulla fase difensiva iniziano a rilasciare le prime dichiarazioni senza guanti, da veri torinesi che vogliono comunicare insofferenza in punta di piedi.

Se Montezemolo si fa uccel di bosco - due giorni a Zurigo, due giorni a New York, un giorno a Milano in qualità di amministratore delegato di RCS Video, due giorni a Roma in qualità di compagno di Edwige Fenech - gli altri iniziano a parlare, e a parlare chiaro. Chiusano dopo il Milan: “E’ stata una brutta domenica, e non sarà l’ultima”. Oppure Umberto Agnelli dopo Juventus-Napoli 1-0 (15^ giornata): “Io questa Juventus non la capisco. Ha dei buonissimi giocatori, a volte è anche divertente, ma con delle ingenuità che non capisco proprio”.

Il 1991 inizia con due vittorie e il ritorno con gol di Casiraghi dopo uno stop di due mesi, ma al tramonto del girone d’andata arriva la prima dolorosa sconfitta casalinga contro il Genoa di Osvaldo Bagnoli, cui non par vero, dopo tanti anni di carriera, di incontrare una Juventus così ingenua e predisposta a imbarcare contropiedi. Il resto lo fa Schillaci, le cui polveri ormai non sono bagnate ma completamente fradicie; Totò viene anche espulso per una gomitata e riceverà due giornate di squalifica. Ma una settimana dopo voilà, ritroviamo una Juve stellare nel 5-0 al Parma rivelazione, in cui Baggio è nuovamente mattatore ma a fine partita si lascia andare a confidenze ben poco juventine: “La verità è che possiamo perdere con tutti e vincere con tutti”. Dev’essere un concetto intollerabile per la vecchia guardia, che in molti sussurrano sia pronta a riprendere il potere; e così anche Maifredi sceglie la strada del bagno d’umiltà e di realismo, proponendo per qualche domenica una Juve meno spregiudicata in cui il punto d’equilibrio è rappresentato dall’uomo d’ordine Daniele Fortunato, lento ma dal gran sale in zucca, che diventa il “tranquillante” dell’Avvocato Agnelli messo alla prova da una fase difensiva tanto “emozionante”. Per tre partite la Juve non subisce gol e si riavvicina al primo posto, ma il 17 febbraio 1991, a Marassi per lo scontro diretto contro la Sampdoria, riecco la peggior versione della banda-Maifredi, squinternata, assurdamente infarcita di punte e mezzepunte e fondamentalmente molle, ingenua, infinitamente meno cattiva di una Samp furba e pronta per il titolo. La sconfitta arriva per un episodio (un rigore discutibile per fallo di Galia su Mancini) e Maifredi avrà modo di ricamarci a lungo: ma l’amara verità è che, arrivati a metà febbraio, questa Juve continua a rivelarsi immatura, a cominciare dal suo allenatore.

Il piano diventa inclinato e la Creatura Juve smette di funzionare, ribellandosi al suo inventore. 0-0 contro il Lecce, sconfitta 0-1 in casa della Lazio, sconfitta 0-2 in casa dell’Inter che causa il silenzio stampa, 1-1 interno col Bologna raccattato solo in extremis per un rigorino molto generoso. Fioccano in abbondanza pali e traverse: Maifredi è quel tipo di generale che non avrebbe goduto delle simpatie di Napoleone. E’ tornato Schillaci e l’eroe delle Notti Magiche è ormai sempre più una macchietta, pubblicamente compatito da Agnelli (“Ha sempre la schiena alla porta, non gli va bene niente”) che poi glissa elegantemente su propositi di esonero del tecnico: “Noi gli allenatori li teniamo sempre fino alla fine dell’anno”. I bianconeri si guardano le spalle e scoprono con terrore che non è certa nemmeno la qualificazione UEFA, causa impetuosa rimonta di Parma e Torino. La Coppa Italia è già andata e l’ultima spiaggia rimane la Coppa delle Coppe, dove grazie anche a un tabellone facile i bianconeri sono arrivati a giocarsi la semifinale contro il Barcellona di Johan Cruijff, nella sua prima versione di Dream Team.

Ma i giorni che precedono il viaggio d’andata in Catalogna sono animati da una tempesta di cui l’ambiente avrebbe fatto volentieri a meno. In trasferta a Firenze, dove il pubblico locale si è diviso sul tipo di accoglienza da riservare a Roberto Baggio, la Juve va sotto a fine primo tempo e ottiene un calcio di rigore in avvio di ripresa. Baggio è stato rigorista infallibile per tutta la stagione, ma stordito dalla valanga di fischi ricevuta per 50 minuti cede l’incombenza a De Agostini, che si fa parare il tiro da Mareggini. Accortosi che non è aria, Maifredi sostituisce lo spaurito Roby con Alessio e, miracolo!, non appena messo il piede oltre il bordocampo i fischi del Franchi si trasformano in applausi, boati che diventano ovazione quando Baggio, calpestando ogni regola non scritta del codice di sopravvivenza del calciatore di serie A nei confronti della sua stessa curva, si china a raccogliere una sciarpa viola lanciata dagli spalti. L’impressione è enorme e deve frastornare lo stesso Baggio, che tre giorni dopo sulla pista di decollo verso Barcellona promette che “ripagherà anche la fiducia dei tifosi juventini”. Maifredi assiste a questo teatrino senz’averne il minimo controllo: pubblicamente smorza e minimizza senza crederci neanche, accusando sulla pelle – spunta un herpes sul labbro superiore piuttosto rivelatore - gli sguardi di commiserazione degli alti papaveri bianconeri che non avevano mai visto una Juventus con così poco amor proprio.

A Barcellona allora, dove la frase profetica di Baggio di due mesi prima assume una valenza ancora più grottesca: ormai la Juve è in grado di vincere e perdere con chiunque anche all’interno della stessa partita. Maifredi decide ammirevolmente di morire con le proprie idee e sorprendentemente dal suo 4-2-2-2 sgorga un gran primo tempo, sbloccato al 13’ da Casiraghi dopo un pasticciaccio difensivo blaugrana, con Baggio che a fine primo tempo si mangia lo 0-2 a tu per tu con Zubizarreta. Ma poi il Barça si corregge, il grande ex Michael Laudrup sale di tono, Maifredi ritarda l’ingresso in campo di Corini che avrebbe dato più copertura e al 75’ siamo 3-1, con la sensazione, sgradevole soprattutto per uno juventino, di un tracollo inevitabile. Per la resa dei conti non c’è che da aspettare altre due settimane: nel frattempo la Juve trova il modo di perdere in maniera rocambolesca anche il derby di ritorno, prendendo delle imbucate centrali inaccettabili per una squadra che indossi maglie a righe bianche e nere.

Come spesso succede, è nell’ora buia che qualsiasi squadra trova le energie fisiche e morali insospettabili per invertire la rotta. Succede anche alla Juve di Maifredi, che decide di affrontare la semifinale di ritorno cambiando completamente spartito: Tacconi in porta, Fortunato libero (!), Napoli a uomo su Stoichkov e Galia su Bakero, con la clamorosa sorpresa di Julio Cesar mediano a guardia di Laudrup. De Agostini scorrazza a sinistra da attaccante aggiunto, Corini e Marocchi dirigono il traffico in mezzo, Hassler e Baggio ci mettono la fantasia e cercano di armare Casiraghi, preferito a Schillaci. È nettamente la miglior Juventus stagionale, ma probabilmente ricorderete il riferimento napoleonico di poco fa sulla fortuna di Maifredi: perché lo Zubizarreta pasticcione dell’andata è diventato muraglia insuperabile, perché il tartarugone Ronald Koeman è in una notte di esaltazione e poi perché semplicemente è tutto l’anno che la Juve fa una fatica blu a segnare su azione e le decine di tiri escono quasi tutti di poco, a eccezione della splendida punizione di Baggio al 60’ che accende il Delle Alpi e regala mezz’ora di speranza.

In dieci per l’espulsione di Amor, il Dream Team si rassegna al più bieco dei catenacci e meriterebbe sinceramente di andare a casa, ma è come se i bianconeri dovessero pagare tutte in una sera le amnesie e i balbettii di una stagione intera: peccati perdonabili per una squadra normale, ma non per chi si chiama Juventus e deve sempre fare i conti con le maledette aspettative. Le orecchie dell’asino toccano allo sciagurato Schillaci, sempre in ritardo di un fatale decimo di secondo: Totò ha appena ventisei anni e gioca in serie A solo da due stagioni, ma sembra già un ex. «Fin qui eravamo stati bravini e bellini, ma senza rabbia. Stasera ho visto la Juventus del futuro«, argomenta Maifredi a caldo, «ma non prendetelo come un testamento. Se non resto qui, non perderò il sonno».

Juve-Barcellona è probabilmente la più bella partita dei quattro anni bianconeri di Julio Cesar.

Non resterà. Il finale di stagione è un penoso pro forma all’insegna della falsa cortesia sabauda: tutti notano che c’è un funerale in atto, ma nessuno vuole essere il primo a porgere le condoglianze. All’Avvocato Agnelli, interpellato sul futuro del tecnico all’ultima casalinga contro il Pisa, sfugge un “Lo sapete tutti…”. Non mancano altre evitabili stazioni della via crucis: uno 0-3 casalingo contro il Milan di Sacchi che pasteggia in ciabatte sui resti bianconeri; una sconfitta all’ultima giornata a Marassi contro il Genoa che significa esclusione dalle Coppe Europee per la prima volta in 28 anni; il piazzamento in classifica dietro il Torino, a sei anni dall’ultima volta, e il coro “Juventino, al mercoledì guardati Twin Peaks” a spargere ulteriore sale sulle ferite dei tifosi. I venti di restaurazione spirano più forti che mai e vanno verso porti sicuri che rispondono agli aurei nomi di Boniperti e Trapattoni.

Montezemolo viene scelto per rilanciare un altro tesoro di famiglia bisognoso di cure, la Ferrari, che sta vivendo un 1991 terribile, ripetutamente umiliata da McLaren e Williams: non si occuperà mai più di calcio. La Juventus nasconderà l'album fotografico di questa disgraziata stagione in cima al più alto degli scaffali, favorendo l'oblio rapidissimo che scenderà su Maifredi che d'altra parte ci metterà anche del suo, rifiutando la Sampdoria nel 1991 per tornare nell'amata Bologna per non scontentare gli amici (“Ma già alla partenza del pullman verso il ritiro, mi chiedevo cosa ci facessi lì”). Nelle notti estive di afa nella Bassa Bresciana, svegliandosi di notte e fermandosi a guardare la luna, gli capiterà spesso di chiedersi se davvero gli è successo di allenare Baggio, di pranzare con Agnelli, di sfidare Johan Cruijff, o se Barcellona è solo la città in cui tanti anni prima era stato in viaggio di nozze con la sua Bruna.

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