L'etichetta di allenatore in campo è stata incollata alla figura del Roberto Mancini calciatore talmente tante volte da figurare persino sulla voce dell’Enciclopedia dello Sport edita dalla Treccani. Scritte da Fabrizio Maffei nel 2002, le poche righe dedicate al fuoriclasse jesino identificano nel passaggio alla Lazio nel 1997 la vera assunzione di responsabilità del Mancio. Una figura ingombrante, riconosciuta – e non sempre apprezzata – dai compagni di squadra. In un’intervista del 2014, Diego Fuser lo indicava velatamente come il responsabile del suo addio alla Lazio: «Sono andato via a 29 anni perché a qualcuno non andavo bene: volevo finire la carriera in biancoceleste, ma qualcosa non andò bene con qualcuno che voleva fare l’allenatore in campo».
L’artefice dell’arrivo a Roma di Mancini era stato Sven Goran Eriksson, chiamato nella capitale per far fare il salto di qualità a una squadra bella e incompiuta nella gestione zemaniana. Non solo: con il ritorno nella Città Eterna (aveva allenato la Roma dal 1984 al 1987), lo stesso Eriksson andava disperatamente a caccia di una svolta. «Dopo i miei anni alla Fiorentina e alla Sampdoria – scrive il tecnico svedese nella sua biografia – c’era qualcuno che iniziava a chiamarmi “Il perdente di successo”. Sentivo spifferi tra i giornalisti, non mi ritenevano in grado di vincere il campionato. Era una cosa che odiavo. Dovevo rendere la Lazio la “mia” squadra e instillare una mentalità vincente. […] Andai da Cragnotti e gli dissi che avremmo dovuto comprare tre giocatori per vincere il campionato: Mancini, Mihajlovic e Veron. Era un’affermazione piuttosto arrogante, non nel mio stile. Cragnotti non ne fu convinto fino in fondo, e per il primo anno prese soltanto Mancini». Per lo scudetto Sarebbero servite tre stagioni complete (e, in effetti, gli acquisti di Mihajlovic e Veron), le ultime della carriera da calciatore di Mancini, pronto a passare al fianco di Eriksson a partire dal campionato 2000-01, quello giocato con il tricolore sul petto dalla Lazio.
Una transizione praticamente naturale. Per avere le carte in regola, Mancio si sottopone all’esame di abilitazione ad allenatore di seconda categoria. «Se avessi continuato a giocare avrei potuto soltanto peggiorare. L’ultimo anno è stato irripetibile, bellissimo. Soltanto in campo vedrò se sarò emozionato o meno. Sono molti anni che lavoro, o meglio gioco, per Eriksson. Nel rapporto con Sven non cambia niente, l’unica cosa diversa è che non potrà contare su di me in campo, ma la Lazio ha tanti leader». Lo supera senza problemi e si proietta alla nuova carriera rispettando tutti i passaggi necessari, dichiarandosi pronto alla gavetta: «Era il mio sogno, la mia aspirazione. Sarà una stagione di grande esperienza per me, poi cercherò una squadra da allenare in prima persona. Nessun problema se dovessi esordire in B». La stagione si apre con la vittoria della Supercoppa Italiana contro l’Inter, ultima squadra che aveva affrontato da calciatore nella finale di Coppa Italia del 18 maggio del 2000. «Sul terzo gol dell’Inter è stato un attimo: “Adesso entro io”, mi sono detto. O meglio, me l’ha dettato l’inconscio. Un altro attimo e se n’era già andato, è stato lo strappo definitivo con la mia vecchia vita e l’inizio della nuova». Il promettente inizio è illusorio, il giocattolo Lazio si rompe in fretta, con Eriksson promesso sposo della Nazionale inglese. Il 3 dicembre, nel 2-0 contro la Reggina, Simone Inzaghi strappa un rigore a Hernan Crespo e lo calcia con un terribile cucchiaio, bloccato comodamente da Taibi. La reazione di Mancini è la fotografia dei problemi biancocelesti.
Intorno a 1’55”, il labiale di Mancini non lascia spazio alle interpretazioni: «Che deficiente».
Il richiamo della foresta
La prima vita del Mancini allenatore finisce da lì a un mese: il 9 gennaio 2001, dopo un clamoroso ko interno contro il Napoli, condito da un epico autogol di Pancaro, Eriksson si dimette e al suo posto arriva Dino Zoff. Lo svedese vola in Inghilterra per prendere le redini della Nazionale dei Tre Leoni, Mancini per qualche ora culla il sogno di diventare subito tecnico della Lazio, in barba alla gavetta. «Io non volevo essere il traghettatore ma l’allenatore di questa squadra. Ero il più stretto collaboratore di Eriksson, se le cose non sono andate bene vuol dire che le colpe sono anche mie. Mi dispiace, qui ho vissuto quattro anni bellissimi, indimenticabili. Ma nel calcio e nella vita ci si lascia e poi magari ci si ritrova».
Rimane senza nulla da fare per qualche giorno, in quel momento della vita e della carriera è quasi un oltraggio per Mancini. Anche per questo motivo, corteggiato dal Leicester, decide di tornare in scarpini e calzoncini. «Io resto un allenatore e a giugno rientrerò in Italia per sentire se ci saranno offerte in questo senso, però non ce la faccio a stare senza far nulla. Dopo 24 anni di calcio, di pallone vissuto giorno dopo giorno sul campo, stare fermo mi fa impazzire. Ecco perché sono disponibile ad accettare questa proposta. Ma dalla prossima stagione voglio essere solo un allenatore».
Nelle parole di inizio 2001, Mancini è costantemente proiettato alla stagione successiva. Del resto, non ha il patentino per allenare in prima persona ed è stato già seduto sulla panchina della Lazio per tre mesi, anche se da assistente di Eriksson. Firma con le Foxes e continua a parlare da fido scudiero dello svedese: «Nel 1997, Eriksson aveva firmato per allenare il Blackburn ed ero in trattativa per seguirlo. Poi ha rinunciato, e c’è stata la Lazio. Qualche dritta per le convocazioni la potrò dare, spero di divertirmi. Ho chiesto consiglio a Vialli, mi ha detto che facevo bene a firmare per il Leicester. Mi mancano 3-4 partite per ritrovare la piena forma». Ne gioca cinque: quattro in campionato, una in FA Cup, senza trovare la via del gol. Una volta raggiunta la piena forma, Mancini fa la valigia e torna in Italia. Nonostante il regolamento e la voglia di fare gavetta, per lui c’è una panchina pronta in Serie A.
L’abdicazione dell’Imperatore
Con un dicembre arrembante, Fatih Terim aveva definitivamente conquistato i cuori dei tifosi fiorentini. Le vittorie su Inter, Udinese e Verona, quindi il 3-3 in casa della Juventus a inaugurare il 2001, nel giorno del tracollo laziale con il Napoli. Il capolavoro arrivato sette giorni più tardi, un netto 4-0 al Milan con le reti di Nuno Gomes, Cois, Chiesa e Rui Costa, aveva però ribaltato la percezione del lavoro del tecnico turco: non più il fautore di un futuro viola di alto livello, ma un nome in grado di cambiare la storia di altre big del calcio italiano e non solo. Piace al Milan, lo segue l’Inter, il Barcellona lo valuta attentamente, Lazio e Parma lo studiano. Mario Sconcerti e Giancarlo Antognoni gli propongono un rinnovo che non arriva.
Il 19 gennaio, Terim annuncia che non intende rinnovare: «Non gioco coi sentimenti della gente, non è il caso di continuare con il dubbio: ho deciso di lasciare la Fiorentina a fine anno. Alla squadra ho detto che dobbiamo continuare così, non voglio flessioni». Ma i risultati della Fiorentina ne risentono, i massimi dirigenti viola sperano ancora di convincerlo con ulteriori offerte. Una nuova deadline viene fissata per la metà di marzo, man mano l’interesse delle grandi (Milan escluso) per Terim scema e Cecchi Gori è convinto di poter trattare partendo da una posizione di favore. Roberto Baggio, vecchio cuore viola, fa saltare i piani. Il Brescia fa 2-2 in rimonta al Franchi e negli spogliatoi succede di tutto. Una lite di venti minuti, tra accuse del patron e risposte dell’Imperatore. Terim si toglie la giacca e cerca il contatto fisico, Antognoni separa i due, Sconcerti ordina il silenzio stampa facendo infuriare ancora di più il tecnico. Ufficialmente, il caso rientra. Ma la società viola sta lavorando sotto traccia per capire se può far diventare Roberto Mancini il nuovo mister. Stando ai regolamenti, non potrebbe: l’unica società legittimata a sceglierlo come allenatore sarebbe la Lazio. Antognoni sbotta: «Questa storia di Mancini mi ha lasciato senza parole, è fantascienza. Anzi, è roba da dilettanti allo sbaraglio, e io non opero da dilettante. Andrò avanti fino al termine della stagione, cercando di vincere la Coppa Italia. Poi, staremo a vedere. Negli spogliatoi non c’è stato nessuno scontro: Cecchi Gori prima è andato a salutare la squadra, poi si è lamentato, con il sottoscritto, per lo scarso utilizzo di Leandro».
È una pace di facciata. Terim convoca una conferenza stampa in un albergo, Antognoni assiste con le lacrime agli occhi. «Quando le cose andavano bene, ero un problema per la società, perché erano costretti a fare cose che non volevano fare. Adesso le cose vanno meno bene e il problema sono sempre io. Ho riunito tutti qui per risolvere questo problema alla Fiorentina: mi dimetto. Ho letto che se non mi dimetto creo un problema economico alla società, sono pronto a risolvere anche questo: rinuncio alla penale e allo stipendio, spero che questi soldi servano per acquistare un giocatore al tecnico che arriverà. Quello che è successo sabato è stato decisivo. Cecchi Gori è sceso nello spogliatoio, ha offeso un mio assistente, poi me. Non c’è stato contatto fisico, la verità è che lui è sceso per sfidarmi. Ho sempre rispettato i miei presidenti, ma il rispetto tocca solo a chi lo merita, io rispetto chi mi rispetta. In una delle prime interviste mi domandarono cosa avrei fatto se Cecchi Gori si fosse intromesso nel mio lavoro, risposi che neppure Dio poteva farlo. La penso sempre così».
La Fiorentina è allo sbando, Antognoni si dimette e attacca Sconcerti: «Domenica c’è stato un comunicato nel quale si confermava piena fiducia al tecnico ma, intanto, venivano contattati nuovi allenatori. Terim è stato costretto a dimettersi, io non posso seguirlo. Chi ci ha costretto? Lo hanno deciso gli scienziati. Sono arrivati personaggi che non mi piacciono. Come ho già detto a suo tempo, parlando del possibile arrivo di Sconcerti, i compagni di viaggio me li scelgo da solo. Stavolta, invece, me li sono trovati addosso, e con pieni poteri». Tra i due va in scena una lite storica, con Antognoni costretto a rispondere in diretta tv alla paradossale accusa di Sconcerti: «Tu cosa hai dato alla Fiorentina?». Proprio Sconcerti annuncia in pompa magna il nuovo allenatore: «Siamo riusciti a sbloccare una situazione tecnica molto complessa, il futuro allenatore sarà Roberto Mancini. Abbiamo scritto un’istanza al Settore tecnico, abbiamo fondati motivi per pensare che sarà accolta. È un grande uomo di calcio, una persona pulita. Pensate, non abbiamo neppure parlato di stipendio».
Foto di Grazia Neri / Getty Images.
Gestire la bufera
Stipendio o meno, Mancini non ha le carte in regola per allenare la Fiorentina. Mario Valitutti, presidente del Settore tecnico, non ha dubbi: «Le norme attuali non consentono assolutamente di effettuare due tesseramenti nella stessa stagione e Mancini è già stato tesserato per la Lazio. Non è possibile neppure fare una deroga».
Tra i principali oppositori c’è Azeglio Vicini, numero uno dell’Assoallenatori e vicepresidente del Settore tecnico. Sono due gli articoli a frenare lo sbarco di Mancini sulla panchina viola: l’art. 38 delle Norme organizzative interne della FIGC - «Nel corso della stessa stagione sportiva i tecnici, salvo diversa ipotesi prevista dall'accordo collettivo con l'Associazione di categoria, non possono tesserarsi o svolgere alcuna attività per più di una società» - e il comma 1 dell’art. 35 del regolamento del Settore tecnico: «I tecnici, nel corso della medesima stagione sportiva, non possono tesserarsi né svolgere attività per più di una società, neppure con mansioni diverse, fatta eccezione per eventuali ipotesi previste dall’Accordo collettivo con gli Allenatori Professionisti».
Le eccezioni sono due: esonero prima dell’inizio ufficiale della stagione, firma con un club estero. Nel 2001, la Federcalcio è commissariata: a capo del mondo della pedata c’è Gianni Petrucci, presidente del Coni, arrivato in corsa a sistemare le cose dopo la mancata rielezione di Luciano Nizzola. Il grande sponsor della deroga al Mancio è proprio Petrucci, che inizia a lavorare ai fianchi del Settore tecnico giocando su un presunto buco regolamentare: la regola che impedisce il doppio tesseramento nella stessa stagione riguarderebbe soltanto gli allenatori in prima e non quelli in seconda. Si tratta di un’acrobazia, e nella memoria presentata dalla Fiorentina al Settore tecnico non ve ne è traccia: i viola spingono su tre punti. Quello più forte riguarda Arrigo Sacchi e Marco Tardelli, approdati a campionato in corso al Milan (stagione 1996-97) e all’Inter (2000-01) stracciando un contratto federale. Più marginali la possibilità di tesserare senza problemi un tecnico proveniente da tesseramento straniero e il riferimento alla libera circolazione in ambito europeo.
Il 7 marzo il Settore tecnico si riunisce in una seduta sanguinosa, durata tre ore. Mancano Trapattoni (ct della Nazionale), Baresi, Bearzot e Smorto. Nonostante le pressioni, il verdetto è negativo: «Deliberiamo all'unanimità quanto segue: 1) La normativa vigente non consente il tesseramento nella corrente stagione sportiva di Roberto Mancini, in quanto già tesserato per la Lazio; 2) il Consiglio ha altresì ravvisato la necessità di una rivisitazione della norma alla luce dei nuovi scenari calcistici. Su questo punto il rappresentante degli allenatori Galgani esprime l'avviso che detta rivisitazione abbia effetto dalla prossima stagione sportiva». Non è un no secco, ma comunque un no. Mancini non può allenare la Fiorentina, pur riconoscendo la necessità di rivedere la norma sul doppio tesseramento.
Petrucci, grandissimo appassionato di basket, raccoglie il verdetto, lo appallottola e lo getta nel cestino più vicino. Decide lui, e ha già deciso da tempo di emettere un provvedimento straordinario: secondo il commissario, la norma non vale per gli allenatori in seconda. Volano gli stracci in Federazione, Vicini si dimette dal Settore tecnico: «Ritenevo che una regola non potesse essere modificata nel corso di una stessa stagione sportiva, il no del Settore tecnico rispondeva solo al rispetto delle regole in un momento in cui vengono spesso calpestate. Non pensavo che la Federcalcio, già alle prese con problemi di doping, scommesse e passaporti falsi, andasse a impelagarsi su un caso come quello di Mancini, ricorrendo ad accorgimenti che aggirano norme chiare e precise.
Il commissario straordinario Petrucci si è avvalso delle prerogative che gli competono, ma avrebbe dovuto tener conto dell'accordo collettivo con l’Associazione allenatori. S'ipotizza che la Fiorentina aveva già avuto nei giorni scorsi assicurazione che sarebbe arrivata la deroga per Mancini. Se è vero, allora si facciano i nomi». Il fronte dei tecnici è sorprendentemente compatto nel rigetto. Renzo Ulivieri, tecnico del Parma e da lì a poco nuovo leader dell’Assoallenatori, è fuori di sé: «Questa vicenda è uno schiaffo al settore tecnico e alla scuola di Coverciano, una prevaricazione dei poteri, una decisione che non fa bene al calcio, alla luce delle squalifiche inflitte in passato ad altri colleghi». Sandreani è una furia: «Potrei dire che ingiustizia è fatta. Quando ero a Padova, con il patentino di seconda categoria in attesa di prendere quello di prima, mi sono state date tredici settimane di squalifica per aver allenato». Mazzone: «Non dimentichiamo che ci sono colleghi, con tanto di patentino, che sono a casa ad aspettare una chiamata».
Marcello Lippi, a spasso dopo un avvio di stagione da incubo con l’Inter, tira l’acqua al mulino di un ulteriore cambio di regole.
Quattro mesi per un trofeo
Mancini, che fino a quel momento è rimasto in silenzio, può finalmente prendere possesso della panchina di una Fiorentina reduce da una sconfitta all’ultimo respiro contro il Bari di Fascetti. Una partita a cui ha assistito dalla tribuna, incassando il benvenuto piccato del vulcanico tecnico toscano: «Non ce l’ho con lui, ma esistono regole precise e vanno rispettate da tutti. Mi piacerebbe comprendere il valore dei contratti: come è possibile iniziare la stagione da assistente di Eriksson, proseguirla giocando in Inghilterra per poi tornare in Italia per guidare la Fiorentina? Il tutto nel giro di due mesi».
In vista c’è un’altra trasferta a Perugia, Mancini cerca di trasmettere tranquillità a un gruppo che può ancora rientrare nel plotone in lotta per l’Europa e deve giocare la doppia finale di Coppa Italia con il Parma, conquistata da Terim prima della bufera. «Ho ordinato ai giocatori di darmi del tu, ho trovato una squadra molto unita, c’è un bel clima nello spogliatoio. Chiesa e compagni mi avranno presto come avversario nelle partitelle in famiglia, faranno bene a preoccuparsi. In fondo, se giocava anche il Trap, perché non dovrei esibirmi io? Ora pensiamo al Perugia».
L’ostacolo dell’esordio non è dei più semplici, il Perugia di Cosmi è la rivelazione del campionato, un meccanismo rodato che gira senza intoppi. L’immagine del primissimo Mancini allenatore è ancora inevitabilmente vicina a quella del calciatore: entra in campo con incedere elegante, chioma fluente come da tradizione, capelli bianchi ridotti al minimo sindacale. Il primo tempo è un incubo, Di Loreto trova il meritato vantaggio umbro su invito di un ispiratissimo Liverani, capace di firmare la rete del 2-0 a pochi secondi dall’intervallo. È Enrico Chiesa a trascinare i suoi nella rimonta con un bel diagonale al volo a inizio ripresa, aiutato dai riflessi di Toldo e dalla testata di Lassissi, appena entrato per Torricelli. La ciliegina finale la piazza ancora Toldo, che ipnotizza Saudati dal dischetto e blinda il 2-2.
La vis polemica del Mancio emerge negli spogliatoi: il nuovo tecnico viola attacca duramente Vicini (a partire da 4’18”), reo di aver accostato la vicenda della deroga allo scandalo dei passaporti falsi.
L’esordio casalingo non è dei migliori (1-1 col Bologna), per la prima vittoria c’è da attendere il 9 aprile: in un insolito lunedì pomeriggio, figlio di un rinvio disposto per motivi di ordine pubblico, la Fiorentina si leva lo sfizio di battere la futura Roma scudettata. Nonostante lo slittamento, al Franchi è esodo romanista, con 4.500 tifosi giallorossi (e altri 800 entrati con tagliandi falsi) accorsi a Firenze al grido di “Semo tutti parrucchieri”.
È un pomeriggio intriso di sentimento, con il ritorno di Batistuta nella casa che lo aveva cresciuto e amato per nove anni. Finisce 3-1, la Fiorentina fa un favore allo storico nemico bianconero e Cecchi Gori, sempre incline alle sparate a effetto, si esalta in sala stampa: «Nessuno mi ha rinfacciato il mio vero errore di quest'anno: non aver preso Mancini a inizio campionato».
La stagione prosegue con qualche alto e basso di troppo, mentre esplode il caso Rui Costa: il portoghese vuole capire cosa fare del suo futuro e si scontra, neanche a dirlo, con Sconcerti. «Non sono i giocatori a dover chiedere garanzia a noi, ma è la società a chiedere garanzie di rendimento a loro». Una provocazione per nulla gradita dal numero dieci: «La mia strada la scelgo io, non entrerò certo in guerra con Sconcerti, non gli permetterò di trascinarmici, e spero di continuare ancora per anni a inseguire obiettivi importanti qui a Firenze».
La Fiorentina arriva bene alla finale di andata di Coppa Italia, battendo a domicilio il Milan (1-2) con doppietta di uno scatenato Chiesa. Già da qualche settimana, Mancini ha cambiato il volto tattico della squadra, preferendo l’assetto con Rui Costa a sostegno di un’unica punta: solo in assenza del portoghese si sono viste le due punte pure in campo. Ad attendere la Fiorentina per il trofeo c’è uno dei principali nemici della deroga: è Renzo Ulivieri, che con il suo Parma paga dazio nei minuti conclusivi della sfida del Tardini. L’ex Vanoli sigla lo 0-1 battendo Guardalben a 4’ dalla fine, Toldo in pieno recupero salva su Micoud e regala ai viola un leggero vantaggio in vista della sfida di ritorno.
Due settimane più tardi, davanti ai 38.000 del Franchi, il bottino viene dilapidato dopo 39 minuti: Junior per Savo Milosevic, che in uno dei suoi rari lampi in maglia ducale rimette il bilancio del doppio confronto in parità. Il gol galvanizza il centravanti serbo, il Parma va a un passo dal raddoppio nella ripresa: fuga dell’attaccante e cross per la testa di Di Vaio, riflesso soprannaturale di Toldo. Dopo l’intervallo, Mancini aveva lasciato negli spogliatoi Moretti per Nuno Gomes, abbandonando il 4-4-1-1 per mettersi a specchio con il Parma: è proprio il portoghese a far impazzire di gioia il Franchi, con un taglio da grandissimo attaccante su assist di Chiesa.
È l’ultimo lampo della storia della Fiorentina prima della stagione da incubo 2001-02. Una discesa agli inferi con Cecchi Gori assoluto protagonista – «Non venderò la Fiorentina, la rovinerò» - e Mancini ai blocchi di partenza del campionato. Durerà 17 partite, dopo un’estate caratterizzata da acquisti quasi concretizzati ma mai conclusi (Stankovic, Mihajlovic, Marchionni e Daniel Andersson) e un mercato di gennaio condotto spendendo il proprio nome in diverse trattative per convincere calciatori e presidenti ad accettare la piazza viola nonostante le scarse garanzie economiche. In mezzo, un girone di sofferenza e un’eliminazione in Coppa Uefa. Finisce male, con delle presunte minacce ricevute nella notte tra il 10 e l’11 gennaio e un giallo dimissioni trascinato in tribunale proprio da quei tifosi identificati come responsabili delle minacce.
A diciassette anni di distanza dalla bufera relativa alla deroga federale, la FIGC avrebbe individuato proprio in Roberto Mancini il nuovo ct della Nazionale nel suo momento più difficile. Sarebbe una sorta di rivincita per chi da calciatore non è mai riuscito a imporsi in azzurro nonostante un talento fuori dal comune, frenato da esplosioni altrui inattese, un carattere difficile al punto da risultare ingestibile e i rigidi dettami tattici dell’era sacchiana.