Si potrebbe iniziare da Villa Fiorito, che poi è davvero dove tutto è iniziato, il 30 ottobre 1960. E farlo con le sue parole: «Sono nato in un quartiere privato. Privato di luce, acqua e telefono». O dalle Cebollitas, la squadra di piccoli fenomeni rimasta imbattuta per 136 partite prima di cadere per colpa di un rigore sbagliato proprio da lui. O dalla meravigliosa telenovela di Napoli: lui, capopopolo di gente che somigliava in tutto e per tutto alla sua, in quel barrio di Buenos Aires fatto di case basse, case abusive, case mai finite e altre mai iniziate. Quartiere eternamente provvisorio, proprio come provvisoria – da sempre – è Napoli, che affida le sue sorti al sonno pesante del Vesuvio. La Napoli dei trionfi, degli eccessi, dell’adrenalina e della cocaina, di giocate impossibili e dei figli illegittimi.
Si potrebbe iniziare dallo stadio Azteca di Città del Messico: quello in cui seppe mescolare alto e basso, truffa e genio, la Mano de Dios e il gol del secolo contro l’odiata Inghilterra. Il tutto in soli 4 minuti. A quattro anni dalla guerra delle Malvinas, che però si chiamano Falkland, perché in mare hanno vinto quegli altri. Ma all’Azteca…
Invece siamo su un taxi cubano e l’autista, diretto a Santa Clara – la città dov’è sepolto Che Guevara, l’altro argentino più famoso al mondo – indica una sfilza di cartelli e murales con su scritto "Revolución": «Rivoluzione. Rivoluzione. Rivouzione. Ci prendiamo in giro da soli. La rivoluzione è una fiammata, non una brace. Tu l’hai mai vista una rivoluzione che dura 60 anni?». Quelli che compiva un anno fa Diego Armando Maradona. Un altro che, come Cuba, aveva smesso da tempo di fare la rivoluzione. Anche se non se n’è mai accorto. Eppure, proprio come Cuba, lui la sua piccola, grande rivoluzione l’ha fatta davvero. Era fiamma, Diego. Non brace.
Maradona è stato insieme ribelle, sognatore e fuggitivo, le tre categorie in cui Osvaldo Soriano, argentino come lui, mise in fila i suoi eroi. Sognatore perché, ancora ragazzino, diceva alla telecamera: «Ho due sogni. Uno è giocare il Mondiale, l’altro è vincerlo». Farà entrambe le cose. Dando indirettamente ragione a un altro ribelle, sognatore e fuggitivo: Bruce Springsteen. Un irregolare, un gringo, come lo avrebbe chiamato Diego, ma un gringo sui generis, che a Maradona sarebbe piaciuto se mai si fosse messo ad ascoltarlo. E che in "The River" cantava: "Un sogno non realizzato è una bugia. O qualcosa di peggio".
Fuggitivo perché Maradona è sempre andato più veloce di tutto e tutti, non solo degli avversari. Scappò dalla povertà esordendo a soli 15 anni, 11 mesi e 20 giorni con l’Argentinos Juniors. La prima giocata? Un tunnel a tal Cabrera del Talleres Cordoba. Diego fu un elettrochoc per il calcio argentino di fine anni ’70. Quando andò via dal suo primo club, a 20 anni appena compiuti, aveva già segnato 116 gol. Passò velocissimo – ma tutt’altro che inosservato – per la sua squadra del cuore, il Boca, costretto a cederlo dopo appena un anno perché non poteva permetterselo. Scappò da Barcellona, ingrata. A Napoli fuggì da se stesso e da un giocatore talmente grande da schiacciare l’uomo. Durò pochissimo a Siviglia, appena cinque partite al Newell’s Old Boys, lo spazio di un gol da urlo e di un urlo alla telecamera a Usa ’94. Per poi diventare nomade delle panchine e collezionare periferie del pallone (ultima tappa il Gimnasia La Plata, dopo un giro nella B messicana e uno negli Emirati) rincorrendo stancamente il mito di se stesso.
Per capire Diego il ribelle, basta vedere la strafottenza con gli inglesi il giorno dell’Azteca, il suo sposare la causa del Napoli per arrivare all’impossibile, portare lo scudetto al Sud, impresa fino a quel momento riuscita solo al Cagliari di Gigi Riva. E le sue battaglie contro la FIFA, Havelange, Blatter, Bush. Insomma, tutto quel che sapeva di potere, colletti inamidati e bombe intelligenti. Maradona amava la guerriglia. L’ha fatta. In campo e fuori. Ammiratore di Fidel, di Hugo Chavez, del subcomandante Marcos. Dove c’era da sporcarsi le mani, e i tacchetti, Maradona c’è sempre stato. Per quello non ha mai fatto nulla per andare d’accordo con Pelé, la sua nemesi. «Un calciatore che ha vissuto pensando alla carriera politica. Uno schiavo che ha venduto il suo cuore alla FIFA… Uno che, se non avessi fatto le cose brutte che ho fatto nella vita, diciamolo, Pelé non sarebbe nemmeno secondo».
Cosa s’intende per ribelle (dal dizionario, "colui che rifiuta obbedienza e sottomissione")? C’è un video su Youtube dal titolo fin troppo didascalico, "Diego Maradona al Boca Juniors è stato incredibile", che lo spiega benissimo. Lo vedi subito che lui non risponde alle stesse regole degli altri. Tocca il pallone in un modo tutto suo, le giocate sono improvvise, figlie di idee che gli altri stentano a capire, vedi compagni che sbattono senza nemmeno accorgersi su palloni telecomandati, portieri costretti a fare figuracce dove la figuraccia non era prevista. A un certo punto c’è un avversario che prova a staccargli una gamba. Lo salta. Un altro gli pianta un gomito nel collo. Niente da fare. L’azione dopo spunta il calcio volante di uno che giureresti lo vorrebbe ammazzare. Va avanti così per 8 minuti. Non lo prendono praticamente mai: è surreale, è bellezza, è calcio, è arte: è, tocca ridirlo, guerriglia.
Diego – così lo chiamano gli argentini tutti, come fosse un vicino di casa, il carrozziere di fiducia, quello che chiami per arrivare a dieci a calcetto – perderà un po’ del suo lato selvaggio una volta in Europa. Dei due anni a Barcellona non si può non ricordare l’intervento killer del difensore dell’Athletic Bilbao Goikoetxea, che quasi gli costò la carriera. In Catalogna ci stava lasciando una caviglia e la voglia. Ritrovò tutto a Napoli, dove iniziò la cavalcata verso il Mundial ’86. Il suo apice. Quelli che dicono che era meglio Pelé ricordano sempre che il brasiliano ha vinto tre Mondiali e Diego uno, dimenticando che quello del 1962 i verdeoro lo giocarono quasi per intero senza la loro stella. E le squadre degli altri due titoli erano imbottite di campioni. Diego portò sul tetto del mondo una squadra che senza di lui avrebbe faticato a uscire persino dal fortunato girone in cui era stata sorteggiata con gli allora dilettanti della Corea del Sud, una Bulgaria modesta e una selezione di vecchie glorie italiane in gita premio dopo il Mondiale vinto quattro anni prima.
L’onda lunga del trionfo in Messico – dove Diego dominò la semifinale con il Belgio e orchestrò il successo per 3-2 contro i tedeschi – portò al primo scudetto del Napoli.
Lì finisce la guerriglia, e un bel po’ di poesia, e inizia la guerra. E Diego non sarà più lui. Fortissimo, il più forte di tutti, per ancora un paio di stagioni. Poi sempre più nella parte del generale in carrozza e non del rivoluzionario con il fango alle caviglie. Quando vince il suo secondo scudetto con il Napoli, nel ’90, è decisivo quanto malinconico e assente, quando a fine stagione gioca il Mondiale italiano – poi perso in finale tra i fischi dell’Olimpico – è perennemente incazzato. La positività alla cocaina durante un test antidoping, nel marzo del 1991, segna l’inizio della fine («In estate abbiamo battuto l’Italia, l’inverno io e Caniggia eravamo due dopati, due criminali da allontanare. Gli altri non prendevano nemmeno un’aspirina…»).
La gioia di giocare a calcio del ventenne che gli avversari provavano a fermare con le cattive o con le cattive, perché con le buone non c’era verso, è sparito. Entrerà e uscirà da cliniche di disintossicazione, lo vedremo ingrassare a dismisura, uscire da un’auto in fin di vita, dire e fare cose sconclusionate.
Lo troveremo perfino presentatore tv e ct dell’Argentina (in Sudafrica nel 2010), e ancora resta da capire in quale dei due ruoli fosse più fuori posto. Ma resta il miglior calciatore di cui ci siano abbastanza immagini per giudicarlo. Uno che con le regole di oggi, in cui gli attaccanti vengono ipertutelati, probabilmente ripeterebbe il gol del secolo con l’Inghilterra – quello dove scarta mezza squadra e appoggia la palla nella porta vuota – una partita sì e una no. E forse, nonostante le mille telecamere di oggi, proverebbe anche a fare l’altro. Sì, lui. Insomma, lei: la Mano de Dios. Perché i ribelli, sentendosi sempre e comunque dalla parte della ragione, a volte non resistono, esagerano. È nella loro natura.
D’altronde, come aveva spiegato lui stesso alla fine del bel documentario "Maradona by Kusturica": «Io sono la mia colpa e non posso rimediare». Lo hanno fatto altri per lui, la prima moglie Claudia, gli amici, gli ex compagni, il calcio argentino che, un anno fa, dopo 227 giorni di stop per pandemia, ripartì proprio il 30 ottobre, nuovo "giorno nazionale del calcio". Il Natale di Diego. Era ancora vivo, sembrava eterno, sebbene sempre a flirtare - nei suoi picchi e nelle sue cadute - con il divino, l’aldilà. Morirà 25 giorni più tardi: senza risorgere (nonostante avesse dato origine a un culto tutto suo), anche perché non se n’è davvero mai andato. In ogni angolo d’Argentina, non solo a La Boca, ma laddove non ti aspetteresti mai, c’è almeno un murale a omaggiarlo: tra le cascate e i tucani di Iguazù, nella Rosario del Che dove giocò solo 5 partite (abbastanza per dare il nome a un settore dello stadio, la "popular", quale sennò), tra i lama e i canyon dell’Argentina del noroeste, quella che se ti ci catapultano sembra già Bolivia. O giù, giù, in Patagonia. Prima o poi, statene certi, spunterà lui da qualche parte. Diego, Diego, Diego. Oltre la fine. Fino alla fine del mondo.