La notizia risale quasi a un mese fa, e arriva quando in Italia è notte: l’UFC ha aggiunto un nuovo fighter italiano al suo roster. Si tratta di Manolo Zecchini, soprannominato “angelo veneziano”, peso piuma 26enne che vanta un record di 11 vittorie, di cui 10 prima del limite, e 3 sconfitte. Tra gli addetti ai lavori Zecchini è sempre stato considerato un talento: ha esordito giovanissimo da professionista, vincendo i primi match in modo travolgente, grazie alle sue mani granitiche. Poi qualche battuta d’arresto che ne ha rallentato la corsa, ripresa ultimamente con due belle vittorie consecutive nella promotion italiana Venator. Ed ecco allora la chiamata dell’organizzazione più importante al mondo per l’evento UFC Fight Night 226 di Parigi del 2 settembre, che Zecchini aprirà combattendo nel primo incontro della main card (per una volta, dato che si svolge in Europa, a un orario umano: alle 21).
L’avversario di Zecchini sarà il francese Morgan Charriere (18 vittorie, 9 sconfitte, 1 pareggio), 27 anni, veterano del Cage Warriors e altro striker incisivo. Raggiungo Zecchini al telefono pochi giorni prima della sua partenza per la capitale francese e gli chiedo di raccontarmi i retroscena di una notizia così importante: «A ottobre ho vinto l’ultimo match che ho disputato, mettendo KO con una ginocchiata un fighter francese esperto», racconta. «L’incontro era trasmesso sul servizio di streaming di UFC e allora subito dopo la promotion ha contattato il mio manager dicendosi interessata e avvisandomi di tenermi pronto a una chiamata che sarebbe potuta arrivare con poco preavviso. Da quel momento ho continuato ad allenarmi tra Italia e Stati Uniti, come faccio da anni: da gennaio a luglio sono stato alla Jackson Wink MMA Academy in New Mexico (una delle palestre di MMA migliori del mondo, in cui si sono allenati campioni del calibro di Jon Jones e Georges St-Pierre, nda). L’anno scorso ho passato nove mesi su dodici in America… insomma l’evento UFC di Parigi è stata l’occasione giusta dato che cercavano un atleta europeo, e la promotion mi ha ingaggiato con il contratto multifight da 4 incontri, quello standard».
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«In UFC ci sono arrivato per un insieme di fattori», precisa. «Ho un bel record, ho vinto tanti match prima del limite, passo gran parte della mia vita negli Stati Uniti, ho un manager americano influente che mi ha voluto con lui». Si tratta di Jason House, titolare della Iridium Sports Agency, lo stesso che ha portato in UFC Marvin Vettori e Danilo Belluardo, e che ad oggi ha sotto contratto la maggior parte del roster dell’organizzazione di Dana White.
«Charriere è un avversario duro, prevedo che il nostro incontro vincerà il bonus Fight of the Night», continua Zecchini. «Siamo entrambi al debutto e siamo due fighter determinati, tosti, daremo spettacolo. Sull’andamento del match non ho aspettative particolari, farò tutto quello che sarà necessario per assicurarmi la vittoria. Lui sarà il beniamino di casa, ma su questo la penso come Zlatan Ibrahimovic: più il pubblico mi fischia e più mi sento vivo, i fischi mi caricano, non vedo l’ora di entrare nell’arena».
Gli chiedo se il cambio di categoria è momentaneo o se tornerà in quella di peso superiore nel prossimo futuro. «I pesi piuma sono una scelta definitiva, sono troppo leggero per i 70 chili (cioè per la categoria superiore, in cui Zecchini ha disputato la maggior parte degli incontri in carriera, nda). Io tagliavo da 74-75 chili e trovavo sempre avversari che il giorno del combattimento erano sopra gli 80. Invece a 66 chili (il limite di peso dei piuma, nda) ci arrivo sereno, poi ricarico e sono in piena forza grazie al mio nutrizionista Roberto Scrigna».
Sono giorni frenetici tra le tante (e costose) visite mediche che UFC richiede, le chiamate della stampa, gli allenamenti di rifinitura. Gli chiedo di raccontarmi di più di lui: Zecchini lo vediamo all’azione in gabbia, Manolo è ancora tutto da scoprire. «Sono nato e cresciuto a Marghera, una cittadina a 10 chilometri da Venezia, in una famiglia molto unita. Qui la situazione non è delle migliori: siamo attaccati a Mestre che è la piazza di spaccio di eroina più grande d’Europa. Su dieci miei amici stretti, sei adesso sono in comunità o in galera, oppure sono morti per la droga. Per fortuna i miei genitori hanno evitato che finissi in brutte situazioni grazie all’educazione e all’affetto che mi hanno sempre dato. In un contesto difficile hanno creato un ambiente sano per farmi crescere al riparo da influenze negative. Sono stati loro a portarmi in palestra per la prima volta a 4 anni, facevo karate».
«Lo sport mi ha insegnato tantissimo. Ero un bambino molto vivace e attivo, nelle MMA ho trovato un modo costruttivo per incanalare questa esuberanza. Ho iniziato a praticarle a 15 anni, dopo aver provato altre discipline, e durante l’adolescenza, quando alcuni miei amici cominciavano con le prime canne e con le prime sbronze, io ero focalizzato sugli allenamenti: probabilmente questa passione mi ha salvato. Poi ho avuto anche io qualche sbandamento, ma non ho mai fatto niente di grave o irrimediabile, proprio perché i miei genitori erano presenti e mi controllavano parecchio. Ancora oggi sono al mio fianco nella vita privata e nella carriera da fighter, per noi vale il motto: tutti per uno, uno per tutti. Mio fratello sarà al mio angolo all’esordio in UFC perché nessuno mi conosce come lui, sa quello di cui ho bisogno in quei momenti».
«A 17 anni ho deciso di lasciare la scuola perché volevo concentrarmi solo sulle MMA, così sono volato in Brasile per esordire da professionista. Sono partito pieno di entusiasmo grazie ad alcune conoscenze, ma dopo pochi giorni mi sono ritrovato a dormire in un posto sudicio sopra a una discoteca e in mezzo agli insetti. Ho pianto ogni singolo giorno per la nostalgia di casa ma non ho mollato, è stata un’esperienza formativa a livello di carattere, sono tornato dal Brasile che ero diventato un uomo. E il match l’ho vinto per KO al primo round contro un veterano, nonostante ci fossero 8mila spettatori che mi fischiavano. È stata una soddisfazione immensa».
Ognuno combatte per una ragione diversa. La sua qual è? «Io combatto per distinguermi dal resto delle persone e perché mi fa sentire potente. Una vita ordinaria non ha mai fatto per me, ho sempre voluto spiccare come individuo. Il mio sogno è arrivare così in alto da poter mantenere la mia famiglia: non dovrà più lavorare nessuno in casa mia perché ci penserò io a mantenerli per tutta la vita. Mia madre ora fa la casalinga mentre mio padre fa l’imprenditore, ha cambiato diverse attività nel tempo. Mio fratello invece ha un locale, lo Spritz Bar, io ho una palestra, la Fighters Angels. Non mi è mai mancato nulla, però questo non è lo stile di vita che si meritano. Voglio regalargli un futuro da godersi e in cui possano rilassarsi, combatto anche per questo. Gli devo molto e voglio ripagare l’amore e il sostegno che mi hanno dato».
Tornando alla sua dimensione da atleta, voglio sapere di più dei pro e dei contro di vivere e allenarsi all’estero. «Gli Stati Uniti sono una garanzia a livello di qualità degli allenamenti, ma se non sei un top fighter la strada è in salita perché non ti segue nessuno», spiega Zecchini. «Il modo per catturare l’attenzione dei coach è farti sentire negli sparring, picchiare più forte degli altri, così si accorgono di te e cominciano a considerarti. La vita poi è molto difficile: gli americani, almeno per la mia esperienza, sono persone cordiali ma chiuse, fredde. Tra vicini di casa magari si conoscono da dieci anni, si salutano ogni mattina ma non si ricordano neanche i rispettivi nomi. Non escono a prendersi una birra con gli amici. Io sono una persona socievole, espansiva, quindi soffro parecchio questo aspetto. E poi le ultime esperienze le ho passate ad Albuquerque, in New Mexico, un posto dove c’è solo deserto in mezzo alle montagne. Per un italiano non è il massimo…».
«Ma mi sto integrando. Ormai sono 5 anni che vado alla Jackson Wink. Dopo il match in UFC valuterò se trasferirmi in America, e dove. La prima volta ci sono andato con Marvin Vettori, alla Kings MMA, era il 2016. Il mio obiettivo è quello di riuscire a vivere in Italia e fare abbastanza soldi da chiamare gli sparring partner da fuori, farmi un camp su misura. La gavetta l’ho già fatta, ho fatto tantissime esperienze all’estero, ora so di cosa ho bisogno. E un fighter sereno, che sta bene fuori dalla palestra, rende il doppio in allenamento».
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Poi aggiunge: «In America ho lavorato sul mio stile di combattimento: all’inizio ero molto irruento, avevo fretta di chiudere il match, cercavo il colpo spettacolare prima del limite e questo mi ha portato alla prima sconfitta in carriera. Crescendo e maturando sono diventato più intelligente e stratega. Sono migliorato tanto anche nel wrestling, un aspetto chiave delle MMA che in Italia è difficile da coltivare mentre negli Stati Uniti è parte della loro cultura sportiva».
Come anticipavo, Zecchini ha avuto una rapida ascesa che però è stata interrotta da diversi incidenti di percorso: «La mia carriera è stata tormentata dagli infortuni, mi hanno operato sei volte: due volte al crociato, una al menisco, una al pollice per una frattura scomposta, una alla spalla e una al naso. Uno degli infortuni al ginocchio mi è costato un anno di stop perché ho avuto un’infezione e ho perso 11 chili. In quei momenti è difficile trovare la forza di continuare, di insistere. Ma ero ossessionato dalla UFC, volevo arrivarci, sapevo di avere le carte in regola per farcela. Lo sentivo nel sangue. Ho rifiutato contratti con Bellator, con Cage Warriors e con Ares, alcuni molto allettanti dal punto di vista economico».
Anche i fighter hanno una vita privata, che a volte può colpire più duro di un infortunio o di una sconfitta bruciante: «Ho avuto due periodi molto difficili nella mia vita: qualche anno fa mio padre è stato arrestato per tre mesi per una vicenda giudiziaria controversa, mia madre era in cassa integrazione – aveva una busta paga da 6 euro – e io ho dovuto gestire le attività di papà mentre mi allenavo. Poi per fortuna lo hanno scarcerato. Qualche mese fa ho passato un periodo ancora più duro. Ero in America quando ho saputo che avevano diagnosticato un cancro a mio padre. Poco prima che lo operassero ho ricevuto la chiamata della UFC e così ho potuto far entrare mio padre in sala operatoria con il cuore sereno. Adesso sta meglio, nella sfortuna gli è capitato un male curabile. La mia paura più grande? La sogno ogni notte: che mi succeda qualcosa per cui non possa continuare a combattere. Una malattia, un incidente, un brutto KO o peggio».
Lo lascio andare chiedendogli una sua impressione sullo stato di salute del fighting in Italia: «Da titolare di una palestra noto che ci sono sempre più persone interessate a praticare gli sport da combattimento. E il livello delle palestre italiane è cresciuto, rispetto ad anni fa la situazione è cambiata parecchio, in meglio. Il futuro promette bene».
E il futuro di Zecchini in UFC, da cui in parte dipende anche il futuro delle MMA italiane, comincia proprio il prossimo sabato.