David Foster Wallace sosteneva che Terminator 2 di James Cameron avesse inaugurato un nuovo genere di film che sarebbe diventato egemone nel decennio successivo e che DFW chiamava: «il Porno a Effetti Speciali». Secondo lui non era neanche un film vero e proprio, quanto cinque o sei scene spettacolari, «goduriose», amalgamate da un’ora e mezza di narrazione «ridicolmente insulsa». (Ovviamente, nel resto del pezzo passava in rassegna le molteplici ragioni per cui Terminator 2, uscito nel 1992, cioè sei anni prima del saggio di Foster Wallace, non solo avesse avuto successo al botteghino ma fosse anche precursore di film come Jurassic Park o Independence day – e, aggiungo io, si è perso il successo ancora maggiore dei blockbuster della Marvel, che hanno dilatato quel tot di scene goduriose fino a mangiarsi l’intero film).
Vent’anni dopo questa idea di narrazione pornografica si è infilata nel genere dei documentari sportivi. E non è un caso se è proprio durante il lockdown, in assenza di sport dal vivo, che The Last Dance ha avuto il suo incredibile successo, proprio come il porno, che ha vissuto un momento particolarmente fertile, se così si può dire, durante la pandemia (e in generale nella maggior parte dei casi si guarda quando non si scopa). Chissà se Espn e Netflix hanno fatto un ragionamento simile quando hanno deciso di anticipare la data di pubblicazione da giugno ad aprile, prendendosi il rischio di cominciare mentre gli ultimi episodi erano ancora da montare.
Certo, The Last Dance avrebbe avuto un successo simile anche senza Covid-19 ed è diventato un caso culturale in grado di attirare sia gli impallinati NBA e i fan di Jordan che erano ragazzi negli anni narrati dal documentario, quanto i neofiti che avevano solo una vaga idea di chi fossero quei Chicago Bulls e che prima ancora di vedere gli ultimi due episodi hanno comprato online il loro primo paio di Nike Jordan 1. La narrazione della stagione del sesto anello di Michael Jordan, della chiusura del secondo three-peat come chiusura della saga dei suoi Bulls, è poco più di una scusa per mettere in mostra una quantità incredibile di materiale da bava alla bocca, di tiri eroici in momenti decisivi (gli effetti speciali qui sono fondamentalmente le qualità cestistiche, il carisma e la competitività di Jordan, oltre a una colonna sonora particolarmente azzeccata) che soddisfano ogni nostro bisogno epidermico legato all’intrattenimento sportivo.
La parabola ascendente dell’eroe Michael Jordan, con giusto qualche intoppo lungo la strada (i problemi col gioco d’azzardo, la morte del padre, quell’anno in cui il più forte giocatore di basket di tutti i tempi aveva deciso di giocare a baseball) per non farla sembrare ridicolmente facile, è talmente perfetta e ogni puntata di The Last Dance è così godereccia che chi ha osato criticarlo (qui Dario Vismara) è passato per rompicoglioni. Ma il piacere di vedere TLD è così grande anche perché il documentario si propone come un prodotto assolutamente non problematico, come una tautologia: Michael Jordan ha vinto perché era un vincente e se non vi piace guardare dieci puntate di una serie in cui Michael Jordan vince su tutto e tutti, il problema è tutto vostro.
Sarà. È evidente però che TLD solleva un discorso sul metodo con cui oggi si fanno documentari di questo tipo. Anzitutto perché non è l’unico documentario sportivo che le piattaforme digitali hanno prodotto in collaborazione con i soggetti stessi del documentario (All Or Nothing: Manchester City, Sunderland ‘Till I Die, ma spulciando nei cataloghi si trovano biografie di Griezmann, Kroos, Sergio Ramos, Benzema), e il suo successo prelude ad altri documentari di grandi vincitori come Tom Brady e i Lakers di Magic Johnson.
In fondo è un metodo in linea con i tempi che corrono e che anzi realizza il sogno bagnato di addetti stampa e calciatori, quello di un mondo sempre più in “prima persona”. Un mondo in cui gli sportivi si “comunicano” da soli (più o meno) sui social network, dando l’immagine di sé che preferiscono, rispondendo direttamente alle domande dei tifosi in eventi “ama” (ask me anything), rilasciando comunicati anche importanti (vedi la splendida lettera di Rashford al Parlamento inglese) che un tempo magari sarebbero passati per le mani di un giornalista o di un giornale. In cui le squadre passano dai propri siti, con interviste e articoli in stile The Player’s Tribune (con l’aiuto più o meno sapiente di ghost writer, cioè) e in aperto conflitto con gli organi di stampa tradizionali smentiscono su Twitter eventuali voci spiacevoli.
Niente di male dal loro punto di vista, sia chiaro, d’altra parte anche i giornali con la ricerca del virgolettato polemico e della critica magari gratuita hanno contribuito all’aumentare delle distanze. Il problema sorge – o almeno dovrebbe – per gli spettatori, che devono digerire un racconto sportivo sempre più simile alla pubblicità. E non è un caso se alcuni dei prodotti migliori, parlando di cultura sportiva, sono proprio delle pubblicità, tipo quella della Nike dello scorso maggio che avrebbe dovuto ispirarci a... tornare più forti di prima da una pandemia mondiale come se fosse una finale persa?
(Ma la cosa più buffa è che mi rendo conto da solo che molte persone sono state realmente ispirate dalla voce fuori campo di Lebron James, e che il mio punto di vista è anacronistico).
Anche mettendo da parte l’evidente conflitto di un soggetto che ha il controllo finale su un prodotto, impossibile da ignorare anche dando per scontata la buona fede di Michael Jordan, non riesco a digerire del tutto l’operazione di ulteriore elevazione di quella che era giù una leggenda assoluta dello sport e della cultura popolare. The Last Dance è davvero pornografico per come drammatizza e assapora quei momenti che hanno reso grande Michael Jordan – disponibili anche su YouTube – e li usa per proiettare una luce dorata sul resto della sua figura pubblica e privata. Michael Jordan è semplicemente divino, una specie di buddha consumistico che splende di luce propria e fuma sigari inestinguibili, in una villa bianca con vista mare che non è neanche sua ma rende bene l’idea del paradiso in cui immaginiamo trascorra il suo tempo un dio.
Michael Jordan ne esce - non senza ragione – ancora più leggendario, ancora più lontano dalle persone comuni. Prendete la scena più “profonda”, quella di cui si è parlato. MJ parla del prezzo che ha pagato per il suo successo, cioè quello di essere risultato antipatico a un certo numero di compagni di squadra (comunque un numero infinitamente minore rispetto a quello delle persone che ancora oggi lo venerano, aggiungo io), e a un certo punto dice che le persone che pensano che sia stato un tiranno lo fanno perché probabilmente nella loro vita non hanno mai vinto. Non sanno cosa significa. È la tautologia di cui sopra: ho vinto così perché si vince così.
Il fatto è che la stragrande maggioranza delle persone non ha mai vinto niente e se per criticare Michael Jordan come uomo è necessario aver vinto almeno quanto lui, beh, quasi nessuno può farlo. Questo è il piedistallo da cui Michael Jordan ci guarda. Non sarà così nella vita di tutti i giorni, non lo so, ma è così nel documentario. Perché quando si commuove alla fine di quel discorso e chiede una pausa finisce lì.
L’ultima parola spetta a MJ, in campo come davanti alla telecamera.
Adesso però parliamo di Diego Maradona, il documentario di Asif Kapadia (autore anche di quelli su Ayrton Senna e Amy Winehouse). Le differenze tra Maradona e TLD sono molteplici, a cominciare da quella di metodo.
Praticamente la sola ragione per cui The Last Dance esiste è che a un certo punto del 2016 Michael Jordan ha deciso di dare il via libera all’utilizzo di immagini esclusive sulla stagione 1997/98, che da allora erano rimaste inutilizzate. Il resto sono partite video delle partite d’epoca e interviste di compagni e avversari (Jason Heir dice di aver parlato con più di cento persone in totale) che anche a distanza di anni non si capacitano di quanto fosse straordinaria la sua competitività.
Anche Kapadia per Diego Maradona è partito dal materiale inedito di due cameraman amici di Maradona, Juan Laburu e Gino Martucci, che lo avevano seguito a Napoli negli anni raccontati e hanno ripreso alcune partite da bordo campo, con la camera ad altezza d’uomo. Ma per completare il puzzle è stata necessaria una squadra di ricercatrici che lo ha aiutato ad arrivare a 500 ore di immagini inedite, contrattando licenze e convincendo collezionisti privati (tra cui la famiglia di Maradona). Alla fine anche in questo caso le immagini sono goduriose, ma Kapadia aveva una storia in testa da raccontare a modo suo.
I punti di vista “interni”, per capirci, compreso quelli di Maradona, emergono sotto forma di voci fuori campo: parlano tutti lentamente, a bassa voce, come se si fossero appena svegliati e stessero raccontando un sogno che temono di dimenticare.
La solitudine di Michael Jordan è eroica, il prezzo da pagare per aver vinto tutte le finali che ha giocato; quella di Maradona è una condanna. The Last Dance è la storia di Superman che scopre da giovanissimo di avere i superpoteri, di non essere di questo mondo, che “ha cambiato il basket”; Maradona è una discesa agli inferi soffocante. E già vedere le cose in questo modo, quando si parla di Maradona, è una piccola rivoluzione copernicana: quello che era visto come il diavolo in persona, l’inizio e la fine dei suoi problemi, per Kapadia era un uomo.
Insomma, i due documentari compiono operazioni opposte: TLD isola Jordan, lo chiude in una sfera di cristallo con la neve che cade dall’alto e lo spara nell’iperuranio, lo astrae dal contesto fino a trasformarlo in un’idea semplice (il più semplice possibile), fatalista, di successo, e così facendo glorifica la competizione; Maradona ci restituisce l’interezza di una figura ambivalente, riconcilia l’essere umano con la figura popolare – come dice il suo preparatore Fernando Signorini: anche prima della caduta c’è sempre stato da una parte Diego e da un’altra Maradona – riportandolo nella complessità dei suoi legami senza giustificarlo o “perdonarlo”.
Confrontando The Last Dance e Diego Maradona dovremmo chiederci cosa vogliamo dagli sportivi, cosa vogliamo che siano per noi: dei modelli ideali o delle persone in carne e ossa? È una domanda che ci facciamo almeno da trent’anni. In un’intervista del ‘91 a Gianni Minà, Maradona diceva già: «La realtà è che io non me la sento più di essere un simbolo, di rappresentare qualcosa, di reggere tutto lo stress che procura questa macchina, questo calcio. Confesso la mia incapacità, la mia fragilità, anche se la mia presunzione, il mio orgoglio mi facevano apparire diverso».
Maradona intervistato da Gianni Minà durante la preparazione per Italia '90.
Maradona, il documentario, ci offre un’alternativa: se invece di considerare gli sportivi di alto livello come uomini soli, che ce la fanno contro tutto e tutti perché quello era il loro destino, li considerassimo come uomini che hanno delle relazioni con quello che li circonda?
Maradona racconta di una trasformazione, e per capirlo basta vedere la prima scena, in cui Diego si guarda intorno stupito mentre nella conferenza stampa di presentazione – nei sotterranei del San Paolo, con i tifosi che da sopra una grata cantano il suo nome – il presidente Ferlaino se la prende con un giornalista che ha parlato di camorra. Diego dice che a Napoli cerca «la pace» che non ha avuto a Barcellona, all’inizio sembra persino timido. Poi però le persone che lo circondano iniziano a soffocarlo (alcune immagini di Maradona che cammina in mezzo alla folla, in pelliccia, sembrano video di un canotto in mezzo alle rapide), lui inizia a esagerare con la cocaina e il legame con la camorra si stringe. Ferlaino lo costringe a restare a Napoli - «Sono stato il carceriere di Maradona» - e lui si aliena gli italiani durante il Mondiale del ‘90.
Quando l’atmosfera inizia a farsi oscura Maradona si trasforma anche fisicamente: ingrassa, l’espressione del volto diventa truce, i capelli non sono più un cespuglio soffice ma una massa di fili unti e appiccicosi. Poi arrivano i problemi legali, le intercettazioni in cui chiede che gli vengano portate delle prostitute, il processo in cui viene accusato in modo un po’ pretestuoso di spaccio, il controllo positivo all’antidoping. L’inizio della sua fine sportiva è la fine-fine del film, la fine di Maradona resta fuori dal documentario.
Kapadia fa qualcosa che è al tempo stesso più complesso ma anche più onesto intellettualmente di quanto fatto da Kusturica, che nel suo documentario presenta Maradona dicendo che «niente sarebbe più facile che immaginarsi Diego in Gatto Bianco Gatto Nero, nei panni di un uomo che è il suo peggior nemico, che fa di tutto per farsi del male». Alla fine di Maradona riesce a farci capire, senza dirlo esplicitamente, che le cose sono andate come noi – inteso come il pubblico dell’epoca – volevamo che andassero. Come segretamente, inconsciamente, la società moralista e giustizialista italiana, conservatrice e classista fino al midollo, fino all’autolesionismo, desiderava che finisse la storia di un ragazzo povero con un talento più grande di sé. Polvere eravamo e polvere ritorneremo.
Pochi mesi dopo l’addio di Maradona a Napoli, l’11 maggio 1991 (quattro anni esatti dopo il primo scudetto), un comitato chiamato “La classe non è acqua” ha organizzato a Castel dell’Ovo il convegno «Te Diegum», per elaborare quel lutto improvviso. Nel comunicato stampa scrivevano: «Simbolo è ciò che lega insieme; e ciò che mette insieme è un aspetto della cosa e il suo opposto. Dove non c’è doppio non c’è dubbio!».
Trent’anni dopo, questo genere di riflessioni sono ancora più di attualità. Perché va bene spararsi dieci puntate di The Last Dance come se non ci fosse un domani – e forse non c’è – ma cerchiamo di non dimenticare una cosa sempre meno ovvia: i grandi sportivi sono uomini che vivono in mezzo ad altri uomini.