A distanza di quasi due settimane, la delusione per la sconfitta di Istanbul sembra depositarsi in parte della memoria collettiva nelle forme della rimozione se non della denegazione; del “diniego” del piano di realtà. Processo legittimo, anzi sacrosanto - entro certi limiti - per la tifoseria interista, giustamente orgogliosa di un esaltante epilogo di stagione e di un’eccellente finale di Champions. Entro certi limiti, perché certe dilatazioni iperboliche - Inzaghi che “normalizza” o “annienta” Guardiola; Acerbi che “distrugge” eroicamente Haaland, e così via - finiscono col parodiare, macchiettizare la stessa prestazione della squadra.
Quella rimozione-distorsione è meno comprensibile, invece, quando vede parte del mainstream (in buona o malafede, per malinteso “italianismo” tattico o malinteso patriottismo, o a un mix dei due “ismi”) arrivare a sostenere come la Champions sia del City solo de iure, per la burocrazia e gli albi d’oro; e lo sia invece de facto - nella realtà tecnico-agonistica - dell’Inter e dell’Italia. In quest’ottica, il City sarebbe cioè un detentore abusivo, con un coach sopravvalutato, armato solo del “bancomat” dal plafond infinito (Fabio Capello dixit), messo a disposizione dal fraudolento proprietario emiratino Mansur. Su quest’ultimo aspetto - trattato di solito in modi qualunquistici, se non demagogico-moralistici - torneremo in breve alla fine.
Intanto, è forse utile provare a correggere quelle rappresentazioni distorsive. A risalire - o riscendere - al piano di realtà.
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