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Maradona immortale
26 nov 2020
Ricordando il più grande genio del calcio mondiale.
(articolo)
42 min
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Dopo aver saputo della morte di Maradona abbiamo deciso di scrivere ciascuno qualche riga, come ricordo, come elaborazione. Alcuni di noi hanno visto Maradona, vissuto i suoi anni in Italia, altri per nulla. Lo hanno conosciuto come idea, identità. Per chi ama il calcio Maradona è stato tutto, il trascendente ma anche il personale, il dettaglio. Sono momenti di Maradona, trionfi e cadute, ricordi personali. Sono ricordi magari nostri, soggettivi, ma i ricordi dei più grandi appartengono a tutti.

La resistenza di Maradona

di Daniele Manusia

All’inizio della partita con la Germania, la finale del Mondiale 1986, una palla respinta dalla difesa argentina si dirige verso il fallo laterale. Maradona e un giocatore avversario corrono l’uno affianco all’altro, il numero 10 arriva per primo sul pallone ma quando lo tocca di punta mandandolo lungo la fascia il tedesco affonda la scivolata. Francamente non sembra neanche che voglia mai davvero prendere la palla, va dritto su Maradona che rotola fuori dal campo, frenato da una striscia di terriccio che precedeva i cartelloni pubblicitari. Resta per un attimo in ginocchio ma si rialza quasi subito, lasciando dei solchi sulla terra alle sue spalle e riprendendo posizione sul terreno da gioco zoppicando a testa bassa. In più di un’occasione i giocatori tedeschi, tutti più grandi e più grossi di lui, lo prendono a calci, entrando in ritardo, spesso senza neanche curarsi di intercettare il pallone; ma Maradona non si sottrae a nessun contrasto, anzi sembra tuffarcisi con la fiducia incrollabile di uscirne intatto. Maradona era anche questa sensazione di indistruttibilità.

Ed è affascinante che in quella finale, vinta 3-2 a cinque minuti dalla fine, dopo che la Germania aveva recuperato due gol, con due colpi di testa da calcio d’angolo, Maradona sia stato decisivo con una giocata essenziale, all’opposto di quelle con cui lo ricorderemo: un passaggio di prima intenzione, dall’altezza del centrocampo, che apre a Burruchaga un corridoio senza avversari che arrivava fino alla porta. Quando si parla di Maradona si tira per forza di cose in ballo la sua genialità, il talento artistico, estroverso, felice, ma si parla poco di quante botte prendesse ogni volta che scendeva in campo.

In un’intervista del 1979 a France Football, quando aveva ancora 18 anni e giocava ancora in Argentina, Maradona già si lamentava di come veniva trattato in campo. Diceva di provare orgoglio, per il fatto che le persone veniva a vederlo giocare, «perché significa che esprimo veramente qualcosa in campo. Dall’altra parte, però, prendo molti calci e gli avversari mi inseguono in ogni angolo. Ma è il prezzo del successo». Lo scorso ottobre, in quella forse è stata la sua ultima intervista in assoluto, concessa sempre a France Football (che gli ha assegnato proprio quest’anno un Pallone d’Oro ad honorem, visto che fino al 1995 i calciatori non-europei erano esclusi dal premio), Maradona ha ricordato così la sua carriera: «Ho preso alcuni colpi duri, in tutti i sensi. In campo mi riempivano di calci e nella vita venivo attaccato in ogni modo».

In quel Mondiale messicano Maradona ha subito 53 falli, più di qualsiasi altro giocatore in qualsiasi altra Coppa del Mondo (di cui siano stati raccolti dati). Ma non c’è partita, tra le molte disponibili facilmente, in cui i difensori non provassero letteralmente a staccargli una gamba ogni volta che potevano. Nel documentario di Asif Kapadia, con le immagini di repertorio girate a bordo campo (ad altezza giocatori, quindi, con una percezione della velocità più realistica di quelle in cui vengono ripresi dall’alto) uno dei momenti più impressionante è quello in cui mostra i falli che subiva in Italia appena arrivato, e che hanno spinto Maradona a una riflessione, quando il regista si è chiuso in una stanza con lui per dieci ore pochi anni fa: «Il calcio italiano era giocato a un ritmo diverso, era più duro. Mi sono dovuto adattare a giocare a una velocità differente. Ho dovuto velocizzare i tempi per entrare in gioco. Se avessi accantonato la mia tecnica per essere più veloce, sarei stato inutile. Se invece fossi diventato più veloce mantenendo la mia tecnica, sicuramente la mia tecnica non avrebbe funzionato. Dovevo trovare un equilibrio e non era facile».

Il talento di Maradona era anche questa resistenza. Ogni suo dribbling era un potenziale infortunio mancato – ed è incredibile che solo Andoni Goikoetxea, il 24 settembre 1983, sia riuscito a rompergli qualcosa, per la precisione la caviglia. Ogni azione in cui Maradona sembra fatto della consistenza delle nuvole, dei sogni, sfugge a un assalto violento di un difensore. Ogni volta che sembrava volare, facendo volare la fantasia di chi lo guarda, c’era qualcuno che voleva riportarlo con i piedi per terra. E certo, Maradona le botte le dava anche, non era un angelo, neanche in questo, ma quale angelo sarebbe sopravvissuto in quell’inferno restando puro? Però chiediamoci anche: quanta forza ci voleva, fisica, tecnica, mentale, per riuscire a fare quello che ha fatto lui in quel contesto, in quelle condizioni? Quanto dovevano essere potenti i suoi quadricipiti per resistere a quegli urti, quanto doveva essere veloce per vedere la mannaia dei tacchetti avversari che calava su di lui in tempo per evitarla e mantenere il controllo della palla?

Maradona giocava due giochi diversi contemporaneamente. Quello suo, libero, infantile, innocente; e quello dei suoi avversari, feroce, cinico, aggressivo. Accettava, lui che era alto un metro e settanta, anzi meno, il singolar tenzone a cui lo costringevano gli avversari, pur di esprimersi. Ma non illudiamoci, oggi, significherebbe mancare di rispetto al suo talento unico e irripetibile. Non dimentichiamoci che non è stato facile per Maradona essere, diventare giorno dopo giorno, semplicemente Maradona.


Live is life

di Emanuele Atturo

Una volta cancellate le righe dal prato verde e le porte alle sue estremità; dimenticate le astrazioni che lo regolano nella sua forma sportiva, messa da parte la tensione al gol, l’ansia dei risultati e il simbolismo dei trofei, al calcio per esprimersi nella sua forma più essenziale basta un essere umano e una palla. Nessuno ha reso questa idea banale una verità profonda come Diego Armando Maradona. Nessuno ci ha mostrato quanto possa essere denso e sensuale il rapporto tra una persona e un pallone. Maradona è stato l’unico calciatore a poter trasformare un semplice riscaldamento in videoarte. Come un soprano che canta a cappella, un grande pittore con un foglio e una matita, nella più grande semplicità dei mezzi l’arte di Maradona riusciva a brillare nella sua forma più pura.

È la semifinale di ritorno Coppa UEFA contro il Bayern Monaco; all’andata il Napoli aveva vinto 2-0 e quella era la partita più importante della stagione. Sul prato c’è un palleggiatore ufficiale, messo lì per intrattenere il pubblico, e Maradona vuole mostrare a quel pubblico che lui è più bravo. Se c’è Diego in campo, il mondo deve guardare Diego. C’è dell’esibizionismo, ovviamente, ma c’è anche altro. Era la partita più importante dell’anno, i compagni di squadra erano tesi e «Quello è stato il mio modo di dire ai miei compagni: eccomi! Io sono qua! Io sono qua!» disse in un’intervista a Gianni Minà anni dopo.

Maradona ha 29 anni, non ha più l’aria infantile, quasi da putto, della gioventù, ma il suo corpo ha l’elettricità sinuosa degli anni migliori. Le sue gambe, corte e forti, si muovono come prese da febbre. Scoppia di vita. Parte Live is life degli Opus, Maradona batte le mani, annuisce, agita il pugno, vibra il bacino come un serpente, poi lo fa ancheggiare in modo femminile. Gli arriva la palla, la alza con il tacco, le lascia toccare il collo del piede, una coscia, poi l’altra. Balla e ci mostra quanta poca differenza c’è, a volte, tra l’arte del calcio e quella della danza. Maradona che ballava sempre, allefeste indiane, alcarnevale di Rio, o alleelezioni venezuelane. Ballava tutto, la musica glitterata degli anni ’80 e la salsa, il rock ela house meno raffinata. Ballavanelle discoteche, sui campi da calcio,negli studi televisivi, per le strade esui balconi di Napoli. Quando il corpo era fresco e sembrava nato per staredentro camicie lucide e aperte fin sotto il petto; e quando il corpo era ormai decaduto, trasformato in una maschera oscena di dolore e sofferenza. Ma anche inquei momenti, quando quelle gambe un tempo fenomenali riuscivano a malapena a tenerlo in piedi, ballava esprimendo una sensualità e un piacere per la vita che era suo e che ci rendeva felici. Guardando Maradona giocare a calcio, o solo muovere le anche durante un riscaldamento, seguire un ritmo, assecondare una gioia interiore che debordava e ci si appiccicava addosso.

Se il video è diventato così importante, non è certo per l’abilità con cui Maradona tocca la palla. È il senso di libertà e leggerezza del corpo di Diego nello spazio. La stessa che avevasul campo di terra di Villa Fiorito o sui campi fangosi dell’inverno europeo. Più forte delle sovrastrutture e delle narrazioni che lui stesso aveva creato attorno a sé stesso e attorno al calcio,

Durante quel riscaldamento la palla gli ritorna; la scava un po’ e la calcia in alto e, appena prima che tocchi terra, la lascia accompagnare al suo piede come un neonato adagiato in una culla. Maradona palleggia col tacco, con l’esterno, ogni parte del suo corpo sembra nata per manipolare una sfera; la palla infine si ferma sulla sua testa, immobile, ricongiunta. Scivola leggera sulle sue cosce, e continua a scorrere da una coscia all’altra, le gambe alte e a ritmo, i lacci degli scarpini sciolti e liberi. Tre palleggi con la spalla sinistra, poi torna sulla testa, ferma, Maradona saltella e la palla si scuote e riprende vita piano, tornando a fare su e giù dalla sua fronte.

Attorno a Maradona la palla assume un peso diverso, una docilità che non dovrebbe appartenere a un oggetto inanimato. Sembra addolcirsi ogni volta che sta per toccare il corpo di Maradona, avvolgersi a lui. Nella scena di Youth, di Paolo Sorrentino,un Maradona obeso palleggia a torso nudo con una pallina da tennis che torna sempre a lui come obbedendo a un’orbita gravitazionale. Due pianeti, uno enorme e grottesco e uno piccolissimo, continuano ad attrarsi nonostante sembrino entità ormai incompatibili. Nel suo ultimo discorso alla Bombonera, stringendosi le spalle come per il freddo, Maradona ci ricordò la sua purezza:“La pelota no se mancha”, “la palla non si macchia”.


La rovesciata da terra

di Jvan Sica

Io Maradona lo amo. L’amore è un sentimento complesso e non sai dire quando sei ufficialmente innamorato, come fai a capire il momento esatto. Però ricordo perfettamente quando l’ho incontrato per la prima volta, questo non lo puoi dimenticare. Era estate, mio padre accende la tv per vedere il TG regionale. Io ero sotto il televisore e giocavo a qualcosa, forse con delle palline. Sento distintamente “O anema!” da parte di mio padre. Giro lo sguardo verso di lui e vedo che guarda la televisione completamente preso. Io alzo lo sguardo e lo incontro.

Controlla di sinistro e con un solo movimento a cambiare direzione fa un sombrero a un avversario e ne disorienta anche un secondo. Senza che la palla tocchi terra, controlla di nuovo di ginocchio e tira di sinistro, con quel suo movimento in controtempo che ha beffato Galli in Messico e tanti altri. Per puro caso però un difensore viene colpito dal pallone e lo frena. Un altro difensore che accorre, lo controlla male e Maradona riesce ad arrivare a contrasto. L’incoccio dei due piedi fa alzare il pallone e cadere a terra i due uomini. Con la palla perpendicolare alla sua pancia e lui completamente disteso a terra, Maradona fa una sorta di onda con schiena e cosce, così da permettere al collo del piede di colpire il pallone.

È uno di quei gol a cui non ti prepari, non ti monta l’attesa che qualcosa sta per succedere. Non era possibile anche solo pensare a quel gesto che fa Maradona e nessuno allerta i sensi e le sinapsi per accogliere una cosa del genere, che è poi un goccio di felicità, come tutti i gol della tua squadra. Non preparandoti e non capendolo, questo, come pochi altri gol nella storia, sono pura meraviglia, un’emozione innocente, bianca, candida, che non è nemmeno sfiorata dalla gioia dell’attesa. È un tempo fuori dal tempo, perché per te non ha avuto un prima. Guardo quel gol e incontro Maradona. Mi volto e vedo mio papà che sorride.


L’esordio nella Coppa UEFA 1988/89

di Alfredo Giacobbe

Il 7 settembre 1988 ho visto Maradona dal vivo, allo stadio. Era la mia prima volta, avevo dieci anni e allora non sapevo che sarebbe stata anche la mia unica. Per quella notturna, l’esordio in Coppa UEFA del Napoli contro i greci del PAOK, erano stati venduti 60.000 tagliandi, ma gli spettatori che riuscirono ad assistere alla partita furono probabilmente anche di più.

Mio padre ed io restammo in piedi per alcune ore solo per aver accesso ai nostri posti in Curva A. Le file ordinate convergevano con lentezza verso gli ingressi e man mano che ci si avvicinava al piccolo cancello di ferro, le persone si affollavano, alzavano sopra la testa le mani che stringevano i biglietti. Vedevo la mascella di mio padre contrarsi sempre di più, chissà quante volte si sarà pentito in quel percorso di poche decine di metri di avermi promesso una serata allo stadio.

Fu un’estate strana per il Napoli, quella che precedette la partita, settimane di epurazioni seguirono altri ammutinamenti. Maradona, in ritardo di condizione, non giocò bene eppure decise il match. Scattò in contropiede, frapponendo il corpo tra il pallone e il marcatore. Rimase in piedi nonostante il tentativo di fallo – una signature move maradoniana in tutto e per tutto – e servì lo scatto di Careca in area, che invece il fallo lo subì. Maradona segnò il calcio di rigore che fissò il risultato sull’1-0 finale.

Del gol non ricordo nulla. Si stava in piedi sui gradoni, era il San Paolo pre-Italia ‘90, senza copertura né seggiolini. Sbirciavo una porzione di campo sopra le spalle degli adulti, o lungo i fianchi quando alzavano le braccia al cielo. Al gol tutti saltarono, io non riuscii a vedere niente.

Bastò un lampo, nel resto della partita di Maradona non ci fu quasi nulla di memorabile. Eppure. C’era sempre un eppure quando si trattava di Maradona, c’era sempre una possibilità ai margini della razionalità che con la logica non si era in grado di scartare. Il San Paolo era una caldera a cielo aperto, Maradona era l’innesco di una camera magmatica in compressione e pronta a scoppiare a un suo segnale. Bastava che si avvicinasse al pallone e la gente cominciava a vibrare, il suono di migliaia di voci tra loro mescolate era cupo, come di rocce che si spaccano nelle profondità della terra. Si esclamava: «O i’ lloco!» O i’ lloco, eccolo, il qualcosa che sta per accadere, che deve accadere. E quando non succedeva era perché te l’eri perso tu, in un battito di ciglia.

Questa, secondo me, è l’essenza dell’esperienza maradoniana a Napoli. La certezza che non ci fossero più certezze, che tutto poteva accadere. Nove mesi dopo, gli azzurri avrebbero vinto quell’edizione della Coppa UEFA. Chi era al San Paolo la sera del 7 settembre per la prima partita, lo sapeva già.


Ultimo tango a Boston

di Fabrizio Gabrielli

Si dice che il Mondiale sia il proscenio più alto sul quale possa consacrarsi il talento di un calciatore: per Diego Armando Maradona è vero l’esatto contrario, perché erano piuttosto i Campionati del Mondo a fregiarsi della sua presenza, ad assumere - come un rapporto di coppia in base agli umori - nuances sempre differenti, nuove significanze, sottotitoli sensazionali.

Così, dopo che il Mundial messicano aveva sperimentato la sublimazione del caudillismo maradoniano (il Mondiale del trionfo di Maradona) e quello italiano la celebrazione del suo spirito più villain (il mondiale della rabbia, o della delusione più cocente, di Maradona), era francamente impensabile che l’approdo della Coppa del Mondo negli States, terra degli uomini liberi e casa di quelli coraggiosi, palcoscenico massimamente spettacolarizzante, potesse fare a meno della sua presenza, per alcuni della quintessenza stessa del calcio - di un’idea di calcio che con Diego non è nata né morta, ma ha vissuto una delle parentesi più splendenti.

Diego, nel ‘94, non è già più un calciatore professionista: dopo la squalifica per doping ha provato a riciclarsi nel Siviglia di Bilardo - dove è arrivato grazie a una mediazione che ha coinvolto FIFA, Federcalcio, il Napoli: troppo enormi gli interessi in ballo, la FIFA puntava sul suo volto per promuovere il Mondiale statunitense e sarebbe stato sacrilego assecondare una stizza che Diego era pronto a portare all’estremo compimento dell’abbandono dei campi. Se fosse un semplice calciatore si direbbe che la sua carriera, nel momento in cui lascia anche Siviglia, è nella fase massimamente calante - col ritorno in patria, al Newell’s Old Boys, a celebrarne l’epitaffio. Ma quello che si allena con Fernando Signorini nella pampa, che spreme la maglia intrisa di sudore, che vuole dimostrare in primis a sé stesso di essere ancora D10S, non è un calciatore normale: è Diego Armando Maradona.

Torna da salvatore della patria, perché in tutte le milongas d’Argentina si canta un tango con lo stesso refrain: sei pugnalatore o pugnalato, non c’è sfumatura intermedia. El Gráfico, all’indomani del partidazo del Monumental, lo 0-5 per mano della Colombia che aveva costretto l’Albiceleste allo spareggio interzonale con l’Australia per qualificarsi al Mondiale, si era chiesto se Maradona fosse colpevole o innocente, e Diego forse era stato il primo - come se dentro di sé, ancora una volta, si fosse materializzato lo scheletro di una moltitudine - a dare una forma alla sua colpevolezza, quella di aver abbandonato l’Albiceleste dopo la sconfitta in finale a Italia ‘90. E allora torna, con l’Australia, a Sydney, dopo tre anni. Si materializza in tempo per servire a Balbo l’assist per il gol dell’1-1 (al ritorno l’Argentina vincerà 1-0), disegnando ancora un arcobaleno con il suo sinistro, dopo essersi involato, aver subito uno stop brusco, essersi rialzato e aver riguadagnato il pallone con una grinta in cui c’era il talento divino rappreso nella rabbia secolare dell’uomo ferito, la rappresentazione metonimica dell’ultimo tratto della sua carriera.

A Italia ‘90 ho detestato Diego con la forza dell’odio che è capace di esprimere un ragazzino di nove anni, tutto gonfio di sentimento patrio: l’ho detestato per la supponenza che sprigionava fuori dal campo, quando guardava un punto fisso nel vuoto senza prestare attenzione alla microfolla che lo acclamava mentre l’autista dell’autobus cercava di disincastrare le ruote dal cancello dello stadio Fattori della mia città prima di un distopico Civitavecchia - Argentina pre-mondiale, e poi quando sussurrava hijos de puta a chi fischiava il suo inno prima della finale con la Germania.

A Usa 94, invece, l’ho amato di un amore immotivato, quello che sono capaci di esprimere i ragazzetti di tredici anni, quando l’ho visto accarezzare il pallone con il sinistro, una, due volte, puntare l’angolino alla destra del portiere, incastrarci il pallone con la forza della volontà, ma ancor di più quando l’ho visto correre contro la telecamera, la faccia sporca di terra e d’erba, le collane d’oro sparigliate sul collo dalle vene rigonfie, correre contro la telecamera a gridare con gli occhi pazzi la sua rivalsa, la sua resurrezione, la sua incontestabile presenza - anche se l’Argentina non era già più Diego Armando Maradona, ma una squadra piena di campioni che in qualche modo gli era sopravvissuta, e che né poteva, né avrebbe potuto, così credevano, così credevamo, prescindere. Anche se quello sarebbe stato l’ultimo gol di Diego per la sua Nazionale.

La squalifica al termine della partita successiva, con la Nigeria, la squalifica per positività all’efedrina, l’istantanea del momento in cui raggiunge gli spogliatoi per i controlli antidoping, mano nella mano con l’infermiera, l’embargo immediato che ne sarebbe seguito, dal Mondiale, dalla sede del ritiro Albiceleste, idealmente dall’Argentina tutta: è ingiusto che le ultime immagini di Diego con la camiseta che ha elevato al rango di divisa mitica siano queste.

Piuttosto preferisco conservare il ricordo dell’ultimo pallone decisivo toccato per l’Albiceleste, chissà nella sua vita di calciatore, l’assist per il secondo gol di Caniggia contro gli africani.

Un pallone semplice, quasi banale, come sono semplici e banali tutte le migliori cose di questo mondo, un pallone che racchiude tutta la sua astuzia, la furbizia, l’istinto del tricker di chi invoca la calma e imprime un’accelerazione, di chi ti invita a costruire un’arca e poi ti scaglia contro il diluvio universale. Ma soprattutto, un pallone invocato come sempre è stata invocata la sua presenza: Diego!, Diego!, il nome come davar, che è parola e allo stesso tempo sua realizzazione pratica. Come se solo pronunciare il nome, Diego, bastasse di per sé. Non è stato sempre così, ma spesso è stato così.


Maradona nel fango, pur sempre Maradona

di Matteo Gatto

Non era solo un calciatore, c’era dell’altro. Ed era qualcosa di profondamente legato al calcio, al campo e soprattutto al pallone, perché Maradona è sempre stato Maradona, non è mai diventato niente di diverso, non ha mai potuto, saputo o voluto essere un uomo tra gli uomini. Ha fatto altro, a un certo punto si è anche seduto sulla panchina dell’Argentina in un mondiale, ma non era l’allenatore, era Maradona che sceglieva la formazione dell’Argentina, che osservava gli allenamenti, che univa la nazionale dietro alla sua figura mitica e al suo nome dolcissimo, ritmato in quattro sillabe come se fossero il suono del pallone mentre lo conduceva in dribbling. “Ta-ta-ta-ta-ta”, lo possiamo sentire, prima di “genio”, prima di chiederci da che pianeta venisse, prima che venisse forgiato in un lampo il concetto di aquilone cosmico, nell’ispirazione straordinaria che prese Víctor Hugo Morales. Anche quell’ispirazione era Maradona, un essere che vibrava così tanto di talento e libertà espressiva da portare tutti con sé, da far diventare tutti più bravi e più belli, i compagni, i tifosi, il telecronista, un’intera città o nazione. Tutti Maradona, grazie a Maradona.

Ma lui molto di più. Ed è sempre stato Maradona anche man mano che la vita gli indeboliva e deformava il corpo. Nelle sue esibizioni dicalciotennis, o in partite di beneficienza in cui faticava anche solo a correre, era comunque una presenza magica, che da sola apriva a ogni possibilità, rendeva legittima ogni speranza.

C’è questa partita incredibile in cui il campo è un’arena di fango ed erba fradicia, e Maradona è comunque Maradona. Gli altri affogano, lui palleggia, si tuffa, sventaglia, gioca, con una gioia e un’efficacia e una creatività esilaranti. Immerso in quel momento, perso nell’esprimere se stesso.

Anche nel fango, nel declino fisico, nella peggiore delle sue partite, il suo essere Maradona ha trasceso le cose mondane e la realtà materiale.


Maradona ad Acerra

di Arnaldo Greco

Intorno a 4.24 si cominciano a sentire i dieci secondi di telecronaca più emozionanti che conosca. Sì, lo so, c'è quella di "barrilete cosmico", ha una storia meravigliosa, un'ispirazione divina, non lo metto in dubbio. Ma mentre quella è una partita di coppa del mondo e il gol più bello di sempre, qui si gioca un'amichevole tra Napoli e Acerra. Si gioca su un campo di fango, stavolta si può dire davvero, non è un modo di dire abusato. Vicino alla porta si intravede addirittura della segatura. Maradona si è riscaldato tra le automobili e, prima di entrare in campo, ha dovuto scattare qualche foto con dei bambini vestiti come in un film di VIttorio De Sica. Il pubblico è ovunque, ogni tanto entra perfino in campo, e sono i calciatori a mandarlo via, alzando la voce. Forse minacciando "guardate che ce ne andiamo".

È un video di cinque minuti: un montato grezzo, registrato chissà da chi e finito su YouTube chissà come. Chi aveva quella videocamera nel 1984 ad Acerra?

Quando finisce il primo tempo si vedono i giocatori avviarsi verso gli spogliatoi, forse non ci sono neanche, forse tornano alle automobili. Il Presidente del Napoli non voleva neanche giocassero, ma pare che l'attaccante Pietro Puzone fosse riuscito a convincere i compagni, perché con quella partita avrebbero potuto raccogliere i fondi per operare un ragazzino. Il pre-partita occupa più della metà del video, forse proprio perché l'aspetto organizzativo e ambientale lascia più attoniti di quello sportivo. Ma, intorno a 4.20 per l'appunto, Maradona recupera palla sulla trequarti. E un signore accanto al tizio con la videocamera capisce subito che sta succedendo qualcosa. Fino a quel momento abbiamo sentito quasi solo rumori d'ambiente, solo poche frasi o parole sono chiaramente distinguibili. Invece quando Maradona si invola si sente chiaramente "dint' a porta sul tu". Nella porta solo tu. Vai, involati, entra nella porta tu, da solo, con tutto il pallone. Man mano che Maradona avanza lo sentiamo ripetere "dint a porta sul tu". E Maradona lo fa, dribbla un difensore, ne fa cadere un altro nel fango, supera il portiere, e la palla entra lentamente in rete. Nella porta sul tu. Mentre i calciatori del Napoli festeggiano e il pubblico impazzisce si vede un tizio entrare in campo e consolare il portiere dicendogli qualcosa che sembra "hai visto che gol?".


L’assist a Caniggia contro il Brasile a Italia ‘90

di Daniele V. Morrone

«Ce l’ha Maradona a centrocampo contro Alemao, scatta Diego, porta palla anche contro Dunga e va Maradona, lì va Maradona, per Caniggia, tatata tatatatata gol gol gol gol gol». L’azione che più associo a Maradona non è un gol, ma l’assist per Caniggia contro il Brasile a Italia ’90. Per questioni anagrafiche non ho potuto vivere Maradona. Ho recuperato tantissime partite, ma le uniche immagini che ho avuto in testa per anni sono quelli di un vhs sulla storia dei Mondiali fino al 1994 che i miei genitori mi comprarono per assecondare la mia nascente passione per il calcio. Un vhs consumato a forza di rivedere quest’azione. Non è elegante in quest’azione, non c’è grazia nella tecnica, non c’è slancio nei movimenti, mi colpiva per la consapevolezza tecnica e la determinazione. Sembrava impossibile togliergli il pallone anche aggrappandosi a lui. Ammiravo il fatto che tutto lo sforzo lo portava a passare il pallone a un compagno.

Nei miei occhi di bambino Maradona è stato il primo che mi ha reso lampante il concetto di gravità in campo: non soltanto tutto ruota attorno a Maradona quando lui ha la palla, ma il campo stesso pende verso di lui. Lui sembra avere più massa, essere più veloce nel gesto. Il tempo è distorto, la protezione palla su Ricardo Rocha sembra più lunga di tutta la corsa precedente, quel passaggio è scontato ma ti sorprende quando arriva. Questa è la caratteristica principale dei fuoriclasse, mi dicevo.

Da quel momento il Maradona di Italia 90 è il mio preferito. Quello del ’90 è il Mondiale in cui è già una divinità terrena, ha già vinto con l’Argentina, con il Napoli tra le altre cose ha appena festeggiato il secondo Scudetto. Un Maradona ombroso, diffidente e polemico rispetto a un mondo del calcio che lo vorrebbe impeccabile e imbalsamato sull’altare, perché così devono essere quelli che hanno fatto quello che ha fatto lui. Non sembra divertirsi giocando, ma non immagino neanche Ercole divertirsi durante una delle sue 12 fatiche. E Maradona forse è la cosa più vicina ad Ercole che abbiamo avuto.

Quest’azione è agli ottavi contro il Brasile. L’unica altra volta che Maradona aveva affrontato gli eterni rivali ad un Mondiale è stato a quello del 1982, dov’è stato espulso. Affronta il Brasile probabilmente meno brasiliano mai presentatosi ad un Mondiale fino ad allora, Lazaroni punta sulla corsa e sulla tattica. Un brutto Brasile stando ai canoni che loro da decenni si sono dati, quasi specchio proprio all’odiata Argentina di Bilardo campione in carica veramente limata all’osso nel talento tecnico, ancora meno di quella dell’86. Un Brasile che domina una partita nervosa, colpisce anche tre pali.

Maradona per 80 minuti è quasi periferico, non impegna mai il portiere avversario. Praticamente non ha proprio toccato la palla in area avversaria. Sapremo poi che ha una caviglia già gonfia come un’arancia, a cui dal primo minuto i brasiliani hanno pensato di puntare su ogni contrasto. Ha detto al Clarín: «Avevo una caviglia in condizioni miserabili. Sembrava che la stessero afferrando con una pinza e la stessero torcendo. Non reggeva più, dopo ogni partita era una palla numero 10, non 5. Mi facevano infiltrazioni, mi facevano di tutto e addirittura mi hanno chiesto di fermarmi. Impossibile! Raramente ho provato così tanto dolore nella mia vita».

L’azione inizia quando controlla il pallone a centrocampo, circondato da 5 giocatori brasiliani, si gira fronte alla porta e tutti i compagni tranne Caniggia già sulla trequarti marcato, sono dietro la linea della palla. Davanti ad un metro scarso c’è Alemao, lui lo supera fingendo di andare a sinistra per poi toccarla in controtempo e cambiare direzione, scatta quindi con Dunga che da destra lo contrasta, con mettendo il corpo e con due tocchi protegge palla e si libera ancora. A quel punto ha davanti qualche metro senza avversari, la linea a tre attende e lui può prendere fiato. Poi esce il centrale di destra Ricardo Rocha. Maradona diventa iconico correndo appoggiandosi all’avversario mentre il pallone non è alla portata dell’intervento, l’ha toccato in controtempo per allontanarlo, lo ritocca quando è passato il tempo necessario per permettere a Caniggia di tagliare verso l’area. A quel punto la passa di destro, il piede con cui dicono non scenda neanche dal letto. Anche rivedendola ora si sente quasi il rumore delle ginocchia che strusciano per terra mentre si accascia una volta che il pallone ha lasciato il suo piede, si nota lo sguardo che segue il pallone verso il compagno e poi fino a quando la palla è in porta. Tutti guardano Maradona, lui guarda la palla.

Anche i difensori brasiliani più vicini a Caniggia se ne dimenticano e convergono verso Maradona come falene verso la luce. Sbattono tra loro in modo comico Ricardo Gomes e Galvao, quasi intontiti da quanto è raggiante l’azione del 10. Questa è la gravità di un fuoriclasse.. Quando riceve palla Caniggia è completamente solo e deve solo superare il portiere e calciarla a porta vuota. Per Maradona è solo il suo secondo assist del torneo e anche l’ultimo, con l’Argentina malconcia che segnerà solo un altro gol da lì alla finale del Mondiale. Un Mondiale che nonostante tutto è stata comunque vicina al vincere ancora, anche perché questa era la fortuna di essere la squadra con Maradona.


Quattro gol al “Loco” Gatti

di Federico Aquè

La storia attorno alla partita tra Argentinos Juniors e Boca giocata il 9 novembre del 1980 è piuttosto famosa e sembra quasi una parabola evangelica, così perfetta da sembrare irreale. Maradona ha da poco compiuto vent’anni, gioca ancora con l’Argentinos e va in campo con una motivazione particolare. In un’intervista a El Litoral di dieci giorni prima, il portiere del Boca, Hugo Gatti, ha parlato di lui dicendosi preoccupato della sua tendenza a ingrassare. Maradona viene a saperlo prima della partita, una mossa studiata con furbizia da chi gli è vicino per caricarlo, e promette vendetta: «Gli faccio quattro gol».

Può sembrare una reazione impulsiva, rabbiosa, in realtà è una profezia che somiglia a uno di quei miti classici in cui le divinità puniscono la superbia di chi aveva osato sfidarle nei modi più creativi e vistosi. Maradona mette in fila una serie così raffinata di giocate che a rivederle a quarant’anni di distanza sembrano una lezione, una esibizione esagerata di talento per dimostrare che non conveniva farlo arrabbiare.

Maradona ovviamente mantiene quanto promesso e segna quattro volte. Il primo gol lo realizza su rigore, ma dopo averlo conquistato facendo schizzare la palla sulla mano del suo avversario con una rabona. Un gesto strano e imprevedibile in quella situazione. Maradona è in area sulla destra, con la palla che scivola verso il piede meno nobile, forse prova a servire il compagno alla sua sinistra alzando la palla dietro il difensore, forse è proprio quel rigore che cerca, e lo ottiene mirando di proposito con la rabona il braccio aperto dell’avversario.

Il terzo gol è un tocco delicatissimo con l’esterno del sinistro, a superare Gatti in uscita dopo aver controllato la palla con il petto su un lancio lungo. Il quarto è una punizione dal limite dell’area, calciata qualche istante dopo essere stato letteralmente falciato mentre stava arrivando da solo davanti a Gatti. Maradona calcia sul palo del portiere, punendo la sua strana posizione avanzata con un tiro potente col sinistro che gli fa passare la palla sopra la testa prima di toccare la rete vicino all’incrocio dei pali.

Il gol più beffardo, quello più simbolico della brutta giornata fatta passare a Gatti, è però il secondo. Un’altra punizione, ma calciata in porta da una posizione molto più difficile, dalla fascia destra vicino al lato corto dell’area, ovviamente dopo aver conquistato il fallo bruciando in velocità il suo avversario. Maradona non prende nemmeno la rincorsa, si rialza e sa già cosa fare, dopo aver dato solo uno sguardo al portiere, sempre avanzato fuori dai pali. Tra il pensiero e l’esecuzione passa davvero un attimo, Maradona non sembra fare alcuno sforzo quando mira il palo lontano e calciando con l’interno va a mettere la palla lì dove aveva pensato, dopo una sola occhiata in area.

Ripensando a quella partita, Gatti dirà: «Non la dimenticherò mai. Credo che né nel Boca, né in Nazionale, né nel Napoli, Diego abbia giocato come nel 1980. E quando venne al Boca, io ero geloso pazzo di lui».


L’era delle scoperte

di Emiliano Battazzi

Il tema dell’esposizione universale di Siviglia, nel 1992, rappresentava un gancio per celebrare i cinquecento anni della “scoperta” dell’America: “La Era de los Descubrimientos”. La data di conclusione era stata prevista appositamente per il 12 ottobre - esattamente quel giorno, 500 anni prima, Cristoforo Colombo aveva toccato la terra di Guanahani, da lui ribattezzata isola di San Salvador.

Una partita di calcio sabotò completamente i piani degli organizzatori: due settimane prima del previsto, l’Expo già non c’era più. Almeno nei pensieri della gente: il 28 settembre Maradona aveva fatto il suo esordio con il Siviglia, in un’amichevole contro il Bayern Monaco.

Maradona non giocava una partita da fine marzo del 1991, in Serie A contro la Sampdoria: aveva appena finito di scontare i 15 mesi di squalifica per doping, e quell’amichevole gli serviva anche per cominciare a riprendere i ritmi di gioco. Al Siviglia quella partita con il Bayern serviva ancora di più: la tv Antena 3 aveva pagato profumatamente per i diritti tv. La strategia del Siviglia era di monetizzare subito: i 750 milioni di pesetas (7,5 milioni di dollari circa) previsti - mai saldati interamente - per l’acquisto di Maradona dal Napoli furono trovati solo grazie a un contratto faraonico con Telecinco, cioè Fininvest, cioè Berlusconi, per la trasmissione in esclusiva di una serie di amichevoli e di interviste al pibe de oro.

Diego non sembra più lui, però: i 15 mesi di assenza dai campi lo avevano appesantito, anche nell’animo. Quella sivigliana è una versione crepuscolare, intristita: Maradona è lontano da Napoli e dall’Argentina, in una squadra che ambisce a un piazzamento UEFA. Si era fatto convincere da Carlos Bilardo, in quel momento allenatore del Siviglia: insieme avevano vinto il Mondiale del 1986 e raggiunto la finale in quello del 1990. Diego vive in un hotel lontano dalla città, ma per andare in centro a Siviglia è costretto a orari impossibili: prima dell’alba, insieme a Monchi, allora secondo portiere della squadra. Solo uno dei due, però, era appena sveglio: Maradona non aveva abbandonato il suo stile di vita. In campo sembra muoversi più lentamente: si diverte a regalare assist al giovane Davor Suker, ma gli manca quella capacità di realizzare l’impossibile. Nonostante tutto, ci si accorge che è sempre lui: gioca la sua migliore partita contro l’emblema del potere costituito, il Real Madrid.

Maradona è sempre lui, anche perché abbandona il Siviglia per andare a giocare la Coppa Artemio Franchi in Argentina - una Coppa Intercontinentale per nazionali, che non ha avuto successo - finendo per litigare persino con il suo allenatore preferito, Bilardo, che lo reclamava a Siviglia.

Maradona è sempre lui, anche al Siviglia, e regala ai tifosi un gol come quello segnato contro lo Sporting Gijón, il suo penultimo in Europa. La partita è appena iniziata da meno di due minuti, e il Siviglia fa densità sulla fascia sinistra: Maradona taglia verso il primo palo sperando in un cross immediato. Diego Pablo Simeone aspetta un attimo di troppo, e quando fa partire il suo cross Maradona è praticamente fermo, con un difensore avversario addosso. Il lancio è leggermente troppo alto per lui, non può arrivarci con il petto: eppure Maradona con un saltello si inventa il controllo orientato con la spalla sinistra. Il difensore è sorpreso, si aspettava la sponda all’indietro o al massimo un controllo nella stessa zona. Con un solo tocco di spalla, Maradona si è liberato del difensore e si è sistemato il pallone sul suo piede sinistro: fa due passi, poi aspetta che la forza di gravità faccia il resto e appena prima che il pallone tocchi terra lo calcia di sinistro, ad incrociare sull’altro palo.

Un suo compagno a centro area sembra infastidito - non esulta minimamente - a sottolineare che Diego non era benvoluto come dai compagni di Napoli. L’esultanza di Maradona è rabbiosa, ma poi sembra trasformarsi in qualcosa di più emotivo: gli altri compagni se ne vanno, e lui resta abbracciato a Simeone, quasi aggrappato - sembra un abbraccio all’argentinidad.

L’ultimo gol di Maradona in Europa è appena una settimana dopo, il 31 gennaio 1993, contro l’Albacete: 12 anni dopo, Messi segnerà il suo primo gol nella Liga contro la stessa squadra.

Maradona chiude la stagione giocando solo 6 delle ultime 14 partite. Come l’Expo, anche Diego dura poco a Siviglia, ma avvia l’era delle scoperte. I tifosi del Siviglia avevano scoperto com’era fatto un Dio, con tutti i suoi capricci e le sue genialità; il Siviglia aveva scoperto una nuova fama mondiale; Maradona aveva scoperto quanto fosse difficile la vita fuori da Napoli, e aveva capito che era arrivato il momento di tornare a casa, in Argentina, lontano dal calcio europeo, per tornare all’unica cosa “que no se mancha”: il pallone.


Maradona è una storia familiare

di Marco D’Ottavi

Per me Maradona è una storia familiare. Non è una cosa che racconto spesso, o volentieri, ma mio padre era nato in un villa di Buenos Aires distante pochi chilometri da Villa Fiorito, cinque anni prima di Maradona. Lui la sua fortuna l’aveva trovata non con il pallone, ma quando i miei nonni, italiani, avevano deciso di tornare in Italia e ad attenderli avevano trovato un Paese quasi ricco e una vita piccolo borghese. Tuttavia si era sempre sentito argentino, e se ti sentivi argentino, Maradona era Dio.

Fin da piccolo è un fatto che ho accettato serenamente, come un dogma, come da italiano accetto la nostra superiorità culinaria sul resto del mondo. Ovviamente quando sono cresciuto e il mondo si è allargato intorno a me, mi sono informato. Ho visto i gol di Maradona, le partite di Maradona, il brutto film di Marco Risi e il bel documentario di Kusturica. Ho letto del Mondiale dell’86 e della sua guerra con gli inglesi. Anzi, ho approfondito così tanto Maradona e il suo essere argentino che so più cose su Las Malvinas che sul suo periodo al Barcellona o al Napoli. Ma non serviva: Maradona per me era già il più grande, perché lo diceva la storia della mia famiglia.

Per quel che vale, quindi, il mio Maradona è un pibe che palleggia da qualche parte a Buenos Aires. È la sua prima apparizione - dopotutto è così che va con le divinità - la prima volta cioè che l’Argentina lo ha visto in televisione. Maradona ha 8 o 9 o 10 anni, ognuno la racconta a modo suo, ed è già un fenomeno. La voce gira per le villas e arriva all’orecchio di Pipo Mancera, un presentatore televisivo, che lo va a cercare e lo trova. Prima di intervistarlo lo mette in uno spiazzo polveroso, una porta alle spalle e gli dice di palleggiare. Maradona ovviamente lo fa in maniera divina: il suo rapporto col pallone, anche con quel pallone che pare una pietra, è già un’altra cosa, una cosa che avremmo scoperto tutti più avanti. Sta lì e palleggia, col sinistro, con la testa, una volta la tocca anche con il destro. Anni dopo racconteranno che la pellicola è finita ancora prima che il pallone potesse toccare terra una volta ed è facilissimo crederci: la fede è un patto implicito.

L’avrò visto mille volte quel video, ma ogni volta mi torna alla mente che lì da qualche parte tra i curiosi ci poteva stare mio padre, anche se non è possibile; che quella è la storia della mia famiglia, anche se non è vero. Maradona se ne sta a fare Maradona, con sullo sfondo una miseria che fa male, che la puoi vedere nella grana delle immagini e io non posso far altro che pensare “erano quelle le scarpe che portava mio padre? Giocava anche lui in posti così?”. È un riflesso incondizionato, una narrazione che mi sono costruito e non la realtà (ma insomma, cos’è la realtà?). La mia famiglia era meno povera? Sicuro. La loro villa meno miserabile? Certo. Mio padre, poi, non sapeva palleggiare così anche se era nato a pochi chilometri da quel campo brullo. Eppure c’è una forma di riscatto in quei palleggi di Maradona, la prima di una vita passata a riscattare gli altri, che sento familiare. Una terra che è lontana, ma che ogni volta che lo vedo giocare sento vicina. Dopo i palleggi dice due cose: la prima è che sogna di giocare un Mondiale, la seconda è che sogna di vincerlo. Il Mondiale poi lo ha vinto, come solo lui ha vinto un Mondiale, riscattando un popolo intero, e anche un po’ mio padre penso io.

Mio padre è morto nel 1994, prima di vedere il suo idolo portato fuori dal campo come un criminale. Chissà cosa avrebbe pensato. Chissà cosa ha pensato nel 1986, nell’88, nel ‘90, ieri. Ogni volta che Maradona faceva o diceva qualcosa, ogni video che ritrovavo in televisione o su internet pensavo a mio padre, a cosa avrebbe detto. Lui è cresciuto con Maradona, ma io non sono cresciuto con mio padre. E allora ogni tanto pensavo che c’era un po’ di lui in Maradona. Non era vero, ma che bello.


Maradona per quelli che l’hanno vissuto

di Dario Saltari

Ho passato le ultime ore della mia vita a leggere ricordi di gente che aveva visto o vissuto Maradona, anche solo per un istante. Gente che lo ha visto da lontano allo stadio, o ha anche solo sentito un suo gol, coperto dalle schiene di chi gli era davanti in tribuna o in curva. Perché è quello che si fa quando passa un grande personaggio, che è l’equivalente in carne d’ossa di un evento storico in movimento. Si è sentito in dovere di dover scrivere qualcosa, ad esempio, anche Peter Shilton, portiere dell’Inghilterra che è stato beffato dalla mano di Dio e che, nonostante siano passati più di 30 anni e sia passata anche la morte ad appianare tutto, ancora non ce la fa a perdonare Maradona. Talmente offeso dal fatto che non abbia chiesto scusa per quel fallo di mano, da arrivare a dire che il Gol del Secolo arrivato pochi minuti dopo forse non ci sarebbe mai stato senza.

Poi, però, c’è un altro piano, diverso da quello delle persone che pensavano di conoscerlo o che hanno visto la propria vita cambiare solo per la sua presenza - il piano, cioè, delle persone che lo hanno conosciuto davvero, che hanno passato con lui alcuni dei momenti più significativi delle proprie vite, che ci hanno lavorato insieme per larghe parti della propria vita. Una di queste è per esempio Jorge Valdano, che insieme a Maradona e Burruchaga, ha sostenuto l’attacco dell’Argentina al Mondiale del 1986. Valdano, ieri, era in una trasmissione di commento della giornata di Champions League e, incalzato dalla presentatrice che chiedeva dei suoi ricordi del “Pibe de Oro”, non ce l’ha fatta a trattenere le lacrime. Anzi, di più, non ce l’ha fatta proprio a parlare.

L’effetto che Maradona ha avuto sulle vite delle persone con cui ha condiviso una parte della propria vita è stato devastante, e penso che non riusciremo mai davvero ad esprimerlo a parole - noi che non l’abbiamo mai vissuto in quel modo. Forse l’unico modo per avvicinarsi è riportare quello che è successo nelle ultime ore della vita di Carlos Bilardo, allenatore di quella Argentina del 1986, e “padre in campo”, se così si può dire, di Maradona. Oggi Bilardo ha 82 anni ed evidentemente il fratello Jorge deve prendersi cura di lui quotidianamente. In un’intervista ad AS ha dichiarato che, una volta saputa la notizia, ha dovuto spegnere il televisore che suo fratello stava guardando, perché non voleva che lo venisse a sapere in quel modo. «Diego è stato il figlio che non ha mai avuto», ha dichiarato Jorge Bilardo, che chissà, magari potrebbe non dirglielo mai. Se la vostra vita è diversa dopo aver visto Maradona magari a centinaia di metri da voi, come un puntino azzurro su un campo verde, pensate cosa deve essere stato viverlo per anni, come un figlio.


In realtà Maradona non rompe le leggi della fisica è tutto il contrario

di Fabio Barcellona

La notizia della morte di Diego Armando Maradona mi è giunta mentre camminavo per strada, con un messaggio nella chat della redazione di Ultimo Uomo che, in quel momento, stava discutendo delle statistiche di tiro di Haaland. Di botto, all’improvviso, in quel momento ho avuto la sensazione, netta, che anche una piccola parte di me se ne sia andata per sempre. E mi ha sorpreso.

Il 3 novembre del 1985 al San Paolo di Napoli si gioca Napoli-Juventus, nona giornata di serie A. I bianconeri hanno vinto le prime 8 partite di campionato e tutta l’Italia non juventina si augura che Maradona e compagni possano fermare la marcia della capolista che rischia di uccidere il campionato. Non io, che ho 13 anni, tifo per la Juventus e ho come idolo Michel Platini. È un periodo d’oro per essere juventini: la Juve ha raggiunto 3 finali europee di fila giocando il miglior calcio del continente e Michel Platini ha vinto tre volte di fila il titolo di capocannoniere e si appresta a vincere il terzo Pallone d’Oro consecutivo. Un mese dopo la partita contro il Napoli la Juventus vincerà la sua prima coppa Intercontinentale proprio contro l’Argentinos Juniors, la prima squadra di Maradona.

Nella mia testa di tredicenne Maradona è un giocatore di enorme talento, ma non rappresenta un reale pericolo per il dominio della Juventus e di Platini. Ha scelto di andare a giocare nel Napoli, che non ha mai vinto uno scudetto nella sua storia, e nella prima stagione in Italia il suo arrivo non ha evitato un mediocre ottavo posto in campionato alla sua squadra. Certo, anch’io riconosco che si possano ritrovare alcune perle nel cammino di Maradona in Italia: il gol allo stadio Olimpico di Roma contro la Lazio dopo uno scambio volante con Daniel Bertoni e, al ritorno, la tripletta con un gol direttamente da calcio d’angolo e con un pallonetto da trenta metri. O, ancora, il gol contro la Fiorentina in uno stadio Franchi innevato, sinistramente simile, per i tifosi italiani, al gol che in Messico segnerà con la maglia della nazionale allo stesso Giovanni Galli e il pallonetto a Giuliani, suo futuro compagno di squadra, appena 15 giorni prima del match contro la Juventus. Ma insomma, la Juventus è distante e Platini il suo miglior giocatore.

La partita si gioca sotto la pioggia ed è molto dura. Alla fine del primo tempo Salvatore Bagni e Sergio Brio vengono espulsi dopo essersi reciprocamente sgomitati. Il Napoli ci prova e la Juventus è in una di quelle versioni remissive da trasferta in campionato in cui il pareggio, in un calcio in cui la vittoria vale solo 2 punti, viene considerato una mezza vittoria. A circa un quarto d’ora dalla fine, l’arbitro Redini concede al Napoli un calcio di punizione in due in area per un intervento di Gaetano Scirea su Bertoni.

La punizione è uno dei momenti iconici della carriera di Maradona. Sull’eccezionalità dell’esecuzione e del gol sono stati spesi fiumi di inchiostro. Una delle iperboli più utilizzate è quella della sfida della traiettoria del pallone alle leggi della fisica. La barriera della Juventus, composta da 6 uomini alti mediamente 180 centimetri, è, ad occhio, distante circa 5 metri dal pallone, molto meno della distanza regolamentare di 9.15. La porta poi, alta 244 centimetri, è troppo vicina per poter immaginare di calciare sopra la barriera e far ricadere la palla al di sotto della traversa con una velocità sufficiente da farla entrare prima che ci arrivi il portiere. E infatti, a mia memoria, nessuno prima di Maradona e nessuno dopo Maradona ha mai provato a calciare una punizione di seconda in area come quel 3 novembre 1985. Da sempre, ci si fa toccare corto il pallone e si calcia forte cercando di trovare un varco nella barriera.

In realtà Maradona non rompe le leggi della fisica. Sarebbe impossibile. È tutto il contrario. Da puro genio del pallone Maradona conosce e padroneggia le leggi della meccanica newtoniana in maniera naturale e tutto ciò che un professore di fisica descriverebbe riempiendo di equazioni una lavagna lui lo comprende istintivamente con un collegamento diretto tra il cervello e il suo piede sinistro. Capisce che ha bisogno di 30 cm in più di spazio per definire la traiettoria immaginata e lo comunica a Eraldo Pecci, che non crede alle sue orecchie e non conosce la meccanica come il suo capitano. Però si fida (e come non potrebbe farlo?) delle parole di Maradona e gli tocca il pallone verso la sua sinistra. Comprende perfettamente la forza e la rotazione da imprimere col suo piede sinistro a quella sfera bagnata di 70 centimetri di circonferenza e di cui ha calcolato il peso dopo che la pioggia ha aumentato gli iniziali 420 grammi da asciutto, affinché scavalchi la barriera e cada sotto l’incrocio dei pali prima che Stefano Tacconi, un portiere alto 188 centimetri possa giungere in tuffo orizzontale ad incontrare con le mani la traiettoria del pallone.

La Juventus vincerà il campionato, ma sarà l’ultimo dell’era Trapattoni. Dovrò aspettare quasi dieci anni per vedere la Juve vincere ancora uno scudetto. Platini si ritirerà dal calcio l’anno dopo. Al termine della stagione Maradona farà vedere meraviglie in Messico e l’anno dopo porterà il Napoli alla conquista della serie A.

La punizione di Maradona, la sua perfezione geometrica che unisce la fantasia dell’immaginazione all’eleganza della perfetta aderenza alle immutabili leggi della fisica, è stato uno spartiacque per il ragazzino di 13 anni che ero allora. La Juventus non era più imbattibile e a fare meraviglie su un campo di calcio non c’era più solo Michel Platini. C’era Maradona che mi aveva fatto rimanere a bocca aperta facendo cose che non riuscivo nemmeno ad immaginare.

Per Maradona la naturale ma perfetta conoscenza della meccanica newtoniana applicata al suo corpo, alla sfera e al moto di altri 21 corpi nei quasi 7000 mq di un campo di calcio ampliava a dismisura lo spettro del possibile, oltre l’immaginazione di qualsiasi altro giocatore.

Io giocavo a calcio e volevo giocare come Platini. Durante la mia carriera giovanile ero un centrocampista offensivo che teneva la maglietta fuori dai pantaloncini e cercava, quando possibile, di mettere la palla sopra la testa dei difensori avversari per cercare un compagno in profondità, come Platini faceva con Boniek. Era possibile provare a giocare come Platini. Ma non ho mai provato a calciare una punizione come quella di Maradona. Non ci ha mai provato nessuno. E non ho mai provato a giocare come Maradona. Era impossibile. Non ci è mai riuscito nessuno. E il vuoto e la tristezza, inaspettate nella loro intensità, provate al momento della notizia della morte di Maradona, hanno a che fare con quel tredicenne che amava il calcio e che, da quella punizione in poi, era rimasto emozionato infinite volte dalla bellezza di un’opera d’arte in movimento quale era Diego. Non c’è più, sono più vecchio, solo e triste. Ma posso dire di avere visto Maradona.


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